La motocicletta di Moro
Una nuova rivelazione – l’ennesima – cade sul cosiddetto caso Moro, ma non si tratta di un fulmine a ciel sereno. Infatti ciò avviene alla vigilia dell’istituzione di una nuova Commissione di inchiesta parlamentare sulla tragica vicenda ed è verosimile aspettarsi che altri segnali di questo tipo si susseguiranno nei prossimi mesi.
Con senso di responsabilità e doverosa prudenza bisognerà verificare l’attendibilità di queste nuove informazioni. E, anche in questo caso, siamo sicuri che la magistratura non mancherà di accertarne la fondatezza.
A quanto è dato conoscere, ci troviamo davanti a un ispettore di polizia in pensione il quale sostiene che sulla moto Honda presente in via Fani c’erano due agenti segreti al servizio del colonnello dei carabinieri Camillo Guglielmi (effettivamente presente in prossimità della scena dell’agguato pochi minuti dopo il fatto) con il «compito di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere». I due agenti, però, non possono essere ascoltati perché sono entrambi defunti e l’arma che avrebbero utilizzato nella circostanza, seppure ritrovata in anni recenti, sarebbe andata nel frattempo distrutta.
La prima sensazione è quella di trovarsi davanti a un classico tentativo di disinformazione che mescola il vero con il falso: da un lato, indirizza e sottolinea, invitando i futuri membri della Commissione Moro a concentrare la propria attività sulla presenza di una moto Honda con a bordo due passeggeri non identificati; dall’altro, orienta e depista, perché sposta l’attenzione sui servizi segreti nostrani (quelli militari legati al Sismi), potendo contare su un orizzonte d’attesa della pubblica opinione incline alla dietrologia o al più totale scetticismo.
L’impressione è che continui a svolgersi un’annosa battaglia fra reduci e i rispettivi mondi di riferimento: ex agenti dei servizi civili e militari, ex membri dell’Ufficio affari riservati della polizia, ex carabinieri che con i loro ultimi colpi di coda alzano la sabbia sul fondale della grotta dei misteri del «caso Moro». L’obiettivo è quello di intorbidire le acque, in modo da intrappolare quanti ritengono doveroso, sul piano civile, raggiungere una verità credibile su quella drammatica vicenda. Studiosi, giornalisti, politici, cittadini che sono tutti implicitamente invitati a una generale deresponsabilizzazione.
Ad avvalorare questa ipotesi c’è il dato di fatto che il racconto sulla moto Honda fornito dall’ex ispettore di polizia riprende quasi alla lettera la sceneggiatura di un film del 2003 sul caso Moro, Piazza delle cinque lune, secondo una tecnica citazionistica di derivazione culturale situazionista tipica di simili operazioni che agiscono su un orizzonte d’attesa della pubblica opinione già predefinito.
Inoltre, secondo un articolo de «La Stampa» del 25 marzo 2014, nella cantina del presunto agente dei servizi segreti defunto sarebbe stata ritrovata, insieme con un’arma cecoslovacca e una serie di prime pagine di giornali su eventi celebri, fra cui una dedicata alla strage di via Fani, anche una busta con un foglio dell’ex parlamentare Dc Franco Mazzola. Costui durante il sequestro Moro fu il sottosegretario dell’Interno con delega ai servizi segreti ed è stato anche l’autore di un libro, I giorni del diluvio (pubblicato anonimo nel 1985), che ha contribuito ad avviare un tipo di lettura dietrologica della vicenda Moro, che dunque ha un’interessante origine istituzionale e dall’alto. Se la presenza di questo foglio riguardante Mazzola fosse confermata, ciò costituirebbe un ulteriore indizio di un’operazione preparata a freddo per mandare oscuri messaggi trasversali, secondo un costume che ha caratterizzato la vicenda Moro sin dalle origini.
Occorre anche ricordare che, in base a documenti del Sismi, ossia del servizio segreto militare, resi pubblici nel 2012 e pubblicati in un’inchiesta dal quotidiano «la Repubblica», si è venuti a sapere che, nei giorni immediatamente successivi all’agguato di via Fani, i servizi militari avevano nel mirino Erri De Luca, il quale, fino allo scioglimento di Lotta Continua, avvenuto nel 1976, era stato responsabile del servizio d’ordine di quell’organizzazione. Nella velina dei servizi, datata 26 marzo 1978, si trova scritto che «una fonte aveva riferito di aver visto subito dopo l’eccidio in via Mario Fani un giovane dalle caratteristiche identiche» a quelle di «Henry De Luca» «già da tempo ritenuto elemento irregolare delle Brigate Rosse». Sempre nel luogo dell’agguato «una fonte informativa» aveva segnalato anche la presenza di tal Rocco Pastore «già esponente di Lotta Continua e in atto “elemento irregolare” delle Brigate Rosse».
Proviamo ora a districarci tra tante notizie false, vere o verosimili facendo il punto delle conoscenze finora acquisite sull’agguato di via Fani del 16 marzo 1978.
Intorno alle 9 di mattina, un commando composto da almeno dieci brigatisti rapì in via Mario Fani Aldo Moro e sterminò i cinque agenti della scorta Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Soltanto nel marzo 1990 si conobbero con certezza i nomi di nove partecipanti all’agguato, contenuti in un memoriale del brigatista dissociato Valerio Morucci che venne inviato all’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga grazie alla mediazione di suor Teresilla Barillà, assistente spirituale nelle carceri, e del direttore de «Il Popolo» Remigio Cavedon. Il documento era accompagnato da un biglietto di suor Teresilla di questo tenore: «Solo per lei, signor Presidente, è tutto negli atti processuali, solo che qui ci sono i nomi. Riservato (1986)», da cui si evince non solo la data di effettiva estensione del memoriale, ma anche il fatto che esso rimase sconosciuto alla magistratura per oltre quattro anni. In base a questo documento, su cui ancora oggi si fonda la ricostruzione della verità ufficiale sulla strage di via Fani, quel giorno entrarono in azione Franco Bonisoli, arrestato nell’ottobre 1978, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore e Valerio Morucci, catturati nel 1979, Bruno Seghetti, imprigionato nel 1980, Mario Moretti, carcerato nel 1981, Barbara Balzerani, arrestata nel 1985, Alvaro Lojacono, catturato nel 1988 e Alessio Casimirri, tuttora latitante in Nicaragua. In un’intervista dell’ottobre 1993 Morucci aggiunse il nome di Rita Algranati, moglie di Casimirri, assicurata alla giustizia italiana soltanto nel 2004 in Egitto. Il gruppo di fuoco era composto da Bonisoli, Fiore, Gallinari e Morucci, i soli del commando a indossare una divisa blu da piloti di aerei completa di cappellino con visiera.
A distanza di trent’anni dall’agguato di via Fani, il numero di quanti vi parteciparono è certamente incompleto. Da una serie di testimonianze oculari convergenti è possibile dedurre che presero parte all’agguato perlomeno altri due individui, i quali agirono a bordo di una moto Honda di colore blu. Il testimone principale, l’ingegnere Alessandro Marini, riuscì a schivare dei colpi sparati dal sellino posteriore della moto che infransero il parabrezza del proprio motorino, i cui pezzi, ancora nel settembre 1978, egli conservava in casa a disposizione dell’autorità giudiziaria. Da quel giorno fu a lungo minacciato con telefonate anonime «nei momenti più diversi della giornata» che gli preannunciavano una dura rappresaglia da parte «dei rossi» o delle «Brigate rosse». Una lo raggiunse il 2 giugno 1978, la sera in cui si giocava Italia-Francia ai mondiali argentini.
Anche un poliziotto che passava per caso di lì, Giovanni Intrevedo, confermò di avere visto sfrecciare «una moto di grossa cilindrata con due persone a bordo».
Sul fronte brigatista l’episodio della moto Honda è stato ammesso dal brigatista Raimondo Etro, il custode delle armi utilizzate in via Fani, il quale, nell’interrogatorio del 15 settembre 1994, ha dichiarato: «Ricordo anche di avere appreso da Casimirri, che era successo qualcosa di imprevisto che potrebbe riguardare una moto e chi la guidava. Ricordo che mi disse “sono passati due cretini con la moto”, o forse, “sono passati quei due cretini con la moto”. Di questi miei ricordi però non sono sicuro, quindi non posso essere più preciso». A parte l’esitante e isolata testimonianza di Etro, i brigatisti, nonostante l’evidenza dei fatti, hanno sempre smentito questa circostanza. Ad esempio, Mario Moretti, riferendosi proprio all’episodio di Marini e senza avvertire il benché minimo imbarazzo, ha potuto dichiarare a Rossana Rossanda e a Carla Mosca: «può darsi che un testimone, suggestionato dal clamore dell’avvenimento, riferisca in buona fede qualcosa che magari aveva visto mezz’ora dopo oppure il giorno prima. Non lo so proprio. Di sicuro noi non usiamo nessuna Honda e non c’è nessun compagno a fare il cow-boy in motocicletta».
Si presume che i brigatisti siano tuttora mossi dall’intento di non rivelare agli inquirenti i nomi dei due motociclisti, entrambi condannati per tentato omicidio. Ma è pur vero che nel corso degli anni sia Germano Maccari sia Rita Algranati, malgrado fossero sfuggiti alle indagini della magistratura, sono stati denunciati dai loro stessi compagni e, nel caso di Maccari, condannati a pene durissime che avrebbero altrimenti evitato. Ciò lascerebbe pensare che il muro di omertà riguardante la Honda blu sia ancora oggi particolarmente problematico da rompere, non tanto sul piano dei rapporti personali, ma su quello, ben più delicato, dell’identità politica delle Brigate rosse, ossia delle relazioni intercorrenti tra questa struttura e le altre componenti il cosiddetto «partito armato».
Nel pomeriggio del 16 marzo cominciarono gli interrogatori dei testimoni oculari dell’agguato. Fra i tanti, colpì gli investigatori il racconto del benzinaio Pietro Lalli, il quale, in sede di esame, ribadì quanto aveva visto quel giorno:
Notai un uomo che [...] dando la sinistra alla mia visuale sparava con un’arma automatica che io, data la mia conoscenza nel settore delle armi, identificai per un mitra con caricatore a doppia alimentazione e funzionante a recupero gas. Assistetti allo sparo di due raffiche complete. La prima un po’ più corta della seconda, a distanza ravvicinata rispetto al bersaglio che era una 130 blu. La seconda raffica, più lunga, fu estesa anche ad una Alfetta chiara che seguiva la 130, e fu consentita da uno sbalzo indietro dello sparatore che in tal modo allargò il raggio d’azione e quindi del tiro. Quello che mi colpì in maniera impressionante fu la estrema padronanza di detto sparatore nell’uso preciso e determinato dell’arma. Esprimo un giudizio ma doveva essere certamente uno particolarmente addestrato. Sparava avendo la mano sinistra poggiata sulla canna dell’arma (con il che devo dedurre che trattavasi di mitra non munito di frangi fiamma) e con la destra, imbracciato il mitra, tirava con calma e determinazione convinto di quello che faceva.
Non meno circostanziato fu il racconto di Alessandro Marini, che si trovava a pochi metri dallo scenario dell’attentato, e che ha individuato la presenza di 14 assalitori:
Dalla 128 CD uscirono l’autista e la persona che gli sedeva accanto e avvicinandosi alla macchina dell’on. Moro, scaricarono le loro pistole lunghe sull’autista e sul carabiniere accanto. Contemporaneamente i quattro vestiti da militi o aviatori aprirono il fuoco violentemente non so con quali armi. Dall’Alfa Romeo di scorta uscì fuori un uomo con la pistola in mano: contro quest’ultimo continuarono a sparare due individui che oltre a quelli vestiti da militi o aviatori, erano in borghese e avevano quasi contemporaneamente aperto già il fuoco. [...] In conclusione fino ad ora operarono otto persone tutti maschi. Poi arrivò, quasi comparendo dal nulla, una Fiat 132 blu, seguita da una Fiat 128 chiara: dalla Fiat 132 scura uscirono due uomini che calmissimi si avvicinarono alla macchina di Moro, lo tirarono fuori il quale era in uno stato di abulia, inerme e mi pare non fosse in alcun modo ferito [...] Nella 128 bianca che tallonava la 132 vi erano altri due individui. Fino a ora di tutte le dodici persone nessuna era mascherata. In quel frangente mi accorsi di una moto Honda di colore blu di grossa cilindrata sulla quale vi erano due individui [...] Mi colpì il fatto che l’uomo che teneva il mitra sulla moto, pur essendo giovane, assomigliava in modo impressionante a Eduardo De Filippo.
Il particolare della somiglianza con il grande commediografo napoletano attrasse inevitabilmente gli investigatori e, nel dicembre 1978, la Polizia individuò cinque nomi rispondenti a tale caratteristico identikit: un anarchico, un brigatista rosso, un membro delle Unità comuniste combattenti e due militanti appartenenti alla «sinistra rivoluzionaria», ma le indagini non approdarono a un risultato definitivo.
Anche la deposizione di Cinzia Lina De Andreis si rivelò, secondo quanto dichiarato dalla magistratura, di «enorme importanza per la ricostruzione degli eventi». La donna, mentre cercava delle sigarette nella borsa, notò sia la macchina con a bordo Moretti e altri due brigatisti, fra cui una donna, sia le due vetture di appoggio, riuscendo a descrivere in modo dettagliato gli occupanti. Inoltre, scorse sul lato opposto della strada «un uomo dell’apparente età di 30-35 anni, di corporatura massiccia, con occhi molto grandi a mandorla, labbra grosse, viso grasso. Questi indossava un berretto tipo coppola, un giubbotto nero di pelle e pantaloni stesso colore e, sentendosi osservato», la fissò «in modo torvo». La De Andreis testimoniò anche un particolare non secondario: si disse convinta, mentre avveniva il prelevamento di Moro, di avere sentito urlare alcune frasi certamente non in lingua italiana, francese, inglese o tedesca. Il dato è interessante anche perché il colonnello Antonio Cornacchia, responsabile delle indagini sulla vicenda per l’arma dei carabinieri, il cui nome sarà trovato nel 1981 tra i presunti iscritti alla P2, nel verbale che inoltrò alla Procura della Repubblica di Roma, in cui aveva il compito di riassumere e segnalare le testimonianze più utili alle indagini, menzionò la deposizione della De Andreis, ma omise proprio questo significativo aspetto. Una mancanza tanto più rilevante se si considera che nell’originale i carabinieri avevano addirittura sottolineato quel passo che scomparve così dall’attenzione della magistratura inquirente.
Dichiarazioni di questo tenore sono importanti anche dal punto di vista civile perché chi le rilasciava rischiava la vita. Molti testimoni, infatti, nei giorni successivi, subirono minacce di morte in grado di rivelare l’ampiezza dell’area di contiguità in cui agivano i brigatisti. Come abbiamo visto, fu questo il caso dell’ingegnere Marini, ma anche del giornalaio Paolo Pistolesi, il quale raccontò che il 22 marzo era venuto a sapere da sua madre che «sul cofano della macchina di altra persona che aveva assistito ai fatti era stata tracciata una scritta di questo tenore: “se tu e il giornalaio parlate vi faremo fuori”. Detta scritta era stata tracciata con un pennarello blu».
Uno dei principali aspetti rimasti oscuri nella dinamica dell’agguato di via Fani è costituito dalla presunta presenza di un tiratore scelto, che non sembra essere avvalorata solo dalla testimonianza oculare del benzinaio Lalli, ma anche dalle perizie balistiche.
La prima perizia del 1978 stabilì che uno degli assalitori sparò da solo oltre il 53% dei proiettili, ossia su 93 bossoli repertati, ben 49 risultavano esplosi da una sola delle cinque armi entrate in azione in via Fani per mano brigatista (la sesta era certamente in uso a Iozzino che sparò due colpi). Nel 1994 una seconda perizia sostenne che i proiettili impiegati non furono 93, ma 68 e la differenza si spiega con il fatto che i precedenti periti avrebbero erroneamente contabilizzato anche dei frammenti. Su 68 colpi, 21 rimasero senza attribuzione e 47 vennero assegnati alle cinque armi utilizzate dai brigatisti. Il maggior numero di proiettili era stato sparato da un mitra FNA 43, mai rinvenuto dagli inquirenti, che aveva esploso 19 colpi. In base ai dati di questa seconda relazione, un solo assalitore avrebbe potuto sparare al massimo 40 proiettili su 68 (se ai 19 accertati si sommano i 21 di attribuzione incerta), ossia il 59% del volume di fuoco complessivo. Oppure circa 23 colpi su 68, se ai 19 accertati sparati da un’unica arma si aggiungono i 3-4 proiettili opinabili divisi proporzionalmente fra le sei armi in uso, il che porterebbe la percentuale di colpi sparati da un solo tiratore al 34% del totale.
A ben guardare, sia nel caso della prima perizia (53% di colpi), sia della seconda (con un range oscillante dal 34% al 59% del totale), non sembra però cambiare il dato di fondo, ossia la presenza in via Fani di uno sparatore che si sarebbe accollato gran parte della responsabilità militare dell’operazione. Un killer che, nell’ipotesi minima, avrebbe sparato da solo più di un terzo dei colpi e, in quella massima, addirittura tre quinti del volume di fuoco complessivo.
Tali risultati sarebbero indirettamente confermati anche da una serie di testimonianze rilasciate dagli stessi brigatisti. In effetti l’aspetto più paradossale di tutta la storia è proprio questo: tutti, nessuno escluso, hanno raccontato che i loro mitra si incepparono nel corso dell’azione. Gallinari e Bonisoli riuscirono a utilizzare le pistole di scorta; Morucci sostituì il caricatore del mitra e, avendo «impiegato del tempo per disinceppare l’arma», esplose una seconda raffica quando la macchina «era già ferma»; Fiore, pur avendo cambiato il caricatore, non sparò un solo colpo perché l’arma si bloccò di nuovo. Non a caso Moretti ha parlato di «capacità e precisione militare approssimativa» del commando, con una preparazione che «avrebbe fatto ridere un caporale di qualsiasi esercito» e di essere convinto che neppure Bonisoli sappia «come ha fatto a sparare con tanta precisione» verso Iozzino. Una visione confermata già nel 1982 dal brigatista Alfredo Buonavita per il quale a Via Fani «in soldoni avevamo quattro armi scassate, e quattro persone di cui qualcuno se la faceva pure sotto».
La verosimiglianza della versione ufficiale è inficiata dal fatto che pure la seconda perizia balistica ha stabilito come l’armamento utilizzato dai brigatisti fosse per oltre un terzo composto da veri e propri «residuati bellici». Una notizia confermata da Moretti, il quale ha parlato di un mitra «Zerbino, un residuato della Repubblica di Salò, ereditato da qualche partigiano» e ha dichiarato che l’unica arma moderna ed efficiente in mano agli assalitori era il mitra M12 in dotazione a Fiore, che abbiamo però visto essere rimasto inattivo come riconosciuto dal suo stesso utilizzatore. Insomma, i brigatisti avrebbero preventivato di utilizzare solo quattro uomini, per loro stessa ammissione non particolarmente addestrati e male armati, per bloccare e uccidere cinque agenti delle forze dell’ordine in movimento, dotati di pistole e di mitra di ordinanza e di cui non conoscevano il grado di preparazione e di allerta. Il tutto, potendo contare solo sull’effetto sorpresa, di per sé un fattore imponderabile, e con la necessità di raggiungere un obiettivo militare selettivo, ossia quello di sopprimere cinque uomini, garantendo però l’incolumità del sesto che stava loro accanto.
Le testimonianze oculari di Lalli, di Marini e della De Andreis, i risultati delle perizie balistiche e i racconti degli stessi brigatisti lasciano presupporre la presenza in via Fani di almeno un quinto sparatore particolarmente addestrato e rimasto finora sconosciuto, oltre a quello che certamente colpì il parabrezza di Marini dal sellino posteriore della moto Honda.
L’intervento di un tiratore scelto potrebbe anche spiegare perché i brigatisti del gruppo di fuoco scelsero di indossare delle divise di aviere, rendendosi in questo modo assai più individuabili di quanto sarebbe accaduto se si fossero vestiti anonimamente. Carlo Alfredo Moro ha avanzato l’ipotesi che i terroristi adottarono questo espediente per rendersi riconoscibili fra loro in quanto non tutti si conoscevano, così da evitare di essere colpiti dal fuoco amico.
La sera del 16 marzo il ministero dell’Interno diffuse venti schede segnaletiche di ricercati con un numero di telefono e la garanzia che eventuali informazioni sarebbero state «coperte dalla massima riservatezza». Suscitò polemiche il fatto che fossero compresi anche due pregiudicati comuni e due detenuti (Giuseppe Aloisi e Antonio Favale), ma nella lista erano inclusi i nominativi di ben cinque brigatisti successivamente condannati in via definitiva per il sequestro e la morte di Moro e della sua scorta, vale a dire Mario Moretti, Prospero Gallinari, Rocco Micaletto, Franco Bonisoli e Lauro Azzolini e anche i nomi di Susanna Ronconi, Antonio Bellavita, Corrado Alunni e Patrizio Peci, tutti membri della medesima organizzazione e, a vario titolo, condannati per reati di terrorismo negli anni successivi. Inoltre, alle 19.00, la polizia perquisì l’abitazione della madre di Adriana Faranda, anche lei una protagonista del sequestro. L’indomani la Faranda fu riconosciuta come la persona che aveva acquistato il 10 marzo un berretto di aviatore inavvertitamente caduto durante la sparatoria dal capo del killer descritto dal benzinaio Lalli. Anche la casa di Morucci, che risultò irreperibile come la Faranda, fu perquisita già la mattina del 17 marzo, insieme con quella di Lanfranco Pace.
Questi dati rivelano che nel giro di ventiquattro ore gli inquirenti, come ancora nel 1980 rivendicava orgogliosamente il responsabile dell’Ucigos Antonio Fariello, avevano già individuato buona parte dei brigatisti effettivamente coinvolti nell’operazione Moro. Un risultato inconfutabile che denota un ottimo grado di conoscenza del terrorismo da parte delle forze dell’ordine e dei servizi informativi italiani. In realtà, il luogo comune della loro impreparazione e disorganizzazione fu utilizzato come efficace alibi per giustificare a posteriori, presso l’opinione pubblica italiana, l’umiliante disfatta subita dalla politica e dalle istituzioni in quei 55 giorni. A vellicare l’eterno animale del qualunquismo e dell’anti-politica avrebbero concorso articoli come quello di Franco Piperno Dal terrorismo alla guerriglia del maggio 1978, in cui si esaltava la «geometrica potenza dispiegata in Via Fani» dalle Br, da contrapporre alla «diarrea declamatoria» e alla «cinica doppiezza» degli «uomini di regime». Ma, come abbiamo visto, la vulgata dell’efficienza brigatista e quella dell’impreparazione dello Stato erano le due facce complementari di un unico inesistente mito propagandistico. Eppure, l’immagine di Piperno della «geometrica potenza» di fuoco finì per trionfare sul piano comunicativo perché, dopo il 9 maggio 1978, faceva comodo proprio a tutti, brigatisti, fiancheggiatori, uomini politici e forze dell’ordine comprese. Ora balsamo consolatorio, ora ciambella di salvataggio a cui aggrapparsi per continuare a galleggiare tra i lutulenti flutti italiani, sopravvivendo, ciascuno nel proprio campo, alla sua tragica sconfitta.