L’estate dei festival / Esistiamo veramente? Cartolina da Crisalide
Progettare un festival è oggi compito oltremodo complesso. Differenti per vocazioni e necessità legate ai luoghi e alle comunità, ai festival di teatro vorremmo chiedere di ripensare costantemente alla loro funzione, per non disperdersi nella marea di offerte culturali, svaghi e intrattenimenti vari. Ci pare vadano sostenute le rassegne “politeiste”, quando provano a convocare le diverse fedi delle arti sceniche attuali anche a livello di linguaggio, e che nei casi più felici scommettono sul prolifico attrito fra proposte diverse; possono essere molto stimolanti i percorsi di stampo “curatoriale”, che orientano il programma attorno a un tema mostrando omologie e dialoghi nel frammentato campo delle arti sceniche; c’è poi il rischio che queste e altre istanze si “normalizzino” trasformando il festival in un contenitore dove ognuno può trovare qualcosa di suo gusto, con l’eventualità che il teatro divenga il diletto di una classe precario-intellettuale intenta a costruirsi un palinsesto.
Non si tratta qui né di additare né di mostrare “come si fa” avendo ricette pronte, solo di segnalare una deriva che ci pare inscritta nella forma stessa del festival, almeno in questo periodo storico. Si tratta dunque di osservare da vicino il “discorso” che si può leggere attraversando una programmazione nel suo complesso, e di rimarcarne l’importanza per il presente e il futuro del teatro, al netto di carenze strutturali come l’assenza di un’educazione teatrale per tutti o la scarsità di fondi di chi opera più ai margini dei circuiti istituzionali, tenendo conto anche del ruolo suppletivo di alcune rassegne rispetto a funzioni trascurate dal sistema teatrale.
Fra festival-contenitori, arditi festival-politeisti e festival tematici Crisalide di Forlì, diretto e organizzato da Masque Teatro, occupa uno spazio tutto suo. Lo si potrebbe definire un festival di formazione, per la tensione che ha avuto a porsi come spazio di incontro e crescita per una intera generazione di gruppi teatrali, quelli nati in Emilia-Romagna e non solo dagli anni ‘90 in poi (spesso si ricorda, e a ragione, l’ospitalità del grande regista belga Thierry Salmon, che risiedette in Romagna quattro giorni per tenere un seminario nel 1997). È certamente un festival interdisciplinare nel senso pieno, dato che da qualche tempo incrocia la ricerca nelle performing arts con la filosofia, invitando giovani studiosi a tenere brevi conferenze durante le serate (da qualche anno è anche nata una vera e propria scuola di filosofia, Praxis, diretta da Rocco Ronchi e con quasi un centinaio di iscritti ogni estate). Forse, per usare un concetto caro al direttore Lorenzo Bazzocchi, si tratta più poeticamente di un “festival-magma”, con al centro un concetto filosofico che non arriva a essere un tema; quest’anno Nachleben, le sopravvivenze, ciò che riemerge dai nostri passati attraverso le forme, ispirato dagli studi di Aby Warburg.
Crisalide scommette sull’accostamento di brevi performance artistiche, dialoghi pubblici, conferenze e concerti tutti presentati insieme consecutivamente in serate-flusso. Si crea un magma, dunque, una sorta di discorso costituito da differenti proposizioni con l’intuizione di una reciproca affinità. Si entra a Crisalide e accade di sentirsi parte di questo magma, che si sia artisti, critici o semplici spettatori, o almeno si viene invitati a ragionare sulle ipotetiche somiglianze fra i diversi atti artistici o di pensiero. Si entra a Crisalide e ci si sente legittimati più che altrove a domandarsi se nei teatri si possano individuare discorsi collettivi, se sia lecito individuare un paesaggio o, per usare le parole della conferenza tenuta da Sara Baranzoni, che riprendeva il pensiero non-eurocentrico di Edouard Glissant, se sia possibile intravedere un arcipelago. Esiste un discorso che le arti performative possono rivolgere all’esterno, e in forma collettiva? Siamo al Teatro Félix Guattari, spazio storico di Masque trasformato da Filanda in teatro e ora riconosciuto come residenza artistica dalla Regione Emilia-Romagna; il pavimento di piastrelline rosso brune e le pareti di intonaco nero cinereo s’irradiano di luce solare grazie al portone di ingresso aperto, quando le due domeniche mattina gli artisti e gli ospiti si sono ritrovati a dialogare collettivamente partendo da un invito a cura dello storico Raimondo Guarino. La sollecitazione partiva dalla ricerca di un linguaggio pienamente “del teatro” e prossimo all’esperienza, rivendicandone quindi una originarietà che spesso si dimentica in favore di derive socio-antropologiche e filosofiche.
Per descrivere il “discorso” osserviamo velocemente le opere in programma nei due sabati in cui siamo stati presenti, come in una cartolina delle arte performative dalla Romagna. Ci sembra di avere incontrato due macro-proposizioni. Da un lato quella di chi, prendendo di petto le falsificazioni della società dello spettacolo, con le sue opere sembra riflettere sulla sua stessa identità di artista, e per esteso su di noi tutti che viviamo nel teatro e nelle arti della scena. Per manifestarsi nel mondo attuale pare necessaria una preventiva opera metalinguistica, in una versione però non pedantemente e analiticamente narcisistico-concettuale ma virata sul filo di una sagace sfoliazione dei propri strati di pensiero, fino alla soglia di un ambiguo e accattivante venir meno (quasi un carsico riemergere del pensiero di Carmelo Bene?).
Il duo italo-tedesco Barletti-Waas, con Natura morta con attori, calpesta esattamente questo bilico, il loro è un dialogare attorno alle maschere sociali e teatrali, un rimbalzo di scambi verbali, aggiustando di quando in quando le posture frontali e un po’ sfrontate, una vita quotidiana come rappresentazione dove emerge un lacerto narrativo nella storia di una coppia che si incontra a Venezia ai margini di una manifestazione studentesca nel ‘68 (il testo è di Fabrizio Sinisi e forse l’inserto politico-sociale meriterebbe più respiro). Pietro Babina siede a un tavolino che funge da postazione vocale, camicia rossa, cravatta e cintura dello stesso tono. In Gaming interpreta un suo testo ospitato nella “Rivista” diretta con Flavio De Marco, un bel progetto editoriale autoprodotto tematico. Come nella tradizione distopica fantascientifica, nel racconto è al potere una superdittatura che diffonde un gioco di realtà virtuale dove i partecipanti devono superare una serie di prove. Siamo tutti artisti e ci sono diversi livelli da superare: dalla concezione dell’opera alla promozione fino alla distribuzione. La voce di Babina s’impasta con un effetto sonoro in sinergia con le musiche elettroniche che la punteggiano, la ritmica sale e tocca climax che ricordano la retorica di chi legge un manifesto o un documento ufficiale. La forma può ricordare un radiodramma dal vivo, mentre il game raccontato rimanda sia ai prodotti finzionali sia alla strettissima attualità: c’è una persona che deve immergersi in un gioco che gradualmente soppianterà il reale, ma a tratti pare di ascoltare una paradossale autofiction; vengono in mente Matrix, Second Life, Avatar, ExistenZ, Avalon, ma forse prima di tutto capiamo che quel personaggio è anche un artista nel groviglio del mercato, insomma è lo stesso Pietro Babina, ritratto “gamificato” in locandina. Il lavoro che però più di tutti incarna questa tensione è Cosmesi fa un live, oggetto performativo non identificato firmato da Eva Geatti, Nicola Toffolini e Marcello Batelli. È un concerto con basi registrate compendiato da riff di chitarra elettrica, colpi di batteria e canzoni cantate da Geatti e Toffolini; è una performance dove vengono spostati e riallineati sul palco cartonati di cantanti popstar, da Freddy Mercury a Nick Cave alla Queen che i Sex Pistols volevano fosse salvata da Dio. È un atto di mimesi artistica dove due teatranti fanno un live senza una preparazione tecnica musicale, ma in fondo è il “come se” alla base di ogni patto rappresentativo, però depotenziato e sovvertito perché i due mostrano sia il “se” che il “come”, in quel tagliente terreno fra il non prendersi troppo sul serio e il non credere più in nulla, come la loro icastica hit che sembra parlare del pubblico in un club ma anche della condizione dell’artista e di chi si occupa di arte («pay to get in / pray to get out»).
https://www.youtube.com/watch?v=3LjAsjUOPuw
Cosmesi fa un live, dopo aver fatto un disco (ma anche un buco a Drodesera), insinua un intelligentissimo dubbio su ciò che siamo venuti a vedere, sulle nostre aspettative, sulla consistenza e sulle pretese dell’arte.
Sull’altro versante ci sono proposte apparentemente assertive, spettacoli che non sfaldano la rappresentazione con presenze all’intersezione fra finzione scenica e vita quotidiana. Non casualmente il corpo diviene membrana o dispositivo (riprendendo un dibattito terminologico guidato in uno dei dialoghi mattutini dal filosofo Paolo Vignola) dove s’imprime questa tensione, come accade nel bellissimo Von di Daniele Albanese, un solo che inizia con il danzatore e coreografo che arabesca una sequenza di nodosità fluenti con torso e braccia, un ricamo nello scena vuota che però si conchiude in un’immagine di gabbia e cattività, il suo corpo trema di spasmi accompagnato da suoni elettrici; o come nell’altro solo di danza, Waste Movements, di e con Paola Bianchi, un corpo che indossa un vestito di un materiale in simil plastica da sacco nero dell’immondizia e che si tende, avanza verso il pubblico e infine retrocede per dare rilievo a dettagli quali una piega sulla pelle di una mano, l’esilità dei due fianchi cinti dalle mani e mostrati di schiena, il tremore di un muscolo nell’atto della contrazione.
Sul versante più teatrale, e forse all’intersezione fra le due tensioni che qui proponiamo, citiamo lo studio per Jump! di Opera Bianco, informato da una lunga ricerca attorno al clown e in debutto a fine stagione, così come in una versione ridotta si è visto Soli di Ateliersi, nel quale l’ispirazione pirandelliana si mescola a un affascinante meccanismo di ascolto, registrazione e scrittura “dal vero” operato dai due artefici Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi. Al centro c’è la storia vera di una coppia di giovani che vive per strada ai margini di un sociale che li allontana, raccontati al microfono dagli attori in dialogo e seduti a un tavolo. Noi che osserviamo veniamo così invitati a immaginare persone e personaggi grazie alle maglie di un dialogare scenico serrato, e a chiederci della loro distanza dal reale e dalla finzione. Si chiude, il festival, che ha proposto anche laboratori pratici di formazione, con il corpo allampanato di Ivan Fantini, scrittore seduto su una sedia al centro del palco, abiti scuri che catturano la luce nello spazio buio, bocca sul microfono, voce e ritmo irosi, corpo “basculante” avanti e indietro per tratteggiare i contorni di un personaggio di un suo racconto, una donna additata come prostituta.
Esistiamo veramente? Sembra essere la domanda che queste proposte performative lanciano a un mondo esterno farcito di falsificazioni, senza farsi lo sconto di rivolgerla al proprio operare quotidiano e internamente nelle opere. Una questione dolorosa e necessaria, su un margine instabile e pieno di insidie, come abbiamo visto, fra densità ed evaporazione, fra assertività e autoanalisi, fra urgenza nell’osservazione del reale e ironico commento dell’esperienza che tutti i giorni viviamo.
L’ultima fotografia, di Giulia Ferrando, ritrae una scena di Waste Movements di e con Paola Bianchi