Museo d’arte di Gallarate / Il muro tra noi
Un po’ di follia e insieme la vita e la storia reale, un po’ di concettualità ma insieme intimità e collaborazione... Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini lavorano in coppia ormai da trent’anni, coppia anche nella vita, come si suol dire; realizzano e firmano le opere insieme, hanno adottato due figli, Rosa Dao e Tito Vinh Phuc, di origine vietnamita. Nel progetto ora esposto al Maga, Museo d’arte di Gallarate, la relazione opere-figli è il nucleo da cui partono tutte le sue diramazioni e stratificazioni.
L’esposizione si intitola The wall between us, il muro tra noi. Ognuno dei tre termini è carico di senso. La famiglia Pellegrin vive a Berlino da anni, lì c’era un muro dal significato epocale sia per la sua erezione sia per la sua caduta, diventato il muro per antonomasia e il simbolo di ogni muro. L’idea surreale, in questo senso un po’ folle, che il duo ha concepito è stata quella di navigare nelle strade della città. Al centro dell’esposizione sta infatti una multiproiezione, su tutte e quattro le pareti della stanza, che mostra questo viaggio duplice, forse anche triplice. La famiglia sta su una piccola barca a vela trainata da un’automobile esattamente lungo il percorso che era quello del muro. Vi hanno passato un’intera giornata, alterandosi al timone, intrattenendosi, mangiando, giocando, leggendo, dormendo.
Il viaggio, dicevo, è almeno duplice, secondo i due macrotemi dell’esposizione: lungo il muro, e i muri, in tutti i sensi, ma anche rimando a quello che i figli hanno dovuto affrontare per passare dalla loro terra di origine a quella di adozione, sorta di ritorno simbolico o di restituzione. Il video infatti ha come sonoro la lettura di una lettera rivolta ai genitori biologici dei due bambini, genitori sconosciuti, che loro, né i genitori adottivi né i figli, non incontreranno mai. Il tono della lettera, letta sottovoce come si parla con qualcuno di assente o di vicino, è quello dell’intimità, cioè del desiderio di rompere la distanza della separazione.
Vi si parla di tante cose, in particolare della promessa di non tenere separati i figli dal loro paese di origine e dalla sua cultura. Così le altre due sale dell’esposizione, disposte simmetricamente a quella centrale, sono occupare da artisti vietnamiti diasporici invitati ad esporre un’opera legata alla loro storia e cultura. Sono Van Bo Le Mentzel, Jacqueline Hoàng Nguyễn, Hương Ngô e Hồng-Ân Trương, Minh Thang Pham, Minh Duc Pham, Thị Minh Huyền Nguyễn e Dan Vo. Tra le opere degli ospiti il duo Mocellin/Pellegrini ha disposto altre sue opere a manifestare e ribadire il legame e l’estensione.
In particolare due realizzate per l’occasione con la stessa tecnica dell’incisione a secco, completamente bianche, con il rilievo, come un calco, l’una di cassette copia di quelle originali su cui hanno registrato testimonianze di ogni genere sul Vietnam raccolte negli anni, l’altra del tracciato del muro di Berlino nel quartiere dove abitano. Berlino e il Vietnam vengono collegati anche in questo modo.
Così il “noi” del “tra noi” è evidentemente moltiplicato e il muro di Berlino diventa il simbolo anche di quello invisibile tra genitori biologici e genitori adottivi, tra genitori e figli, tra culture diverse, intrecciando a tutti i livelli la storia con il personale e il privato.
Ma infine il muro è il “tra”, che significa non solo il rapporto ma anche lo spazio intermedio, l’in-between. Mocellin/Pellegrini lo hanno tematizzato rendendolo propriamente reale, letterale, concreto. Hanno infatti invitato l’architetto Van Bo Le Mentzel a realizzare un’unità di abitazione all’interno del muro, nel suo spessore, ovvero, nell’esposizione, della parete che separa la stanza centrale da una laterale, l’ultima nel percorso della visita. Anche in questo modo il significato di separazione del muro viene rovesciato in quello di unione, di vita comune, di condivisione, fin di intimità anche in questo caso.
Il modulo abitativo, a pensarci, duplica in qualche modo anche la barca in cui la famiglia ha condiviso la giornata di navigazione. Tutto risuona in ogni aspetto e parte del progetto, li lega, lavora insieme, collabora, prende forma. È il senso dell’operazione stessa.
Conviene sottolinearlo: questa “personale” che si presenta come una “collettiva” – come si dice nel linguaggio delle esposizioni – è un’operazione di unione, di collaborazione, di racconto collettivo: anche le opere degli artisti invitati sono in questo senso “adottate” dagli ideatori del progetto. L’adozione è cioè la forma stessa del progetto. L’idea è singolare e molto suggestiva. In termini formali si potrebbe sintetizzare la proposta di Mocellin/Pellegrini in una proposta di percorso che dal readymade – la battuta di Duchamp è un po’ forte ma appropriata al contesto, quando con il matrimonio acquisì i figli della moglie definendoli appunto “figli readymade”! – si passi all’adozione piuttosto che all’appropriazione, forma dominante dell’arte postmoderna.
Adottare non è appropriarsi, non è assumere facendo propri, ma condividere e lavorare insieme, fare famiglia, disponendo le condizioni di una realizzazione, del diventare opera. L’adozione è un’operazione più dolce, più rispettosa, un gesto amoroso, non facile, rischioso, che coinvolge al punto da costringere a rimettere tutto in gioco, che ha come posta una forma diversa di legame, non biologica ma esistenzial-culturale che intreccia il privato e la storia in un nodo inestricabile che se riesce è diverso da ogni altro.
La mostra è a cura di Elena Aguido. The wall between us, frutto di una ricerca pluriennale, è stato vincitore nel 2020 dell’ottava edizione di Italian Council, il programma di promozione di arte contemporanea nel mondo della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.