Intervista con Simone Santilli / Immagini ai margini dello sguardo
Mentre cerco di figurarmi quali ulteriori vie possano essere percorse per comprendere le metamorfosi e i processi delle immagini, mi sovviene Karma Fails ‒ Meditation Is Visualization (2017), la performance messa in azione da The Cool Couple, dove i due artisti, con la collaborazione di alcuni fruitori delle loro opere, utilizzano la meditazione come uno strumento utile per mettere a fuoco una serie di fenomeni che solitamente sono relegati ai margini dello sguardo. Questa opera-esperimento è interessante per questioni che sono riconducibili a una serie di analisi del neoliberalismo e del capitalismo cognitivo, alla capacità di dirottare l’attenzione, di alterare la visibilità di qualcosa o qualcuno, di comprendere le strategie delle forme di potere e di controllo più efficaci e pericolose. Secondo Trevor Paglen, le cose che ci minacciano di più sono quelle per cui non c’è un’immagine. Se l’immagine di un pericolo può essere negata (o criptata) dal potere, ci si chiede quali immagini stiamo fruendo veramente, quali differenze esistano tra le immagini consentite e quelle censurate (non fatte circolare)? Attraverso Doppiozero vorrei dare voce a chi in questi anni sta cercando di comprendere la complessità dell’immagine, e nel caso specifico attraverso il rapporto tra fotografia e arte. Siccome ora siamo in zona rossa a causa delle restrizioni Covid e non posso andare a Milano a trovare Simone Santilli (con Niccolò Benetton fondatore di The Cool Couple, anche abbreviato con TCC), gli telefono per condividere alcune questioni.
Mauro Zanchi: Come immagini la fotografia (o le fotografie) del futuro?
Simone Santilli: In La Furia delle Immagini. Note sulla postfotografia, Joan Fontcuberta racconta un aneddoto: a fine anni ’90 era stato invitato a partecipare a un’indagine di marketing, in qualità di fotografo professionista. All’epoca erano già in circolazione telefoni cellulari discretamente evoluti (nel 1997 Philippe Kahn scattava la prima mobile pic della storia). Non ricordo esattamente com’era stata formulata la domanda, ma a un certo punto gli intervistatori avevano chiesto a Fontcuberta la sua opinione su un cellulare che ti permettesse di fare fotografie. Fontcuberta, senza esitare, aveva risposto che una fotocamera dentro un telefono era una idiozia. Nessuno ne avrebbe mai fatto uso.
Ammetto che gli sono grato per aver condiviso questo aneddoto, perché quando cerco di immaginarmi cosa succederà alla fotografia sono vittima di una sorta di visione nobile e anche un po’ nostalgica: immagino un grande ritorno, tecnologie strabilianti. Fontcuberta ci insegna che nella realtà, invece, accade esattamente l’opposto.
Pertanto, la fotografia che immagino si instrada nel solco dello slogan centenario di Kodak: “You press the button, we do the rest”.
La parola d’ordine dell’ultimo decennio era embedding: fotocamere incastonate ovunque. Nei prossimi anni credo che l’imperativo sarà ottimizzare: il processo fotografico, come la maggior parte dei processi, scomparirà dalle nostre vite. È tempo perso. Anche la fotocamera diventerà una black box. Il fotografo di conseguenza scomparirà, in nome dell’automazione: gli esseri umani sono più preziosi come prosumers. Devono condividere le loro vite, creare interazione. Non possono perdere tempo a scattare, editare, postprodurre. Non mi sorprenderei se presto l’autorialità sarà bollata come uno spreco di energie. E in parte il domani è già qui: Adobe ha recentemente introdotto i primi filtri neurali in Photoshop.
Se la fotografia diventerà sempre più simile alla musica su Spotify, presto le nostre immagini saranno accessibili solo online, sui server delle app che impiegheremo per produrle (Spotify Premium offre la possibilità di scaricare la musica sul proprio dispositivo, rendendola “offline”. Tuttavia, non crea una cartella di file mp3. I file sono codificati con altre estensioni. Similmente, alcuni servizi di streaming online impediscono di fare screenshot. I videogiochi della Rockstar Games consentono di fotografare all’interno del gioco siano, ma i file sono accessibili soltanto all’interno del Social Club, il social network della Rockstar). Potremo scaricarle, renderle offline, ma si tratterà di file che non ci apparterranno. Finiremo su Reddit cercando un thread in cui qualcuno si chiede come individuare i file delle fotografie all’interno del proprio telefono. E altri risponderanno che un metodo c’è, ma è molto macchinoso. Le nostre foto saranno proprietà degli sviluppatori delle app.
Ma non è detto che questo ci preoccuperà. Sulle prime magari ne saremo infastiditi, ma poi ci abitueremo. Nella vita di tutti i giorni le immagini ci interessano di più per il loro valore d’uso. L’archiviazione è spesso superflua.
MZ: Si estenderà ulteriormente il rapporto tra fotografia e comunicazione, spostando ancora (e ancora) altre possibilità e relazioni “altre” tra vari linguaggi o nuovi alfabeti, in funzione di un continuo e progressivo aumento di realtà?
SS: Sicuramente. La maggior parte di noi impiega già le fotografie come parte integrante della comunicazione interpersonale quotidiana. Parliamo un esperanto fatto di hashtags ed emoji, inglese smozzicato, manuali dell’Ikea, gif animate, meme, e via dicendo… Le immagini come elementi comunicativi sono ridondanti, la loro creazione e condivisione giustificata da ragioni strettamente contingenti.
Considerando inoltre che i videogame sono la forma culturale dominante del nostro tempo e che sono di fronte a una svolta in seguito all’introduzione di una nuova generazione di console, aspettiamoci anche una fotografia sempre più gamificata. Potete averne un assaggio se scaricate il gioco per smartphone della Lidl, che a un certo punto vi chiede di andare in giro per i punti vendita a scansionare alcuni prodotti presenti sugli scaffali in cambio di punti e bonus con cui espandere il vostro supermercato virtuale.
Tutto questo confluirà in una sorta di “ambient” fotografico, nel senso che finiremo per trovare la fotografia così naturale che avrà quasi il ruolo di un tappeto sonoro. Da un lato si solleverà la cappa di paranoia circa la sorveglianza perpetua; dall’altro assisteremo a una sua smaterializzazione totale.
I professionisti di una volta saranno ossessionati dalla protezione della fotografia, come una specie in via d’estinzione. Allo stesso tempo, tutte le immagini che non avranno un aumento di realtà non saranno attraenti. Mi chiedo cosa succederà nelle politiche museali.
Un altro punto è lo schermo. Già adesso ognuno di noi ha un suo personalissimo alfabeto tattile per relazionarsi con i monitor, credendo di manipolare le immagini. Ma presto gli schermi scompariranno. E allora cosa succederà? Cosa corrisponderà alla definizione di “fotografia” quando non ci sarà più una superficie tattile (leggi anche specchio) a fare da confine? Avrà luogo un ricongiungimento con la rappresentazione? Matureremo una nuova consapevolezza delle immagini? Non ci siamo lontani: con i nuovi Oculus, Valve e HTC abbiamo già un assaggio del potenziale della realtà aumentata.
Presto abiteremo uno spazio diverso. Forse assisteremo a un fugace rigurgito di vintage, com’è successo coi primi filtri Instagram un po’ di anni fa.
Dopo di che ci sarà solo la fotografia restituita alla natura, così immateriale e ubiqua e integrata nell’ambiente circostante che la concepiremo nei termini di un fenomeno naturale. Le immagini nasceranno e circoleranno come se dotate di vita propria. L’Ocean of images del MOMA potrebbe diventare un’espressione con un valore letterale e non più soltanto figurativo. Spero di non essere troppo vecchio quando succederà, penso che me lo godrei. Ma mi sto spingendo un po’ troppo in là.
Se penso al resto dei cambiamenti, non li trovo così drammatici, anche se faticherei a trovare un posto in un mondo del genere. So che si tratta di un’affermazione che lascia il tempo che trova. Quello che sto scrivendo qui finirà postato online, letto forse da una ristretta cerchia di amici che tollerano la mia logorrea, archiviato, e ciao. Resterò io con le mie preoccupazioni, forse condivise da altri all’interno della men che minoranza di artist*, ricercator*, dottorand*, fotograf*, professionist* dell’immagin*, insomma di quella specie di 0,001% della popolazione mondiale che in teoria dovrebbe capirci qualcosa.
Ogni tanto mi dico “chi se ne frega”. La fotografia, in sé, è amorale. Siamo noi a proiettare su di lei fin troppe cose. È ridicolo se penso che non siamo mai riusciti a trovarle una definizione calzante. Marvin Heiferman ha ragione quando sostiene che della fotografia sappiamo solo che funziona. È vero che è nata in seno all’apparato industriale-militare, come diceva Flusser, ma è altrettanto vero che va per la sua strada. La fotografia è viva e sfuggente. Appena c’è un nuovo supporto, lo conquista subito, a spese della sua essenza. E ci lascia qui a farci le seghe e ci dà una scusa per organizzare nuovi simposi. Mi ricordo benissimo l’angoscia che aleggiava nel 2011 quando ero appena arrivato a Milano e seguivo gli incontri sullo stato della fotografia. I direttori dei giornali erano con le mani nei capelli, i fotoreporter sancivano la morte della fotografia. Ma chi l’ammazza quella. Altro che la regina Elisabetta.
MZ: Come The Cool Couple ha utilizzato pratiche di meditazione per mettere in azione immagini?
SS: Si tratta di un esperimento che io e Niccolò abbiamo tentato con Karma Fails, un progetto del 2016. Avevamo scelto di lavorare sulla meditazione, perché negli ultimi anni era diventata uno strumento per migliorare le prestazioni della forza lavoro, in perfetta sintonia con l’idea di strumento biopolitico di Michel Foucault. Ci interrogavamo anche sui limiti della rappresentazione fotografica e così, sulla scia delle riflessioni che avevano portato Trevor Paglen a creare The Last Pictures e Alfredo Jaar a produrre The Eyes of Gutete Emerite, abbiamo pensato di spostare dentro la mente del pubblico tutte le immagini che avremmo voluto mostrare per parlare del presente. In altre parole, desideravamo chiedere la partecipazione attiva dei visitatori perché convertissero la loro testa in una camera oscura. Karma Fails, attraverso una finta seduta di meditazione, evocava così dei contenuti visivi estremamente personali che rimanevano nella memoria del pubblico anche dopo la performance. Non so se Karma Fails ha raggiunto il suo obiettivo, ma sono piuttosto sicuro che è stato uno dei modi più completi per racchiudere in un progetto le dinamiche che interessano l’immagine in questo periodo. O almeno fino al 2020.
MZ: Mi interesserebbe molto approfondire con te il rapporto tra fotografia e videogiochi.
SS: La loro rilevanza è indiscutibile e, specialmente in questo momento, i videogame costituiscono una risorsa virtuale per ricostruire i nostri spazi sociali: penso ad Animal Crossing durante il primo lockdown o al concerto di Travis Scott in Fortnite, ma anche al lancio della collezione autunno-inverno di Balenciaga, poche settimane fa. Negli ultimi due casi si tratta di uno spostamento di una fetta di mondo off-screen all’interno dell’ambiente di gioco. Credo che in gioco ci sia il concetto di esperienza. La differenza abissale tra un video di una sfilata, per restare in tema, come ad esempio quello di Prada, e il gameplay di Balenciaga è l’interazione. Nel secondo caso, come per il concerto di Travis Scott, stiamo vivendo un’esperienza in prima persona, sebbene attraverso una mediazione.
Quello che sto cercando di capire è in che direzione va il rapporto tra fotografia e gaming. È una vera e propria osmosi, dove i software professionali riprendono una serie di elementi ludici, le fotocamere sembrano joystick, e i professionisti fotografano all’interno dei videogiochi, specialmente nel settore degli e-sports. Al momento, sono inchiodato su un titolo che ormai ha un paio d’anni, ma continua a darmi filo da torcere: Red Dead Redemption 2, della Rockstar. Saranno le schermate di caricamento che sono dei negativi su lastra di vetro che si sviluppano gradualmente, sarà che ho una macchina fotografica virtuale e posso andare in giro a cavallo a fare foto di paesaggi mozzafiato, sarà che una delle side mission consiste nell’aiutare una specie di fotoamatore fissato con gli animali… Il risultato è che non riesco a smettere.
Infine, seguo e sperimento con interesse i nuovi servizi di eventi virtuali, che consentono di andare oltre al classico meeting su Zoom, in uno spazio virtuale abitato da avatar in stile The Sims. Insieme a Niccolò e Francesco Jodice, stiamo affrontando una parte di quest’ultimo aspetto durante una performance per la Digital Week, a maggio, intitolata Happy Together.
MZ: A proposito di Red Dead Redemption 2, hai cercato di realizzare immagini attraverso la macchina fotografica virtuale contenuta nella tua mission, o si può innescare un voluto cortocircuito di matrice concettuale dentro la partita? Descriveresti più nel dettaglio le schermate di caricamento, che sono dei negativi su lastra di vetro?
SS: Dal momento che non gioco su PC non ho accesso ai numerosi mods (apposite patch sviluppate da altri giocatori per espandere il gioco, a volte anche in maniera surreale), molti dei quali sono utili per provare a scatenare dei cortocircuiti. Devo ammettere, però, che RDR2 è un’esperienza di gioco a metà tra la ricostruzione storica e l’immersione cinematica (non a caso è pieno di citazioni e viverle in prima persona è un’altra cosa).
Sto provando a non spingere il gioco al limite per fare attenzione a questi dettagli e chiedermi ad esempio, qual è il rapporto tra le parti letteralmente giocate e le cut scenes, che nel loro insieme competono con la lunghezza di una serie televisiva (questo è un montaggio di tutte le cut scenes del gioco). Al di là della mia macchina fotografica si può anche attivare, come in GTA, una cinematic camera automatica che alterna diverse inquadrature sul giocatore mentre questo sta effettivamente giocando. Se è vero che non è semplice da maneggiare le prime volte, è un modo di sfocare la differenza tra gameplay e cut scenes. Non è una novità, ma in RDR2 prende un sapore particolare. È un gioco con una sua lentezza. Online, diversi gruppi di giocatori sui server privati indicano nelle regole di accesso che è fondamentale interpretare la propria parte e rimanerci fino alla fine (con dei simpatici eccessi, come in questo caso). Il lato cinematografico di RDR2 ha già dato vita a numerosi machinima. Quando ti dico che non cerco cortocircuiti non sono particolarmente interessato a lavorare sui bug, sui glitch o altri approcci di questo tipo. Cerco invece di mettere questo titolo in rapporto alla storia del cinema e della fotografia. RDR2 è la storia di Arthur Morgan, ma è anche un racconto della fine del Far West, gradualmente spazzato via dai grandi capitalisti americani. Giocarlo a cavallo tra il 2018 e il 2020 attiva parecchi deja-vu.
Per quanto riguarda le schermate di caricamento, eccole qui:
MZ: Pamela Lee (in Artforum, maggio 2011) afferma che stiamo vivendo nell’epoca dell’open secret, ovvero in un periodo minacciato da un’invisibilità visibile, che attenta continuamente al cuore delle politiche d’informazione. Questa minaccia è entrata nella ricerca di The Cool Couple? Conosci artisti che stanno lavorando su questo tema, utilizzando il medium fotografico?
SS: Inizio dalla seconda parte della tua domanda e provo a rispondere citando New Dark Age di James Bridle: "È una scena da incubo, che però sembra materializzare appieno l’essenza della nuova era oscura. A dispetto di una visione sempre più universale, la nostra agentività è sempre più ridotta. Sappiamo sempre più del mondo, ma siamo sempre meno in grado di agire su di esso. Il senso di impotenza che ne deriva, anziché imporci una pausa per riconsiderare ciò che ormai diamo per scontato, sembra condurci inesorabilmente verso la paranoia e la disintegrazione sociale: maggiore sorveglianza, maggiore sfiducia e una sempre più cocciuta ostinazione per le immagini e la computazione affinché risolvano una situazione causata dalla nostra cieca fede nella loro autorità" (James Bridle, Nuova era oscura, 2019, p. 210).
Ci sono diversi artisti che si stanno confrontando con questo tema, ma prima di fare nomi vorrei chiederti quali sono i confini del mezzo fotografico, in questo caso. Difficilmente potrei affermare che la pratica di Bridle, ad esempio, è riconducibile esclusivamente al medium fotografico, ma quest’ultimo è inseparabile dalla sua ricerca. Per molti altri artisti la fotografia è un terreno di lavoro, ma non un punto d’arrivo.
Questo vale anche per The Cool Couple, in particolare quando abbiamo realizzato Way Out, un’installazione il cui scopo era riflettere sulla sparizione della privacy. Tutto ruotava attorno a una scultura in grado di generare un campo elettromagnetico che annullava i segnali normalmente impiegati dai dispositivi di comunicazione: 2G, 3G, 4G, GPS, GSM, GPRS. La scultura era parte di un’installazione completata da tre testi tratti dal Codice Penale, che regolamentano il possesso e l’impiego dei disturbatori di frequenze. In Italia e in Unione Europea, i disturbatori di frequenze sono diventati illegali nel clima di terrore seguito al 9/11. Da quel momento, siamo stati gradualmente messi a nudo fino allo stato attuale, in cui chi non si mostra lo fa perché è asociale o un vecchio, oppure ha qualcosa da nascondere.
Way Out nasceva da una grande quantità di materiale che spaziava da scene di film e serie TV alla meme culture, ma si è risolto in un’installazione essenziale, completamente priva di immagini. Se mi chiedi quanto c’è di fotografico in Way Out, la mia risposta è: tutto.
Tornando alla seconda parte della tua domanda, questo non significa che manchino autori come Subhankar Banerjee, che fonde pratica fotografica, ricerca giornalistica e attivismo per proteggere aree ecologicamente rilevanti e le popolazioni indigene del Nordamerica. La sua serie Arctic Voices: resistance at the Tipping Point, consiste in una serie di fotografie che spaziano dalle vedute aeree dei paesaggi artici a close-up della vita degli animali selvatici nell’Arctic National Wildlife Refuge fino a scene di vita delle comunità indigene locali. Niente di nuovo. Anzi. Classico documentario. Ma l’estetica gioca un ruolo fondamentale: come in An American Index of the Hidden and Unfamiliar di Taryn Simon, Banerjee decostruisce l’estetica dominante impiegando le sue stesse armi. Il suo obiettivo, infatti, è di entrare nei circuiti di diffusione dei mass media con le sue fotografie fortemente estetiche. In questo modo introduce un elemento di riflessione sulla retorica del cambiamento climatico, spesso indicato come uno dei grandi fenomeni non-rappresentabili del nostro tempo.
MZ: A Hong Kong – il 9 giugno 2019, durante le manifestazioni contro le forze governative dove si protestava contro un disegno di legge che faciliterebbe l'estradizione in Cina di cittadini accusati di reati gravi – gli attivisti pro-democrazia hanno invitato i partecipanti a utilizzare mascherine per coprirsi il volto e occhiali per rendersi irriconoscibili dalle forze di polizia. Hanno anche chiesto ai reporter di non scattare immagini, perché temevano che i poliziotti potessero essere facilitati a identificare i manifestanti. I civili fronteggiavano i poliziotti a colpi di puntatori laser, cercando di depotenziare i sistemi di riconoscimento facciale e di impedire agli agenti di mirare. Qui la richiesta di non utilizzare macchine fotografiche sembra anche aprire una nuova questione (una non azione, una sottrazione o un passo indietro), interessante a livello concettuale per quanto riguarda la nostra indagine su un approccio metafotografico. Cosa ne pensi?
SS: Il secondo decennio del secolo può essere rappresentato da una parabola disegnata sul piano cartesiano della democrazia: a un’estremità si trova il 2011 con la Primavera Araba all’altra, esattamente un decennio più tardi, l’assalto al Campidoglio. Nel mezzo ci sono tantissime cose: da quello che Nicholas Mirzoeff definisce “the ultimate selfie” (la fotografia che l’astronauta giapponese Akihiko Hoshide nel 2012 voltando letteralmente le spalle alla Terra) agli agghiaccianti video in diretta delle brutalità della polizia statunitense; dall’introduzione della prima fotocamera frontale sull’Iphone 4 alle immagini apocalittiche degli incendi che hanno colpito varie parti del mondo negli ultimi anni. Verso la fine della parabola incontriamo Hong Kong. Poco prima del gran finale.
2011, Primavera Araba. I social network come simboli di libertà: i loghi di Facebook dipinti a spray sulle serrande del Cairo; le folle che brandiscono gli smartphone puntando le fotocamere contro la polizia. L’Occidente che elogia la rivoluzione, grandi pacche sulle spalle. Ben fatto. La democratizzazione della fotografia, che rende le tecnologie di produzione e diffusione delle immagini accessibili a tutti è direttamente proporzionale al processo di emancipazione. Tutti possono parlare, tutti possono mostrare. Le fotocamere embeddate negli smartphone diventano uno strumento al servizio della libertà.
2019, Hong Kong: negli otto anni che separano questi fatti dalla Primavera Araba è emerso il problema dei big data. Gli stessi social network che avevano contribuito alla caduta dei regimi in Medio Oriente ci spogliavano della nostra privacy, del controllo sulle nostre immagini (Richard Prince vs. Suicide Girls) e dimostravano il loro potere con pesanti ricadute geopolitiche. Mi piace sempre menzionare il memorabile momento dell’acquisto di Whatsapp da parte di Facebook per una cifra talmente folle che avrebbe potuto comprarsi la Jamaica e sarebbero pure avanzati altri cinque miliardi di dollari.
A Hong Kong, comunque, nel 2019 i manifestanti rifuggivano gli occhi dei media; la parola d’ordine era offuscamento. Non si trattava certo di una novità. La cosa nuova era però il disagio alla vista di quelle immagini, perché noi Occidentali, in questo caso, non sapevamo più che posizione prendere. Istintivamente ci saremmo schierati dalla parte della libertà e dunque a favore dei cortei. Abbiamo cercato di ammansire, a colpi di condivisioni sui social, il regime, l’incubo totalitario cinese che sembrava uscito da una stagione di Black Mirror. Però, non potevamo nascondere che la Cina ci regalava anche tante cose belle, come TikTok. Personalmente, guardando il lungo travaglio di Hong Kong, ero a disagio perché mi sentivo un idiota. Vedevo in diretta quanto può essere labile il confine tra democrazia e caccia alle streghe, quanto la libertà sia relativa. E tutto questo passava per le immagini. Le fotografie erano usate contro i manifestanti, la visibilità che bramiamo qui era a Hong Kong solo ed esclusivamente uno strumento di repressione. Ormai l’entusiasmo della Primavera Araba era morto e sepolto. Mi sono detto che la mia unica fortuna era di vivere in Occidente. O forse no, se penso alla Francia, alle proteste contro la proposta di censurare i volti dei poliziotti impegnati in azioni anti sommossa. La democratizzazione della fotografia ha contribuito a una sola cosa: l’erosione della democrazia stessa.
Noah Hawley, "Fargo", stagione 3, episodio 4, 2017
MZ: Cosa pensi dell’utilizzo del mezzo fotografico nel recente assalto al Congresso degli Stati Uniti, a Washington DC?
SS: Do the Revolution for the Gram. Una folla di manifestanti assalta il Campidoglio senza quasi colpo ferire. E poi, tutti in posa. Tutti a fotografarsi, come una comitiva in gita al Louvre. La cosa più scioccante è il loro sguardo. Sono persone che stanno di fronte agli occhi del mondo intero senza alcun timore. Anzi, il contrario. Sono inebriati dalla possibilità di diventare immagini. Qualsiasi dettaglio dell’assalto al Congresso sembra calcolato sulla base di potenziali interazioni o nuovi follower. Sono d’accordo con Jerry Saltz quando sostiene che la loro espressione è così diversa perché questa è la rivoluzione dei privilegiati.
Se guardiamo con un po’ più di attenzione alla Primavera Araba, ci accorgiamo che era già tutto scritto: i programmi di alfabetizzazione digitale per i paesi del Medio Oriente rientravano nella politica estera statunitense negli anni precedenti lo scoppio delle rivolte del 2011.
La stessa tecnologia che elogiavamo come strumento di emancipazione in Medio Oriente era lo strumento con cui nel frattempo erodevamo le basi della democrazia in Occidente.
Si dice che il tratto caratteristico di questo momento storico è la scomparsa della verità. I suprematisti che hanno assaltato il Campidoglio sono un coacervo di cospirazionisti, fanatici, paranoici, razzisti e nostalgici. La perfetta espressione della società post-truth. Eppure, quello di post-truth è un concetto che mi lascia alquanto perplesso. È da più di duemila anni che in Occidente siamo ossessionati dall’idea di verità. Se per qualche forma di contrappasso dantesco vi è capitata la sfortuna di frequentare il liceo, avete avuto alcuni anni per capire che, anche in ambito scientifico, non è un concetto assoluto. L’altra cosa di cui vi dovreste essere accorti è che sembra poco compatibile con la libertà d’espressione.
Quindi, piuttosto che nel post-verità, siamo finalmente entrati nell’era della post-ipocrisia. Sappiamo tutti che nessuno può avere ragione. E, quindi, abbracciamo entusiasti questa inedita occasione di post-compostezza, in cui ci è concesso esprimerci con un linguaggio post-politicamente-corretto per accanirci gli uni contro gli altri. Finalmente, benvenuti nell’epoca della post-etichetta.
Non c’è da stupirsi se poi le immagini diventano imperscrutabili o se non scatenano alcuna reazione anche quando ciò che mostrano è oggettivamente grottesco. Il problema di noi artisti e anche di molti curatori, ricercatori e accademici, è che siamo ancora troppo educati. Ci diamo ancora del Lei quando ci conosciamo per la prima volta. Ci chiediamo se tornerà in auge la stretta di mano dopo il lockdown. Siamo impegnati a intingere la penna nel calamaio mentre un redneck ci ruba lo scrittoio. E probabilmente siamo anche così educati che invece di denunciarlo per furto, aspettiamo che lo rimetta in vendita su Ebay per ricomprarcelo. Come direbbe una mia conoscenza: bene, ma non benissimo.
Simone Santilli (1987) è un artista e fotografo. Nel 2012 fonda il duo d’artista The Cool Couple insieme a Niccolò Benetton, con il quale analizza i processi di produzione, circolazione e fruizione delle immagini. I progetti di TCC sono stati esposti presso istituzioni e festival italiani ed internazionali e hanno ottenuto diversi riconoscimenti. Nel 2020, TCC è uno dei vincitori dell’ottava edizione del bando Italian Council, promosso dal MIBACT. Simone Santilli è docente presso NABA Milano e course leader del Triennio di Arti Visive presso MADE Program (Siracusa).