La caccia all’ideologico quotidiano / Decostruire Zuckerberg
C’era una volta e ora non c’è più, una trasmissione radiofonica che andava in onda su Radio Popolare di Milano. Si chiamava La caccia all’ideologico quotidiano, ogni domenica mattina prendeva una dichiarazione di un politico o un’editoriale che aveva fatto discutere e la sezionava per farne emergere il discorso ideologico che si annidava in quelle argomentazioni.
Voglio provare a fare lo stesso esperimento con le parole usate ieri da Zuckerberg per celebrare i vicini 15 anni di Facebook e difendersi da varie accuse.
Prima di tutto, il semplice fatto che l’inventore e padrone del più grande mezzo di comunicazione del pianeta senta il bisogno di comprare dello spazio nei giornali di tutto il mondo per difendere il modello di business della propria azienda, è già un sintomo della odierna fragilità della reputazione di Facebook, a 15 anni dalla sua fondazione.
Ma prendiamo alcuni frammenti della sua difesa e proviamo a farne cadere il velo ideologico:
Zuck: “La possibilità di mostrare pubblicità a gruppi mirati esisteva da molto prima di internet ma, oggi, la pubblicità online permette di raggiungere il proprio target in modo più preciso e, quindi, con annunci più rilevanti.”
È vero. La segmentazione dell’audience di un mezzo di comunicazione a fini pubblicitari, esisteva da tempo. Almeno dal 1934, quando le stazioni radio commerciali iniziano a suddividere il proprio pubblico di ascoltatori in quattro diverse fasce di reddito, da vendere a prezzi differenti agli investitori pubblicitari. Ma i dati che radio e televisioni, prima dell’arrivo di internet, avevano sul proprio pubblico erano di natura socio-demografica, non post-demografica, come quelli che ha in mano Facebook. Nell’epoca del broadcasting commerciale le audience erano segmentate per età, fasce di reddito, livello di istruzione, luogo di residenza. L’azienda di Menlo Park ha segmentato i suoi utenti in migliaia di cluster, sotto-insiemi aggregati per stili di vita e di consumo. Secondo quanto scoperto da Pro Publica, un giornale investigativo no profit americano, Facebook utilizza algoritmi non solo per determinare le notizie e le pubblicità che visualizza agli utenti, ma anche per categorizzare i suoi utenti in decine di migliaia di gruppi micro-target. Le categorie di Facebook vanno da gruppi innocui di persone che amano il cibo del sud a categorie sensibili come "Affinità etnica" che categorizza le persone in base alla loro affinità con afro-americani, ispanici e altri gruppi etnici. Gli inserzionisti possono indirizzare gli annunci a un gruppo o escludere gli annunci da un gruppo particolare. Facebook non solo raccoglie dati sull’attività online dei suoi utenti, ma compra anche da aziende terze, i data broker, dati sui loro comportamenti offline: il loro reddito, i tipi di ristoranti che frequentano e anche quante carte di credito sono nel loro portafoglio. ProPublica ha scoperto che delle 29.000 categorie che Facebook fornisce a chi acquista annunci pubblicitari sulla sua piattaforma, 600 provenivano da fornitori di dati di terze parti.
Questo cosa significa? Che Facebook, rispetto alle aziende commerciali di comunicazione del passato, possiede un volume di dati sui propri utenti esponenzialmente maggiore. I dati, aggregati assieme e analizzati, forniscono informazione. L’informazione è conoscenza. Maggiore informazione, maggiore conoscenza: non si è mai realizzata, nella storia della comunicazione mediata da aziende commerciali, un’asimmetria di potere tanto evidente, tra i “data-rich”, le aziende come Facebook e i “data-poor”, gli utenti che producono i dati sui quali non hanno alcun controllo.
Forse qualcuno di voi sarà contento di ricevere pubblicità più “rilevanti”, ma per una democrazia non è mai un bene quando un attore accentra così tanto potere su di sé rispetto agli altri. E Zuckerberg oggi possiede un patrimonio di conoscenza su di noi che è enorme e non è mai stato regolato. Questo patrimonio deve essere sottoposto a scrutinio e regolato.
Zuck: “Voglio essere chiaro: noi ci concentriamo sull'aiutare le persone a condividere e a connettersi, perché lo scopo del nostro servizio è quello di consentire a tutti di rimanere in contatto con la famiglia, gli amici e la loro comunità.”
Qui Zuck, o il suo dipartimento di marketing, supera se stesso e ingenuamente fornisce un esempio di propaganda in purezza. Lo scopo di Facebook sarebbe quello di “consentire a tutti di rimanere in contatto…”, come se fosse un’organizzazione caritatevole. Lo scopo del servizio è far passare più tempo possibile dentro i confini dell’Impero Blu. Più tempo, più dati. Però Zuck dice anche una cosa vera, cioè che a Facebook interessa che si rimanga in contatto con amici, famiglia e la nostra “comunità”: infatti le ultime modifiche all’algoritmo del newsfeed hanno dato ancora più importanza ai post delle persone a noi “vicine” (quelle con cui interagiamo di più), rendendo la vita difficile ai post di giornali, istituzioni, aziende, associazioni culturali, bloggers, spingendo questi ultimi verso l’acquisto coatto di visibilità tramite post sponsorizzati: se vuoi avere un’audience, te la devi comprare. Quindi, se sei un piccolo giornale locale, hai già perso in partenza la competizione con chi ha più budget di te. E questo ci porta a smontare una terza affermazione di Zuck:
“Se si crede in un mondo dove chiunque può far sentire la propria voce e avere pari opportunità di essere ascoltato, dove tutti possono avviare un'attività dal nulla, allora è importate costruire una tecnologia al servizio di tutti.”
Qui Zuck fa leva sulla retorica dell’uguaglianza, delle pari opportunità. Peccato che sia solo vuota retorica, perché non è vero che “tutti hanno pari opportunità di essere ascoltati”. I nostri post non hanno tutti pari opportunità di essere visti dai nostri amici, ma sono governati da un algoritmo, di cui non si conoscono le regole, che stabilisce una rigida gerarchia di visibilità secondo regole sconosciute.
C'è un'analisi interessantissima di una studiosa dei media danese, Tania Bucher, che spiega meglio come questa visibilità non sia affatto democratica e sia inserita dentro un dispositivo estremamente “disciplinare”. Bucher inverte la relazione che Foucault traccia tra visibilità e disciplina così come è organizzata dall'architettura tecnica del Panopticon. Sostiene che, una volta incorporata nella logica algoritmica del news feed, "la visibilità funziona come ricompensa piuttosto che come punizione" (2018, p.87). Essere visibili significa essere scelti dall'algoritmo, selezionati, elevati, amplificati in termini di voce e legittimità. In questo modo, l'architettura algoritmica dei social media genera una relazione inversa rispetto a quella del Panopticon. Questa struttura di visibilità rimane disciplinare, tuttavia con il newsfeed algoritmico, "il problema non è la possibilità di essere costantemente osservati, ma la possibilità di scomparire costantemente" (If…Then, 2018, p.84).
Minacciati di scomparire costantemente, ci adattiamo alle regole dell’algoritmo, ottimizziamo i nostri post per renderli più attraenti per l’algoritmo e cerchiamo quindi post provocatori, polarizzanti, che generino immediatamente like, commenti, condivisioni. Anche negative.
Quando Zuck, più avanti, sostiene che “Per noi la tecnologia ha sempre rappresentato la possibilità di mettere il potere nelle mani di quante più persone possibile”, mente di nuovo, sapendo di mentire. Perché il potere non è equamente distribuito tra gli utenti e soprattutto perché questo potere è infinitesimale di fronte a quello che lui detiene in forma di dati. È sul valore e la protezione di questi dati, che si gioca il futuro di Facebook e Zuck lo sa:
“In definitiva, quando si parla di dati, credo che i princìpi più importanti siano: trasparenza, scelta e controllo. Dobbiamo essere trasparenti su come utilizziamo le informazioni e offrire alle persone scelte chiare su come vogliono che queste informazioni vengano usate. Crediamo che una regolamentazione che codifichi questi principi in tutta la rete possa essere di beneficio per tutti.”
Zuck sostiene che è per la trasparenza, la scelta e il controllo, eppure nessuno di questi principi viene rispettato dalla sua azienda. Non sappiamo nulla delle categorie post-demografiche in cui Facebook ci ha inseriti, abbiamo una libertà di scelta limitatissima sull’uso dei nostri dati e il controllo di questi dati è tutto nelle sue mani. Zuck conclude con l’auspicio per una regolamentazione che possa essere di beneficio per tutti e con questa mossa svela la sua preoccupazione: che l’Europa, dove già è passato il GDPR, possa approvare regolamentazioni che vadano a beneficio degli utenti ma non delle piattaforme. Zuck ha paura che vengano posti dei limiti alla sua attività estrattiva di dati e cerca di anticipare la politica, lavorando sull’opinione pubblica europea per portarla dalla sua parte, convincendola che non c’è niente di male nel suo modello di business, che è un modello secondo lui pre-esistente a Facebook e anche l’unico possibile per mantenere quel servizio gratuito. Si dimentica, Zuck, che esistono anche altri modelli di business per avere accesso gratuito all’informazione: i media comunitari e i media di servizio pubblico. Zuck vuole solo essere lasciato in pace: mani libere al mercato, è questo che chiede. Ed è questo che teme di perdere.
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