L'Altro Giappone - II parte / L'Arte e la Storia. Creatività umile
Tra la vita senza futuro di Ikeshima (I parte), abbandonata dal capitalismo, e la slow life armonica e indifferente al consumismo di Aogashima ci sono innumerevoli varianti, ma è stato comunque molto interessante ed efficace visualizzare i due esempi estremi della vasta gamma di scelte che abbiamo di fronte a noi.
Ma di fronte a questo ventaglio di scelte, chi ha le antenne per capire? Sono spesso gli artisti, quelli capaci di intuire, prima di altri, l’orientamento della Storia. Dipende dalle qualità personali, però anche dai momenti storici. In alcuni periodi gli artisti si chiudono maggiormente nelle loro ricerche estetiche allontanandosi dal mondo reale, mentre in altri la loro sensibilità artistica viene esercitata maggiormente per analizzare la realtà.
L’Arte e la Storia
THE WRITTEN FACE (di Daniel Schmid, 1995) è un docufilm dedicato a Tamasaburo Bando (n. 1950), un grande attore del Kabuki, teatro tradizionale nato nel periodo Edo (1603 – 1868). Tamasaburo Bando è un onnagata, cioè un attore specializzato in ruoli femminili, anzi per molti è l’onnagata per definizione: fin dalla sua giovane età è sempre stato considerato geniale in questo ruolo che, per usare le sue parole, "ritrae oggettivamente le donne attraverso gli occhi dell’uomo”.
Nel film, Tamasaburo, ancora molto giovane, racconta di come abbia dedicato tutta la sua vita all'arte dello spettacolo, in altre parole, alla ricerca della bellezza, ma non parla mai della sua idea sulla società alla fine del XX secolo (il film è del 1995) e di cosa significa fare il teatro in essa.
Il suo silenzio sul mondo contemporaneo accanto alla sua grande eloquenza sull’estetica non sarebbe nemmeno strano nel contesto del teatro tradizionale giapponese, dove l’arte teatrale è praticata e apprezzata come una sorta di mondo chiuso, della ricerca estetica in sé, in qualche modo distanziata dal mondo esterno, quindi atemporale. Non è detto che anche Tamasaburo pensi come il resto del mondo di Kabuki, ma fatto sta che nel film di Schmid la Storia, o meglio, la consapevolezza storica dell’artista, non viene raccontata.
Completamente diverso è il docufilm RYUICHI SAKAMOTO: CODA (di Stephen Nomura Scible, 2017) su un altro grande artista: Ryuichi Sakamoto (n. 1952), musicista di fama mondiale, vincitore dell’Oscar e di numerosi riconoscimenti internazionali. Ciò che trovo particolarmente interessante del programma della rassegna è il contrasto tra questi due film su due grandi artisti, tra il carattere molto estetizzante del film di Schmid e il carattere fortemente sociale e storico del documentario su Sakamoto, realizzato circa venti anni dopo. Aldilà delle ovvie differenze tra i due artisti e anche delle differenti visioni dei due registi, il confronto tra questi due documentari ci fa capire, a mio avviso, il grande cambiamento del rapporto e della distanza tra arte, società e Storia avvenuto in questi ultimi vent’anni, non solo in Giappone. Lo stesso cambiamento è avvenuto anche in Sakamoto, come lui stesso confida nel film: fino ai primi anni Novanta, cercava di non manifestare messaggi sociopolitici nelle sue opere, ma a partire da quel periodo la sua antenna è divenuta estremamente sensibile alle questioni sociali e soprattutto a quelle ecologiche anche se non aveva ancora ben chiaro come stavano le cose. Nel film si paragona al “canarino nella miniera”, l’uccellino capace di captare il pericolo e segnalarlo agli altri.
Nel film di Nomura Scible, noi assistiamo alla sua ulteriore evoluzione: vediamo Sakamoto, che nei suoi esordi con la Yellow Magic Orchestra (1978) era del tutto acriticamente immerso nella tecnologia, innamorarsi di un pianoforte completamente dilavato dallo tsunami (battezzato “Tsunami Piano”) e privo dell’accordatura, strumento che l’artista ha incontrato nella palestra di una scuola in una zona disastrata di Tohoku. Da quell’incontro, la visione della musica di Sakamoto cambia notevolmente e questo è la prova della sua sensibilità storica molto acuta.
Il pianoforte è un prodotto industriale, realizzato piegando il legno sotto una notevole pressione meccanica e tendendo sotto tensione le parti metalliche. I materiali naturali vengono quindi domati e modellati sotto grandi stress dalla tecnica, e poi accordati secondo una scala definita dall'uomo. Nel caso dello Tsunami Piano, invece, l'entropia è entrata nel pianoforte e ha indebolito il carico imposto dalla tecnica, liberando le proprietà naturali dei materiali stessi e creando uno strano prodotto, scaturito sia dalla creatività umana che da quella della natura. La qualità del suono è quindi un'interessante miscela di toni plasmati dall'uomo e di toni che se ne discostano. Lo Tsunami Piano non è più uno strumento generato solo dalla creatività prepotentemente antropocentrica, il tipo di creatività che impone la visione e l'immagine dell'artefice alla materia, all'ambiente, alla società e alle persone, la creatività tipica dei tempi moderni, ma è piuttosto una sapiente miscela di artificio umano e natura, un dialogo tra queste due forze, da cui Sakamoto rimane fortemente attratto.
Tim Ingold, nel suo libro Making, attribuisce l'aggettivo "umile" a questo tipo di creatività non antropocentrica che si esercita sotto forma di collaborazione tra l’uomo e la materia (o la natura). Ma questa “creatività umile”, che attrae Sakamoto in Tsunami Piano, non riguarda solo la questione artistica, bensì una questione molto più ampia che comprende ogni attività umana praticata nell’ambiente naturale, nell’ambiente sociale e anche nell’ambiente mentale in questo momento storico così critico. I suoni di Tsunami Piano stanno invitando anche noi a soffermarci su questo tema, a mio avviso di fondamentale importanza, della “creatività umile”.
La rassegna offre a questo proposito un interessantissimo esempio di "creatività umile", sviluppata e raffinata in modo specifico in un campo diverso da quello dell'arte, e diffuso oggi in varie parti del mondo.
Creatività umile
I due autori del documentario FINAL STRAW (2015), Suhee Kang e Patrick M. Lydon, hanno passato quattro anni a filmare e intervistare, in Giappone, Corea e Stati Uniti, persone che praticano il metodo di “agricoltura naturale” sviluppato da Masanobu Fukuoka, l’autore del libro Rivoluzione di un filo di paglia.
Questo rivoluzionario metodo di coltivazione, basato su pochi principi – 1. nessuna aratura, 2. nessun uso di fertilizzanti (né chimici né organici) né di altri prodotti chimici e 3. nessuna ostilità agli insetti e alle erbe – è paradigmaticamente opposto all'agricoltura che si pratica oggi in gran parte del mondo, basata sulle macchine e sulla chimica, secondo la logica dell’industria alla ricerca della massima produttività. L’agricoltura naturale confida invece nella capacità della terra stessa di nutrire le piante.
Fin dall'antichità, l'uomo ha arato i campi credendo di creare così l’ambiente più ospitale per le piante, ma oggi sappiamo che rivoltando il terreno uccidiamo tutti i microrganismi nascosti sottoterra che sono i veri alimentatori delle piante, esponendoli all'aria aperta e alla luce del sole. E così con l’aratura, in realtà, desertifichiamo i nostri campi ogni anno, tanto da doverli concimare per migliorare il suolo depauperato da noi stessi. Una pratica davvero irrazionale.
Inoltre non s’immette nessun concime, nemmeno quello organico, perché secondo i praticanti di questo metodo è sufficiente ciò che offre il terreno, troppi aiuti potrebbero guastare il giusto equilibrio naturale. E non si uccidono gli insetti, perché se manteniamo la biodiversità i danni saranno sempre controllati poiché ci saranno anche gli insetti predatori che si cibano degli insetti che divorano le nostre piante. Tutti gli esseri viventi animali e vegetali che hanno vissuto sui campi muoiono sul suolo, formando negli anni l’humus ricchissimo che Yoshikazu Kawaguchi, un grande maestro del metodo naturale, nonché uno dei protagonisti del film, chiama “lo strato dei cadaveri”.
Il soggetto di questo metodo non è né l'uomo né la tecnica, ma la collaborazione tra l'uomo e la natura. Anzi, l’uomo è l’assistente della natura che nutre le piante. E non si tratta solo di un metodo ecologico di coltivazione, bensì di un importante paradigma per l'uomo da seguire nella sua vita su questo pianeta, una vera "creatività umile" molto concreta.
Molti dei protagonisti del film sostengono che il modo migliore per sviluppare questa "creatività umile" (anche se loro non usano questo termine), e per imparare a vivere in armonia con la natura, è stare nei campi dell'agricoltura naturale, armeggiando con la terra, piantando semi, osservando la crescita delle piante e le attività degli insetti, e mangiando con gusto le verdure raccolte. Sarebbe proprio la miglior formazione ecologista che si possa ricevere.
Quando il Giappone assomigliava a una squadra olimpica
THE WITCHES OF THE ORIENT (di Julien Faraut, 2021) è un documentario sulle giocatrici della squadra giapponese della pallavolo femminile che vinse la medaglia d’oro a Tokyo nel 1964. Quelle atlete, all’epoca invincibili, erano soprannominate dai media internazionali “The Witches of the Orient”, le streghe d’Oriente. Nel film alcune giocatrici intervistate ricordano i loro allenamenti e le loro partite, riproposte anche con immagini d'epoca, mischiate con spezzoni di un cartone animato molto popolare negli anni ‘60 – ‘70 sulla pallavolo femminile (Attack No. 1/Fantastica Mimi).
THE WITCHES OF THE ORIENT individua la valenza sociale che aveva quella squadra per il Giappone di quegli anni. Queste giocatrici stakanoviste si allenavano per ore e ore (tutte lavoravano il mattino in fabbrica e si allenavano dalle 15 alle 2 di notte) senza mai lamentarsi per diventare le migliori al mondo, ed erano perfetti modelli per il popolo giapponese che si era rialzato dalle ceneri del dopoguerra e che iniziava a correre con una rapida crescita economica. In effetti, il Giappone di quel periodo era una nazione brillante, vigorosa, instancabile e assomigliava molto a quella squadra di “streghe”. Tutta la nazione s’identificava in qualche modo in quella squadra invincibile e al successo delle stesse Olimpiadi, mentre i cartoni animati sportivi degli anni '60 e '70, compreso quello già ricordato sulla pallavolo, avevano anche una funzione propagandistica per inculcare nei giapponesi fin dalla più tenera età l'ideologia del capitalismo tipicamente nipponico che esige a oltranza la disciplina e la massima dedizione.
Oggi la popolazione del Giappone sta invecchiando (ma nonostante questo non accogliamo che pochissimi immigrati) e sembra anche più stanco in ogni settore produttivo. Ma soprattutto il paese ha perso molto della sua creatività dopo che per decenni abbiamo continuato a mandare i nostri figli in un sistema scolastico davvero sterile, adatto solo a formare guerrieri aziendali omologati, efficienti, molto resistenti, ma non molto pensanti né creativi. Questo ha eroso le fondamenta della società giapponese e indebolito notevolmente la nazione. Non è più il momento storico in cui una nazione può assomigliare a una squadra olimpica.
Chi ha bisogno di questa rassegna
È stata davvero una rassegna intensa e utilissima per il pubblico italiano, un’opportunità per conoscere alcuni aspetti meno conosciuti del Giappone contemporaneo, vedere sotto la superficie e capire perfino qualcosa sul futuro. Ma forse chi più avrebbe avuto bisogno di questa rassegna sarebbero stati, secondo me, proprio i giapponesi. Dico questo perché quando andrete in Giappone vi renderete conto che i meno consapevoli delle vere condizioni della loro esistenza sono proprio i giapponesi, e questi film, così potenti, sarebbero forse riusciti a risvegliare la loro sensibilità e consapevolezza sulla società in cui vivono. Un film, oltre alla sua qualità artistica, può essere come sappiamo un potente specchio che, con il suo riflesso, ti penetra nella mente e nel cuore. Mi sarebbe tanto piaciuto vedere questi film insieme a un gruppo di giovani miei connazionali e discuterne insieme, condividere osservazioni, cercando di capire dove stiamo andando davvero con il nostro paese.