Akihito / La rivoluzione silenziosa dell’Imperatore
La successione imperiale davanti al popolo narcotizzato dall’euforia consumistica
In mezzo a un lunghissimo ponte storico durato 10 giorni di seguito, davvero inimmaginabile per un popolo di stacanovisti, il 30 aprile 2019 l’Imperatore Akihito ha abdicato e il giorno dopo il suo primogenito Naruhito è salito al trono. Con la successione degli Imperatori è cambiato dopo 30 anni anche il nome dell’era, da Heisei (平成) a Reiwa (令和). Ma cosa ha significato questa successione per il popolo giapponese? L’atmosfera nella società nipponica in quei giorni appariva più che euforica, non tanto per l’evento storico in sé, quanto piuttosto per gli innumerevoli annunci di saldi ed eventi commerciali ovunque si andasse, spinti dal capitalismo sfrenato, concentrato a sfruttare voracemente qualsiasi pretesto. E tutto questo mood festante sembrava francamente servisse solo a narcotizzare ancora una volta la coscienza del popolo giapponese che non si è mai domandato seriamente, da oltre 70 anni, sullo status problematico del loro Imperatore, definito dalla Costituzione “simbolo della nazione e dell’unità del popolo giapponese”. In cosa consiste questo status simbolico dell’Imperatore giapponese? Iniziata tre anni fa con un discorso alla rete televisiva nazionale, la faccenda dell’abdicazione in vita di Akihito, molto discussa tra gli specialisti, ma soprattutto aspramente criticata dai conservatori, ha dimostrato una volta di più quanto sia importante la rivoluzione silenziosa portata avanti da Akihito sul suo essere simbolico, ma anche la perfetta inettitudine del popolo giapponese a seguire questa sua innovazione storica.
Imperatore simbolico
Per comprendere la portata della rivoluzione di Akihito, proviamo a rivedere insieme cosa si intende esattamente con “Imperatore simbolico” secondo la Costituzione giapponese.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, gli USA, temendo che l’URSS potesse invadere il Giappone, decisero di mantenere in carica l’allora Imperatore Hirohito, occultando le testimonianze che potessero rivelare le sue responsabilità sul conflitto, per agevolare l’occupazione degli Alleati senza sconvolgere ulteriormente una popolazione già duramente colpita e insieme sfruttare a loro vantaggio la sua autorità carismatica.
Così nasce “l’Imperatore simbolico”, uno status prescritto dai primi otto articoli della nostra Costituzione. È davvero una pura anomalia che i primi articoli della costituzione di un paese democratico moderno non parlino del popolo in cui risiederebbe la sovranità, ma dello status e degli obblighi dell’Imperatore. Questi articoli vennero introdotti dagli americani allo scopo di preservare una certa sacralità dello status imperiale ereditario e allo stesso tempo di privarlo di ogni possibilità di agire ed esprimersi politicamente. Tutto per impedire il riarmo del Giappone (anche se in realtà anche noi abbiamo un esercito vero e proprio che si chiama Ji-ei-tai, letteralmente “Forza per l’autodifesa”, che in teoria non dovrebbe mai attuare la sua forza).
Così, a partire dal 1946, il Giappone ha un Imperatore che esiste, sostanzialmente, solo come “funzione istituzionale” e non come un vero essere umano a cui siano riconosciuti i diritti civili fondamentali alla pari di ogni altro cittadino. L’Imperatore giapponese non è iscritto all’anagrafe, in questo senso dunque non fa parte della popolazione giapponese ufficiale. Non ha libertà di scegliersi un mestiere, dunque non può fare altro che l’imperatore né può smettere di essere Imperatore. Non può sposarsi senza l’approvazione del governo. Ha il compito di ratificare il governo, nominare i ministri, convocare le Camere, sciogliere la Camera bassa, ecc., ma senza alcuna possibilità di obiettare o di opporsi. In sostanza è un puro esecutore di compiti statali, un “timbratore”, non è considerato come un vero e proprio soggetto pensante che possa agire con la propria testa e il proprio corpo. Per gli americani, all’epoca, come confidò il brigadiere generale Bonner Fellers che in Giappone aveva il compito di proteggere Hirohito da un’eventuale incriminazione per il ruolo svolto durante la guerra, non importava niente di come sarebbe stato il futuro del sistema imperiale giapponese: agli USA bastava superare quel momento delicato, anche se la soluzione adottata avesse lasciato un’eredità molto problematica. In uno stato moderno e democratico non dovrebbe esserci una persona del tutto priva di diritti fondamentali. Invece da noi lo sancisce addirittura la Costituzione.
In realtà, lo sfruttamento politico dell’Imperatore come “funzione istituzionale” non è un’invenzione americana dell’ultimo dopoguerra. Sin dall’avvento del Giappone moderno, cioè quando, alla fine dell’era dei samurai nella seconda metà dell’Ottocento i nuovi leader politici riesumarono il giovane Imperatore Meiji (Imperatore dal 1867 al 1912) e lo imposero come capo carismatico, la strumentalizzazione politica del suo status ammantato di sacralità era iniziata.
Pochi sanno però che l’aura sacra dell’Imperatore, che sembra oggi risalire a un’epoca antichissima, è invece un prodotto di fine Ottocento a cui contribuì in modo significativo anche Edoardo Chiossone, pittore e incisore genovese all’epoca ingaggiato dalla zecca giapponese: fu lui infatti a disegnare il ritratto dell’Imperatore Meiji che poi venne riprodotto fotograficamente e diffuso in tutto il paese spacciandolo per fotoritratto. Questa finta fotografia, passata alla storia come go-shin-ei (御真影:letteralmente “figura vera”) eserciterà un’enorme influenza quasi magica sulla psiche dei giapponesi.
Per tornare all’ultimo dopoguerra, possiamo dire che gli americani hanno solo sfruttato appieno un aspetto del sistema imperiale giapponese preesistente. Ed è questa l’essenza dell’Imperatore simbolico che esiste solo come funzione istituzionale. La sua “persona” non è umanamente considerata dalla Costituzione. Se il sistema è durato fino a oggi, si deve unicamente al fatto che nessuno dei quattro Imperatori moderni (Meiji, Taisho, Showa e Heisei) ha mai protestato (anche se probabilmente non avrebbero potuto). In altre parole, sono “ostaggi” o meglio “prigionieri” istituzionali pubblicamente accettati. L’effetto narcotizzante del loro status carismatico (seppure ormai sensibilmente ridotto) occulta indubbiamente tutto questo agli occhi della gente, ma si può capire perché l’Imperatrice Masako, consorte del nuovo Imperatore Naruhito, una ex diplomatica di carriera, appaia sempre così triste. Non è difficile immaginare come una persona che entri adulta in quell’ambiente possa trovare insopportabile viverci. La cosa ancora più assurda, però, è che da sempre e ancora oggi, quando la famiglia imperiale si presenta al pubblico, la folla esclami “Viva l’Imperatore!” senza che la sorda sofferenza di quelle persone prive di diritti e di dignità passi mai per la mente di chi le osanna.
Il discorso imperiale
Torniamo al controverso discorso di Akihito. Tutta la faccenda ha avuto inizio quasi tre anni fa, quando l’8 agosto 2016, sul canale della televisione statale NHK, Akihito ha pronunciato l’ormai celebre “discorso imperiale sul suo ruolo simbolico”, che molti media hanno sbrigativamente presentato come “annuncio dell’abdicazione”. In realtà “il discorso” non conteneva alcuna dichiarazione chiara dell’intento di abdicare, anche se la volontà di compiere quel passo era ampiamente allusa. Se Akihito avesse apertamente annunciato l’abdicazione, il “discorso” sarebbe sicuramente stato giudicato incostituzionale. La Costituzione prescrive infatti che la successione imperiale avvenga alla morte dell’Imperatore, e la possibilità per l’Imperatore in carica di fare commenti o obiezioni sul suo status non è prevista (ovvero è proibita) dalla Costituzione.
Questo “discorso” sfiorava abilmente il limite per non incorrere nel rischio di incostituzionalità, ma non ha mancato di scatenare molte polemiche. Al di là dell’incostituzionalità o meno dell’intervento televisivo di Akihito, ci sono state molte discussioni sulla questione dell’eventuale abdicazione in vita, non prevista dalla Costituzione (dimenticando che nella lunga storia del Giappone pre-moderno si contano addirittura 57 precedenti tra i 124 Imperatori nipponici prima di lui). I principali motivi di obiezione all’abdicazione in vita erano tre: 1. Dopo l’abdicazione, l’Imperatore abdicatario potrebbe esercitare influenze dannose sul suo successore. 2. Potrebbe verificarsi la situazione in cui l’Imperatore possa essere costretto ad abdicare contro la sua volontà. 3. Se l’Imperatore potesse liberamente abdicare, lo stesso atto di annunciare l’abdicazione potrebbe in futuro assumere significati politici importanti, eventualità non ammessa dalla Costituzione. Vale a dire: un futuro Imperatore potrebbe usare l’abdicazione per esprimere il suo dissenso contro la politica del governo.
Le stesse obiezioni erano già state sollevate oltre trent’anni fa, ma sono piene di contraddizioni. Quanto al punto 1, la Costituzione giapponese prevede in casi particolari la reggenza, e un eventuale Reggente non potrebbe forse esercitare “influenze dannose”? Il punto 2 paventa una situazione che vada contro la volontà dell’Imperatore, ma dimentica che attualmente la volontà dell’Imperatore non è affatto contemplata dalla Costituzione. Il punto 3 rivela proprio l'intrinseca contraddizione della carta costituzionale: che la Costituzione stessa costringa un individuo (l’Imperatore) a non esprimere mai la sua opinione.
Alla fine, si è deciso di istituire una “commissione di saggi” per elaborare una legge speciale (poi promulgata il 16 giugno del 2017) valida solo in questa circostanza, senza andare a modificare il Kōshitsu Tempan, il Codice della famiglia imperiale.
In realtà, il focus del “discorso” di Akihito non era posto sulla questione dell’abdicazione, ma su un altro argomento: la sua ricerca sul ruolo dell’Imperatore simbolico. Akihito sottolineava nel “discorso” quanto egli “abbia riflettuto quotidianamente sul suo ruolo da simbolo definito dalla Costituzione” e abbia sempre cercato di attuarlo nel migliore dei modi per “partecipare attivamente alla società” e “rispondere alle aspettative del popolo”, oltre al “suo dovere di salvaguardare la tradizione”. E in effetti Akihito da quando è salito al trono ha sempre fatto molto più di quanto prescriva per lui la Costituzione, ma facendo in modo che nemmeno gli ultraconservatori potessero criticarlo (anche se inizialmente non sono mancate critiche). Questo suo attivismo è stato davvero inedito, un passo davvero storico, mai mostrato dai suoi predecessori.
Imperatore attivista
Nel “discorso”, Akihito sottolinea “l’importanza di stare accanto alle persone, di ascoltare le loro voci e di accogliere i loro pensieri in caso di necessità”. Sta alludendo alle sue azioni più importanti intraprese in occasione delle numerose calamità (terremoti, tsunami, esplosioni vulcaniche, tifoni, ecc.) che hanno colpito il Giappone nei trent’anni in cui è rimasto in carica. A partire dal giugno 1991, da quando violenti flussi pirocrastici del vulcano Fugen-dake hanno colpito Shimabara, nella prefettura di Nagasaki, Akihito e la moglie Michiko si sono sempre recati sui luoghi funestati da grandi calamità per confortare le persone sfollate.
Inizialmente fu molto forte la critica da parte dei conservatori, nazionalisti e nostalgici, che avevano ancora in mente una figura imperiale del passato, intrisa di sacralità. Perché va ricordato: l’imperatore del Giappone è stato fino al 1945 per i suoi sudditi una sorta di dio in terra, misterioso e inafferrabile, e soprattutto infallibile. Un monarca assoluto cui obbedire con fede cieca e al quale essere pronti a dare la vita. Non potevano accettare che l’Imperatore Akihito s’inginocchiasse sul pavimento del rifugio per sfollati per parlare con persone comuni ponendosi al loro stesso livello. Effettivamente fu un’immagine molto forte per i giapponesi. Ma negli anni questo suo gesto gentile è diventato un’icona molto popolare e quando, l’11 marzo 2011, la regione nordest di Tōhoku è stata colpita da un fortissimo terremoto (M9.0) e da uno tsunami devastante, nessuno ha più osato criticare questo suo gesto. In quell’occasione l’Imperatore, nonostante le sue precarie condizioni di salute, ha ripetuto la visita (sempre a/r in giornata, sempre a una distanza considerevole) per sette settimane consecutive in varie località dell’ampia regione colpita.
Inoltre, nel 2005, Akihito ha voluto recarsi all’Isola di Saipan, la maggiore delle isole Marianne Settentrionali che fu teatro di una tremenda battaglia della Guerra del Pacifico costata la morte di 55.000 soldati giapponesi, 3.500 soldati americani e 900 abitanti locali, per pregare per le vittime della guerra. Nonostante le accese polemiche sulla presunta incostituzionalità della sua azione, Akihito l’ha voluta fortemente e l’ha realizzata.
Niente di tutto questo è scritto nel Kōshitsu Tempan, il codice normativo che secondo la Costituzione definisce tra le altre cose anche le azioni dell’Imperatore. Akihito non aveva l’obbligo di fare niente di tutto questo, ma l’ha voluto e l’ha fatto, dimostrando che, a differenza dei suoi predecessori moderni, il suo status di “simbolo” non è una presenza passiva, ma si realizza solo compiendo azioni reali di grande umanità tra la gente, soprattutto tra chi è in difficoltà. L’Imperatore, nella concezione che ne ha dato Akihito, si reca in luoghi anche lontani per incontrare le persone, le conforta e prega per la ricostruzione, per il futuro e per la pace. Poiché realizzare tutto questo può essere faticoso considerando che l’imperatore ha già tantissimi obblighi statali, quelli sì già prescritti da eseguire, la sua volontà di abdicare (anche se ricordiamo che nel “discorso” non è menzionata) viene proprio da questo punto. Se le sue condizioni fisiche non gli consentivano più di fare tutto questo, allora non avrebbe più potuto esercitare il suo ruolo di Imperatore simbolico, perché per Akihito quel ruolo doveva necessariamente includere tutte quelle azioni faticose da compiere con grande umanità in mezzo alle persone.
Si dirà: cosa c’è di tanto strano o di così rivoluzionario nel comportamento di Akihito? In fondo tutto ciò rientra tra i compiti del rappresentante di una nazione, indipendentemente dall’istituzione che incarna, monarchia o repubblica che sia. E questo è senz’altro vero in Occidente: il capo di stato che non mostrasse di sentire e condividere il lutto per un evento funesto abbattutosi sulla nazione che rappresenta, o anche la gioia e l’orgoglio per i successi da essa conseguiti, verrebbe probabilmente criticato dai suoi concittadini. Ma fino a Hirohito e anche dopo la guerra, all’Imperatore giapponese non si chiedeva un comportamento così attivo. Invece possiamo dire che, in maniera molto silenziosa ma decisa, e senza trasgredire in alcun modo alle norme dello status simbolico, Akihito ha voluto allontanarsi il più possibile dal modello dei suoi predecessori.
Sicuramente, prima di decidere di annunciare “il discorso”, l’Imperatore e il suo entourage hanno calcolato accuratamente il suo effetto ed erano sicuri di una favorevole accoglienza da parte della popolazione. E hanno avuto ragione. Difatti, con l’80% dell’opinione pubblica che sostiene la volontà dell’Imperatore, nemmeno il governo ultraconservatore di Abe ha potuto opporsi più di tanto.
Umanità allo status imperiale
Ryuta Imafuku, un noto antropologo e saggista giapponese, ipotizza anche un altro fattore dietro la decisione di Akihito: i pesanti ricordi del periodo prima e dopo la morte del padre Hirohito. Dal ricovero di Hirohito in ospedale fino alla sua morte, a cavallo tra il 1988 e il 1989, c’è stato un lungo periodo di quasi quattro mesi molto particolare, durante il quale tutto il popolo giapponese sembrava trattenere il fiato di fronte al loro dio che si stava spegnendo. Senza che ci fosse una proibizione vera e propria, tutti si trattenevano dal fare qualcosa di festoso, o fastoso, o rumoroso. No emperor, no party. Nessuno si aspettava che potesse accadere un fenomeno sociale del genere nel Giappone moderno. A ripensarci ora, credo che si fosse creata quell’atmosfera perché il lutto per Hirohito, in realtà, non era un lutto per una persona reale, era il lutto per lo stesso sistema dell’Imperatore simbolico, e ciò rendeva molto complesso e oppressivo il clima nel Giappone di allora che sembrava non finire mai. Si dice che durante quei mesi abbiano tenuto artificialmente e inutilmente in vita Hirohito solo per far iniziare la nuova era nell’anno nuovo (ufficialmente è morto il 7 gennaio 1989).
Dopo la sua morte è iniziato il periodo di mogari, una specie di veglia funebre religiosa molto lunga, che è durato due mesi. Poi una serie di cerimonie funebri che si sono protratte per circa un anno. E nel frattempo bisognava procedere contemporaneamente con le cerimonie di insediamento al trono del nuovo Imperatore. Imafuku fa notare l’assurdità disumana delle esperienze davvero pesanti e dolorose che lo Stato imponeva ai familiari dell’Imperatore. Quell’occasione, più di altre, metteva in evidenza come l’Imperatore esistesse solo come istituzione nonostante egli fosse un essere umano vivente (o defunto). È facile ipotizzare che Akihito abbia sviluppato forti dubbi al riguardo e abbia voluto evitare ai suoi un’altra esperienza simile.
Strumentalizzazione del kaigen (il cambio di era) da parte del governo di Abe
L’opinione pubblica che ha sostenuto la decisione di Akihito è stata mossa più emotivamente che razionalmente, e purtroppo temo che i cittadini non abbiano riflettuto a sufficienza sul messaggio che Akihito ha voluto lanciare con il suo “discorso”. I giapponesi si sono tuffati nell’euforia consumistica senza rispondere all’invito di Akihito di riflettere insieme. Invece i politici conservatori che hanno un’idea reazionaria dell’istituzione imperiale, come il premier Abe, hanno cercato di arginare questo Imperatore troppo liberale per i loro gusti cercando di intervenire in qualche modo sul testo del “discorso” e di strumentalizzare l’occasione del kaigen (改元, il cambio di era) solo per aumentare il loro prestigio.
La nuova era si chiama Reiwa (令和). Rei (令) significa “bella”, “raffinata”, ma nel senso di “in ordine”, “senza sbavatura”. Wa (和) significa “armonia”, “concordia”, “pace”. Il significato in sé sembra anche bello. La commissione che aveva il compito di proporre il nome della nuova era ha scelto tra le varie proposte queste due parole prese da una poesia del Man'yōshū, la più antica antologia di poesie giapponesi risalente alla seconda metà dell’VIII secolo, che racchiude oltre 4000 componimenti di autori appartenenti a tutte le categorie sociali, a cominciare da vari imperatori e nobili ma anche contadini, soldati, artigiani e monaci. Ma citare un classico giapponese per il nuovo gengō (元号: il nome dell’era) è una novità assoluta nella storia del Giappone. Fino all’era precedente Heisei (平成), tutti i gengō del passato hanno avuto origine nei classici cinesi. Quindi è una chiara discontinuità rispetto alla tradizione, una direzione voluta dal governo. Il sociologo Shinji Miyadai ci legge un meschino tentativo sovranista del governo attuale che vuole diminuire dal nostro vocabolario le tracce della Cina, un vicino diventato troppo scomodo. Peccato che storicamente la nostra civiltà sia così strettamente fusa e connessa con quella cinese, a cominciare dagli ideogrammi – come gli stessi Rei (令) e Wa (和) – che non è pensabile immaginare una civiltà giapponese senza radici cinesi.
Nella faccenda del kaigen, il governo di Abe ha fatto di tutto per dimostrare di essere lui il suo autore. Anche alla sua presentazione (1° aprile 2019) Abe ha continuato a comportarsi come se il gengō fosse una sua proprietà, presentandosi personalmente davanti alla nazione per spiegarne origine e significato secondo quanto illustrato qui sopra. È stato un gesto molto arrogante e una chiara invasione di campo rispetto all’Imperatore che con il gengō avrebbe un legame più forte. Abe ha esercitato il suo protagonismo anche alla cerimonia dell’insediamento al trono di Naruhito (1° maggio), rivolgendosi all’Imperatore in nome del popolo.
Sotto la superficie
Sotto la superficie dell’acqua della Storia, si stavano consumando invisibili battaglie tra la famiglia imperiale e il governo conservatore. Detto così può sembrare contraddittorio, ma è la realtà. Il pomo della discordia è il nono articolo della Costituzione che “bandisce la guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali che coinvolgono lo Stato”. Akihito, come dimostrano tutte le sue azioni, vuole assolutamente salvaguardare quest’articolo, mentre Abe non vede l’ora di cancellarlo. Forse Akihito ha ritenuto che la sua abdicazione e la salita al trono di Naruhito potessero offrire una grande occasione, davanti all’intera nazione, dove il nuovo l’Imperatore giura di “pregare per la pace”. Il che avrebbe, se pur momentaneamente, allontanato il disegno della riforma costituzionale sperata da Abe. Anche questo può essere stato uno dei motivi della scelta di Akihito.
Ora staremo a vedere quale sarà la statura del nuovo Imperatore, se riuscirà a proseguire le orme del padre oppure sarà costretto a fare marcia indietro. Pur essendo solo un “simbolo” privo di possibilità di esprimersi politicamente, l’atteggiamento che assumerà Naruhito avrà un peso non indifferente sulla sorte della nostra nazione. Perché la società nipponica dovrà prima o poi fare i conti con forti contraddizioni rimaste intorno al suo status simbolico.