Michelangelo Frammartino. Alberi
Una sala cinematografica abbandonata è invasa dalla vegetazione: si potrebbe pensare a un’immagine di rovina, come le sale spettrali che aprono il recente The Canyons di Paul Schrader, un deterioramento fisico che evoca la disgregazione non tanto del cinema in sé, quanto della sala come dimensione della sua esperienza. Il luogo è il vecchio cinema Manzoni, sontuosa struttura in cui sessant’anni fa si celebravano gli ultimi fasti di quello che Siegfried Kracauer chiamava il “culto della distrazione”: gli affreschi classicheggianti dell’atrio, gli ottoni appannati, il carminio sbiadito delle passatoie e del linoleum – una pompa già disseccata quando il cinema chiuse definitivamente nel 2006. Nell’immensa platea, accomodati sulle poltroncine o sprofondati nelle morbide sedute disposte in una radura davanti allo schermo, nell’oscurità avvolta da fruscii e sussurri di bosco, emergono lentamente cime di alberi oscillanti, puntate verso un cielo che si apre in un’aurora.
ph. Elisa Testori
Il cinema come tempio in rovina, disertato dagli umani e riguadagnato dalla natura? Decisamente no. Già allestita in spazi espositivi più consoni all’arte contemporanea, come il MoMa PS1 di New York e il Den Frie di Copenaghen, la cine-installazione Alberi di Michelangelo Frammartino arriva a Milano in una forma che è piuttosto quella di un’invasione rigenerante: tanto nel rituale in essa rappresentato quanto nell’idea che l’autore e il curatore Luca Mosso hanno avuto di collocare la ciclicità del rito e il loop del video in una sala riconquistata al cinema, anche se solo per pochi giorni, durante il festival di Filmmaker.
Frammartino ha ridato forma a un antico culto arboreo lucano legato alla figura del “romito”, uomo-albero, interamente ricoperto d’edera, che in inverno girava battendo il suo bastone alle porte delle case per la questua: il mimetismo arcaico, probabilmente legato ai riti agrari di fertilità, si è coniugato, nel tempo, con l’anonimato di cui spesso preferisce ammantarsi l’indigenza. Una presenza solitaria e silenziosa che qui diventa il nodo di un rituale collettivo: non più una maschera vegetale isolata, ma una moltitudine di romiti sciama da un piccolo borgo attorniato dai boschi e vi rientra, lo attraversa e lo trasforma col suo movimento.
Lo stormire delle foglie è stato uno dei dettagli che da subito catturarono l’attenzione degli spettatori alle prime proiezioni cinematografiche: semplice meraviglia della mobilità di un mondo silenzioso e solo apparentemente inanimato, che nelle sequenze di movimenti di Alberi si ibrida con i gesti e la figura dell’uomo, assorbendoli. Una “piccola rivoluzione” rappresentativa: la figura umana inghiottita dallo sfondo naturale su cui solitamente si staglia, dissolta nelle vibrazioni che a un tratto rianimano e mettono in moto quello sfondo. Alcune storie si trovano, s’intuiscono appena, come increspature che si espandono in uno specchio d’acqua, accennano a disegni che, allora, possono essere sviluppati, naturalmente.
Similmente Frammartino ha seguito il fruscio del fogliame, che dalla Festa dell’abete di Alessandria del Carretto, ripresa nel film precedente Le quattro volte (2010), l’ha portato in Lucania, a Satriano, dove la figura del “rumit” sopravvive nel corteo del carnevale, e poi ad Armento, il villaggio che ha scelto per le riprese. Insieme alle comunità del luogo l’autore ha ripensato un rituale, ben lontano dal kitsch delle ricostruzioni storiche da fiera: raccogliendo resti sparsi, depositati in strati semi-coscienti della vita popolare, li ha rimontati e trasfigurati, dando loro una forma e un senso nuovi, un’idea comunitaria in cui l’immemoriale delle tradizioni contadine s’intreccia alla modernità già invecchiata del cinematografo: anche il suo dispositivo è infatti qualcosa che può essere riattraversato e trasformato.
Un rituale segna una soglia solo per infrangerne altre: così il ciclo in cui si avvolge l’opera è condizione per una forma aperta, che si espande e si contrae “come una fisarmonica” e che sarebbe sbagliato ricondurre alla classica linearità filmica. “Rompere i confini” tra film e spettatore, mettere quest’ultimo in una posizione il più possibile libera e attiva, è una tensione presente già nei film precedenti di Frammartino, nella profondità e durata delle sue inquadrature, costruite come un campo aperto di forze lente, ma attive e molteplici, come le tante file di uomini-albero che qui formicolano in alcuni totali.
Alberi sviluppa questa tensione, innestandola su un anello interminabile, a cui ognuno accede dove capita, cominciando a costruire il proprio film: piacere smarrito dei tempi in cui si poteva entrare in sala ad ogni momento, anche a film inoltrato, e restare per la proiezione successiva – cinema permanente, così si chiamavano le sale che un tempo, a Parigi, programmavano titoli per dodici ore di fila. È su questa idea, così popolare e così sovversiva, che insiste Frammartino presentando Alberi, senza certo dimenticare l’affinità con i modi di fruizione tipici della videoarte (tutt’altro che estranea al suo lavoro, del resto), ma cercando di trovare una congiunzione fra storie, contesti e piaceri che, a prima vista, potrebbero sembrare distanti. Un intreccio di dispositivi che in questa sala enorme, deserta e ora ripopolata per il tempo di un nuovo rituale, s’illumina di un barlume utopico: verrebbe da pensare che occasioni simili possano diventare qualcosa di più di un ritrovo elitario – forse momenti in cui si prova almeno ad immaginare una comunità un po’ migliore.
Alberi di Michelangelo Frammartino
Prodotto da Vivo film in collaborazione con Rai Cinema
Dal 29 novembre all’8 dicembre al Cinema Manzoni, via A. Manzoni 42, Milano.
www.filmmakerfest.org
[le espressioni tra virgolette sono estrapolate da alcune dichiarazioni rilasciate dall’autore durante un’intervista]