Dopo l'Italia niente
L’Italia dopo L’Italia di Perry Anderson (Castelvecchi 2014) è un libro sulla recente storia politica del nostro paese, in particolare sulle vicende che hanno decretato la fine della seconda Repubblica e preparato l’avvento dell’epoca renziana. Più che su una struttura sequenziale, l’autore gioca su flashback e approfondimenti tematici che spostano l’obiettivo dalla storia dell’ultimo ventennio a un passato ormai remoto che va dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni ottanta, oppure come movimento inverso dagli anni novanta verso il nostro presente. Tale effetto di dislocazione temporale è dovuto anche al fatto che alcuni capitoli che lo compongono, pubblicati precedentemente in varie riviste internazionali, sono saggi autonomi che approfondiscono alcuni aspetti tematici come: le vicissitudini della Seconda Repubblica, la fine dell’epoca berlusconiana, il rapporto tra PCI e intellettuali, la Terza Repubblica e l’epoca renziana. Il fatto che tutto il discorso prenda luogo dalla Seconda Repubblica, ovvero da un’epoca di mezzo in cui tutto ancora può succedere, supporta la doppia esigenza di scavare a fondo nel passato con metodo retrospettivo e di riportarci al presente renziano, cercando di motivarne l’avvento.
Perry Anderson
Sin dalle prime battute si tenta di sciogliere un nodo metodologico, ovvero quello inerente un libro sulla storia nazionale scritto da uno studioso britannico. Non è un caso forse che tra i riferimenti più citati da Anderson compaiano da un lato Paul Ginsborg, quasi a voler marcare l’eredità illustre di tale l’operazione, dall’altro Antonio Gramsci che, grazie ai Cultural Studies nei primi anni settanta, è diventato un autore chiave nella scena culturale anglosassone e internazionale.
Il capitolo sulla Seconda Repubblica esordisce proprio con la legittimazione di uno sguardo esotico sulle vicende del nostro paese, visto come un caso sui generis rispetto al “concerto europeo”. Per sviluppo e numero di abitanti l’Italia compare tra le quattro nazioni più importanti del continente, tuttavia essa non è mai stata percepita come centrale all’interno delle dinamiche geopolitiche continentali. Anzi, il motivo che spiega l’innamoramento da parte degli altri paesi nei suoi confronti è dovuto proprio alla sua “estraneità” rispetto all’ontologia del potere. Forse per questo motivo i soliti Byron, Goethe e Stendhal, si sono cimentati nell’arte di appioppare a questa semplice espressione geografica metafore e stereotipi che, sedimentati nell’arco dei secoli, aiuteranno a definire – ahimè grazie anche al collaborazionismo di intellettuali autoctoni e del povero senso comune – quell’idea di un carattere nazionale che l’antropologia ha sconfessato da decenni, ma che in storia e in politica ancora stenta a scomparire. Questa mia idea è confermata anche da alcune riflessioni di Anderson, quando insiste sul modo paradossale in cui questa estraneità al potere ha reso l’Italia da un lato un paese incline a derive autoritarie o a egemonie politico-culturali di lungo periodo; dall’altro la cultura che produce, molto più delle altre, nomignoli e appellativi autocritici (come Italietta, italico, italiota ecc.) che dileggiano la natura stessa dell’identità nazionale.
Una delle tesi di fondo, sviscerata dallo strillo in copertina, è che la percezione interna da parte di noi italiani di una certa eccezionalità delle vicende politiche del nostro paese è distorta, dato che semmai l’Italia, più che un’eccezione, rappresenta un “concentrato” della più generale anomalia europea. Tale tesi è esplicitata in maniera più palese all’inizio del terzo capitolo su “La caduta del sultano”, che tenta di spiegare il fenomeno Berlusconi non come unicum, come eccentricità e peculiarità di una cultura marginale o arretrata, bensì come un tratto condiviso, se non addirittura esemplare, della più generale crisi della politica europea. Nel ventennio berlusconiano, che in Italia è stato dipinto come una sorta di vergogna nazionale, si sono succeduti numerosi scandali che hanno coinvolto i più importanti leader europei, tutti a dimostrazione di una certa resa della politica di fronte a poteri di gran lunga più influenti, e soprattutto a scapito della morale. Dalla collusione di Schröder con Gazprom – che in seguito gli ha garantito una posizione da consulente d’oro – alle accuse mosse verso Sarkozy per il finanziamento sottobanco ricevuto da Gheddafi, alle tangenti per appalti intascate da Rajoy, fino agli scandali sessuali che hanno investito l’immagine di Francois Hollande. Tutti questi sintomi evidenti della “malattia europea” servono se non a scagionare, perlomeno a considerare il fenomeno del berlusconismo come parte di una più generale perdita d’autorevolezza e di credibilità della politica, di fronte a dinamiche globali che la sovrastano e la schiacciano in una posizione di subalternità.
All’interno della macrostoria europea si consuma la vicenda italiana e ancor più quella di una sinistra che, se non del tutto responsabile, è stata anch’essa partecipe della deriva più generale. Al di là di un’attenta ricognizione sugli anni cruciali di tangentopoli, il capitolo sulla Seconda Repubblica propone un passaggio retrospettivo che dagli anni novanta conduce l’autore a esaminare la gloriosa storia del PCI. Argomento ripreso e sviscerato più avanti in uno dei momenti chiave di tutto il testo. Si tratta difatti di un ragionamento sull’eredità intellettuale ricevuta dal PCI grazie all’opera seminale di Antonio Gramsci che, proprio a quella formazione politica, regalò i suoi Quaderni dal carcere (p. 20). Grazie a tale eredità il PCI fu in grado di creare “una cultura di massa politica senza paragone nella sinistra europea” (ib.). Più che un’analisi delle contingenze storiche, il discorso di Anderson si fa filosofia politica, ovvero va alla ricerca dei motivi per cui un partito dotato di una ricchezza intellettuale e ideologica proveniente dalla riflessione gramsciana, abbia progressivamente smantellato il suo impianto in favore di un riformismo senz’anima né visione prospettica. La sua lettura si fa ancor più interessante quando il focus si sposta sull’intellighenzia nostrana, cercando d’individuare ruolo e responsabilità degli intellettuali più o meno organici al partito. Rispetto alla prima energia che lo caratterizza, grazie anche alla “donazione” gramsciana e all’attivismo di alcuni protagonisti come Amendola, il PCI post-bellico si andò trincerando dietro a un apparato rigido e autoreferenziale che si preparava a quaranta lunghi anni di “opposizione nazionale” (p. 79). Questa forse una delle precondizioni che resero effettiva nel corso degli anni una certa “egemonia” culturale del partito comunista, capace di attrarre a se numerose schiere di intellettuali (Pavese, Calvino, Pasolini, Visconti) e di convertire l’insegnamento crociano in un’inedita strategia di lungo periodo che mirava a prendere il potere politico passando prima per quello culturale. Le pagine più belle di questo lavoro sono dunque sul ruolo degli intellettuali, dall’operaismo di Mario Tronti alla critica della letteratura “impegnata” di Asor Rosa, fino ai primi accenni di una mutazione che passa per la reinterpretazione del pensiero negativo da parte di Massimo Cacciari: colui che “portò a compimento ciò che loro (Tronti e Asor Rosa) avevano iniziato, non limitandosi a separare la cultura e l’economia dalla politica rivoluzionaria, ma proponendo una dissociazione sistematica di tutti i campi della vita e del pensiero moderni, quali settori tecnici, ciascuno intraducibile nel linguaggio dell’altro” (p. 98).
Qui lo storico lascia il passo al filosofo della politica. Il ragionamento, di chiara impostazione wittgensteiniana (e dunque lyotardiana), è forse l’anello di congiunzione tra il passato del PCI ancora ispirato da una concezione storicista a una decostruzione progressiva delle categorie chiave della politica che, vagliate attraverso l’opera di Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger (p. 99), giunge a demolire il pilastro stesso della prassi politica: la sintesi dialettica (ib.). Una traiettoria seguita anche dall’operaismo con la sua “svolta nietzscheiana” che fu, a detta di Anderson, “del tutto compatibile con la linea ufficiale del partito negli anni settanta”. In altri termini l’operazione intellettuale di Cacciari, a cui si dedica molta più attenzione di qualsiasi altro pensatore contemporaneo (più di Agamben, Sartori e Franco Moretti), sta nel fatto che la sua fusione a freddo tra “misticismo e tecnicismo” (p. 100), aggiungerei tipico di una certa visione postmoderna, è il passaggio chiave di quella che Anderson definisce come “spoliticizzazione” che ha portato Cacciari ad essere “simbolo della destra del Partito” (ib.) e a “osannare politiche pubbliche molto simili a quelle del New Labour” (ib.). Questa chiave di lettura di un progressivo svuotamento dall’interno delle risorse culturali, ideologiche o banalmente progettuali degli eredi del PCI (su cui convergono numerose recenti pubblicazioni come quelle di Pippo Civati e di Claudio Giunta) rimane quasi sottotraccia negli ultimi due capitoli che fanno il punto sulla Terza Repubblica e sulla transizione renziana. Anderson si muove con particolare agilità nel resoconto storico di fatti che per noi si sovrappongono alla cronaca del presente: le manovre di palazzo, l’acuirsi della crisi, l’ascesa del Movimento 5 Stelle, lo shock (doppio) della non-vittoria bersaniana. La ricostruzione dell’epopea renziana è minuziosa, dalla militanza nella Margherita alla carriera da Sindaco, alla kermesse della Leopolda (base di una strategia fondata sull’immagine) sino alla vittoria delle seconde Primarie del centro-sinistra che apre a Renzi le porte di Palazzo Chigi. Un aspetto che compare nel passaggio dal penultimo all’ultimo capitolo è la centralità del potere finanziario e il suo rapporto con il potere politico. L’analisi delle meccaniche interne della super-élite finanziaria e della sua connivenza con quella politica è sviluppata a partire dal concetto di Kapitalentflechtung ('districamento del capitale') secondo cui, conclude l'autore, "il peso del capitale e del management straniero (sulla politica nazionale) è in aumento" (p. 172). Acuta la critica ai due exemplum in positivo e in negativo (ovvero da sinistra e da destra) a cui è stata paragonata la politica renziana: la Thatcher e Schröder.
Amara la chiusura leninista, che spiega l’impossibilità attuale di una rivoluzione dato che “una situazione rivoluzionaria è quella in cui coloro che stanno sotto non vogliono più vivere come prima, mentre quelli che stanno sopra non possono più farlo” (ib.). A parere dello storico in Italia si realizza oggi solo la seconda condizione. In realtà anche quelli che stanno sotto non vogliono più starci, solo che non sanno più cosa volere.
Il libro: Perry Anderson, L'Italia dopo l'Italia. Verso la Terza Repubblica, Castelvecchi 2014