Liebestod per Ert / Angélica Liddell: lo scandalo del teatro
Si legge che Liebestod, ultimo lavoro di Angélica Liddell presentato in prima ed esclusiva italiana all'Arena del Sole di Bologna, abbia scandalizzato parecchio al debutto la scorsa estate al Festival d'Avignon. Le scelte estreme e gli stilemi provocatori con cui l'artista spagnola s'è fatta conoscere sulla scena europea negli ultimi vent'anni in effetti ci sono tutti: dall'autolesionismo al limite della body art ai riferimenti cattolici a rischio di blasfemia, immagini forti e ferite di ogni genere – quante volte la parola viene ripetuta durante lo spettacolo! –, fiori picchiati, spezzati, e armi, l'incoscienza scenica di animali e bambini, il corpo usato come oggetto e scene d'una violenza estrema. Ma dopo trent'anni dagli esordi di questa ex fille terrible della scena sperimentale spagnola e a distanza di sicurezza dagli scandali teatrali che avevano segnato l'Europa negli anni Dieci del nuovo millennio – erano stati presi di mira, fra gli altri, anche artisti come Romeo Castellucci e Rodrigo Garcia –, a guardar bene questo nuovo spettacolo ha ben poco di provocatorio.
Niente di male perché più degli altri lavori recenti – alcuni dei quali fortemente contestati anche in Italia – Liebestod ha il potere di sottrarre l'opera di Angélica Liddell ai pregiudizi di parte, alle reazioni di pancia, agli sguardi di superficie, permettendoci così di osservare più nitidamente la ricerca di una delle maggiori autrici-attrici della scena contemporanea.
Liebestod, “morte d'amore”, è l'aria finale del Tristano e Isotta secondo la lettura di Richard Wagner. In scena però rimane poco dell'opera – a parte qualche brano o i riferimenti sparsi qua e là ai personaggi e alla loro vicenda –, oppure moltissimo, se si guarda al distillato dell'opera così compresso nel titolo. Tanto più che la tragedia s'incontra con (apparentemente) tutt'altra storia: quella di Juan Belmonte, famosissimo torero, amico di Hemingway, morto anch'egli suicida. Del resto, amore e morte si intrecciano, fronteggiano, confrontano anche nell'arena: nella danza fra rischio e attrazione, antagonismo e agonismo, sopravvivenza e sopraffazione. In verità, all'interno dello spettacolo, resta poco anche di questo livello drammaturgico: qualche riferimento visivo – un costume da torero, una statua con le sembianze di un toro, gli spalti dell'arena sullo sfondo, qualche passo di ‘danza’ a mimare una corrida lontana e impossibile.
In più, i due fili narrativi che dovrebbero plasmare la messinscena sono impastati con tutt'altro: brevissimi tableaux vivants che imprimono immagini enigmatiche fra un passaggio e l'altro; monologhi interminabili in cui a ogni passo s'intromettono testi altrui, dai poeti maudits a Emil Cioran; momenti fuori controllo, al limite dell'improvvisazione, e grandi pezzi di virtuosismo, dove la parola si fa glossolalia, per sfumare infine nell'incomunicabilità assoluta o in un canto struggente; riferimenti culturali altissimi e brandelli di kitsch estremo, fra Rembrandt e orde di gatti ammaestrati, Wagner e la musica folk spagnola, un classico abito da sposa con tanto di balze, l'iconografia della Pietà cristiana, le poesie di Rimbaud.
Se l'incontro fra le vicende di Tristan und Isolde e del mitico Juan Belmonte evapora fino ad accogliere miriadi d'altri testi – verbali, scritti, visivi, il testo è dappertutto nei lavori della drammaturga spagnola –, di cosa tratta, allora, questo nuovo lavoro di Angélica Liddell?
“Non riesci a raccontare una storia che non sia la tua?”, si chiede e ci chiede la performer, autrice e regista. Però non c'entra tanto l'autobiografia, propria di tanto teatro performativo degli ultimi cinquant'anni, utilizzata per lo sfondamento della rappresentazione fin dalla rivolta della performance al cuore della società dello spettacolo negli anni Settanta e di recente scivolata nel pantano di tanta estetica “della realtà” dilagante dai social alla tv ai palcoscenici.
È vero che il rinvio a sé è stato utilizzato spesso anche per spiegare l'opera della Liddell, soprattutto per le pratiche al limite della body art, ma il suo teatro è – ed è sempre stato – più che altro una questione autoriale, drammaturgica, poetica. Tanto più che in Liebestod la carrellata di riferimenti al suo percorso precedente è al centro di una feroce, disincantata, anche ludica mise en abyme, dove i rimandi cattolici che in passato avevano sollecitato tante proteste sono esposti in maniera blanda e le – altrettanto prevedibili – ferite auto-inflitte sono oggetto di un'ostensione che culmina in quella smorfia grottesca, ammiccante, autoironica che tornerà tante volte durante lo spettacolo.
“L'unica cosa che ti manca è di morire nell'arena”, recita una delle molte frasi proiettate sul fondo in mezzo ai sottotitoli. Il suicidio è forse il nucleo di tutta la messinscena, di quell'unione di amore e morte annunciata fin dal titolo. Niente di autobiografico neanche qui, quantomeno in senso convenzionale: perché l'auto-estinzione di cui parla Angélica Liddell dischiude una molteplicità di strati di senso che vanno dal nostro destino come specie alle difficoltà personali a – soprattutto – il suo ‘suicidio’ artistico, teatrale.
Non tanto per le provocazioni già viste in altri lavori (e ben più di così), di cui la performer si libera subito, esibendole all'inizio dell'allestimento quasi a soddisfare le aspettative del pubblico e preparando così una ‘trappola’ drammaturgica da cui poi sarà impossibile liberarsi. Perché il pezzo forse più forte che sta al cuore di tutto lo spettacolo – potrà sembrare un paradosso, viste le imprese per cui l'autrice-attrice è nota – è un lungo, lunghissimo monologo, in cui il corpo è parola e basta (per chi l’avesse perso, il testo è pubblicato da Sossella ed Ert nella collana “Linea”, che stavolta si apre oltre le produzioni del Teatro Nazionale).
La pièce parla della paura, del bisogno d'amore, dell'essere il proprio lavoro – in teatro e fuori –, della fuga dalla solitudine, dell'altro mondo che è il teatro, di un dolore infinito che diventa in scena disperazione... Ma non appena lo spettatore inizia a seguire la performer, a conoscerla, poi a identificarsi con l'una o l'altra riflessione, l'eloquio si trasforma in una feroce invettiva in cui l'autrice-attrice se la prende con tutto e tutti: con la burocrazia che avvelena le nostre vite; coi funzionari che gestiscono i grandi teatri (il lavoro è prodotto da NTGent con Avignone e altri grossi centri europei); con i colleghi, in particolare le attrici che si svendono anelando al successo; con le donne, gli omosessuali, pure i vegani (qualunque minoranza, proprio al giorno d'oggi); e pure con noi che la stiamo a guardare, platea di mediocri “femministi, studenti, artigiani, tesisti”, “imitatori da sagra, venditori ambulanti, falsificatori e caricature, gentaglia priva di qualsiasi talento”, “instagrammer social-totalitari di merda”, “futuri professori o presidi di scuola, destino naturale, anonimo e grigio dei né carne né pesce tediosi, latrine dell'ambizione” (dovremmo saltarle addosso per quel che sta dicendo e invece, confermando il sospetto, restiamo immobili e muti).
Soprattutto, Angélica Liddell se la prende con sé stessa, avversario ultimo e definitivo in uno spettacolo in cui i personaggi toreano anch'essi, in una transizione multiforme in cui si passa senza soluzione di continuità dalla Madonna a Tristano morente che diventa Isotta, mentre l'autrice cerca di farsi strada fra loro, però la sua parola viene continuamente infestata da tutte le altre voci che l'attraversano. Nella ‘corrida’ messa in scena in Liebestod il toro diventa la vita, la morte, l'amore, il teatro; anche il torero e infine l'attrice stessa, che assume tutte queste figure, assieme ai loro conflitti, alle mutazioni possibili, nel proprio corpo, voce, presenza.
Tornata finalmente sola al centro della propria opera, in tutta la potenza di senso e di pensiero che dominava gli spettacoli d'esordio, oltre i grandi allestimenti che l'avevano consacrata alla fama europea, e forte di un talento drammaturgico-attoriale decisamente multiforme, Angélica Liddell recita, parla, accusa; espone, disegna, balbetta e sbrana il suo poetare; mima e pantomima, sfiora la danza; canticchia e canta, dischiudendo frammenti di lirica; si ferisce, sanguina, si auto-penetra frontalmente alla platea; gioca con la body art, la chiesa, il teatro d'avanguardia, sé stessa e il pubblico, attraversando rappresentazione e realtà; compone immagini forti e in un momento le disfa sotto i nostri occhi, trasfigurandole in qualcosa di inaspettato.
L'accostarsi, anzi il fronteggiarsi di prospettive differenti, inconciliabili è l'esito quasi obbligato di un lavoro del genere. Dopotutto siamo in un'arena, come annunciano fin da subito gli unici pezzi di scenografia presenti nello spettacolo: gli spalti di legno a fondo scena e le volute dei tendaggi-sipari in cui è incastonato. Non è lo spazio agonistico mitico che da secoli accoglie le “morti d'amore” come nel finale di Tristano e Isotta e nemmeno quello della corrida: il conflitto che va in scena in Liebestod è quello dell'autrice contro la sua opera; è questo il vero “fatto di sangue” al centro della messinscena; la dialettica fra amore e morte cui assistiamo è, in realtà, la lotta di un'artista contro il teatro.
All'apice dell'era del consenso, dove ipocritamente fingiamo d'andare tutti d'amore e d'accordo, dove nessuno dice niente di sgradevole in scena come fuori e si tende a sfuggire al conflitto reale, de visu – anche perché si può tranquillamente esorcizzarlo partecipando alla sua crescente spettacolarizzazione sui media –, questo è uno spettacolo per niente politically correct. Assolutamente e, direi anche, finalmente.
Liebenstod non scandalizza granché in senso convenzionale. Provoca, semmai, perché tenta di riportare al centro del palco il conflitto come tema e come forma scenica. Non a caso, “perché non dici quello che pensi?” è uno dei leitmotiv che maggiormente ritornano nella drammaturgia; ed è una domanda, naturalmente, che non ha a che fare solo il teatro, ma che oggi come non mai lo riguarda molto, molto da vicino.
Quello portato in scena da Angélica Liddell è uno spettacolo che rischia, e molto: di abbandonare le certezze, per esempio della provocazione tout court o del reality trend che va ora di moda; di attirarsi le ire del pubblico sia tradizionalista sia engagé, tanto dei benpensanti quanto degli avanguardisti (ma anche delle donne, degli operatori, dei vegani, dei disabili, delle persone di colore, per citare soltanto alcune delle figure che l'artista evoca con la citata cinica violenza); di annoiare per la sua lunghezza, per la durata di alcune scene, per la sfilata di cliché a cui ci sottopone; di infastidire perché non è niente di nuovo ma neanche di classico; soprattutto, di far discutere – s'è visto fuori dall'Arena del Sole – tanto chi l'ha amato quanto chi l'ha detestato.
Liebestod è un'opera che divide, incarnare l'antagonismo fuori e dentro il palco sembra essere il suo stesso scopo. Scelto subito dopo il debutto del nuovo direttore Valter Malosti, pare comporre quasi un dittico con la retrospettiva di Alessandro Berti, contemporaneamente in scena nell’altra sala bolognese di Ert, lasciando intravvedere una possibile nuova linea per il Teatro Nazionale emiliano romagnolo: nel momento in cui si affida alla sapienza tecnica, poetica e politica di due autori-attori scomodi che condividono senza pudore una domanda sull'arte talmente estrema da valere il rischio, se non trova risposta, della propria estinzione.
Potrà piacere o no, ma quello che abbiamo visto in scena all'Arena del Sole è un teatro seriamente in cerca di sé stesso, di un proprio ruolo o funzione possibile nel mondo di oggi, dove la scena viene ancora ostinatamente usata per l'incarnazione del conflitto (e, dunque, per la sua contemplazione collettiva, elaborazione, risoluzione): che è qualcosa che anche le arti sceniche ultimamente sembrano aver accantonato e che però per secoli è stata nella loro natura, forse il loro senso stesso.
Le fotografie sono di Christophe Raynaud de Lage.