Romeo Castellucci nelle fotografie di Luca Del Pia / Come un fotografo di guerra
Un uomo alto e magro, infilato in una divisa color kaki, che dal chepì sembra quella dell’esercito francese, lievemente più grande della sua corporatura, è fermo, immobile, su un pavimento interamente ricoperto di foglie minuscole o forse dai petali di un’infiorata. Sul fondo di un bianco freddo si apre l’ombra vuota di una porta, il personaggio alza il mento, come se stesse guardando qualcosa o ascoltando qualcuno, ma senza intenzione, rilassato o rassegnato; l’impressione è che non dovrebbe trovarsi qui, ma ci si trova, come ognuno di noi quando sta sognando. E non è l’unica figura smarrita, incongrua, eccessiva che popola le immagini che compongono un libro pubblicato fuori collana dall’editore Cronopio che ha un’austera e straniante bellezza – formato verticale, semplice copertina color crema con il titolo in basso – simile alle fotografie che contiene: Attore, il nome non è esatto. Il teatro di Romeo Castellucci nelle fotografie di Luca Del Pia a cura di Velia Papa.
Poco oltre all’attonito e silenzioso generale che è e non è Charles De Gaulle, un uomo semi-nudo allarga le braccia e le gambe nella postura del leonardesco uomo vitruviano aderendo alle forme di un vertiginoso rosone gotico, sospeso come un ragno alla sua tela; altrove, un gruppo di persone in controluce osserva ipnotizzata una vampa di fuoco che divora un pianoforte a coda proiettando il suo chiarore di incendio sulle pietre di un antico muro in un’altra immagine, su un terreno sconnesso e desertico avanza un carrarmato… sono tutte scene tratte dalle opere di Romeo Castellucci, episodi del ciclo della Tragedia Endogonidia, del Purgatorio, dell’Inferno, che Luca Del Pia ha fotografato nel tempo, ma si fatica a credere che possano essere contenute nella parola ‘teatro’ o almeno nel senso spaziale e architettonico che siamo abituati ad attribuirle, anche perché Del Pia più che da fotografo di scena, attento a congelare il momento saliente di un’azione – con quel clic che nelle sale teatrali spesso segnala la vittoria dell’immagine bidimensionale sul movimento dei corpi a tre dimensioni – si comporta come un fotografo di guerra che ha introiettato l’esattezza delle simmetrie: è lui stesso nella trincea di questo mondo in cui la realtà è continuamente attraversata dalla crepa di una visione, scossa, terremotata da quello che il regista della Socìetas chiama (con Antonin Artaud) uno “stato di pericolo”. Ogni foto è “la descrizione di una battaglia” perché riporta in un lucido frammento quella condizione di indecidibilità – di “enigmaticità” dice Velia Papa nella sua introduzione – che è lo statuto dell’immagine nel teatro di Romeo Castellucci, senza mai arretrare davanti al continuo corto-circuito del reale che si opera sulle sue scene e che è il filo rosso dipanato nell’intervista finale, una delle ricostruzioni più coerenti che si possano leggere della sua parabola artistica.
“Quando il mondo reale fa irruzione nel teatro – racconta Castellucci - vi è un principio di movimento, cioè di potenza. Occorre lasciare che accada il reale, per sospendere la realtà”. Abituati come siamo da diversi secoli a questa parte a considerare il teatro nei limiti di una replica della vita reale, spesso mal riuscita o goffamente imitata rispetto all’avvolgente verosimiglianza del cinema, non siamo abituati a misurare l’impatto dei corpi sulla scena, che è uno dei principali strumenti del teatro di Romeo Castellucci, come l’irruzione di questo principio di sospensione del nostro sistema di realtà, della normale umanità di cui ci consideriamo parte.
Bambini, animali, macchine, “persone completamente all’oscuro del teatro, persone che non vi avevano mai messo piede, neppure come spettatori”, tutto ciò che sfugge o intralcia il controllo razionale della rappresentazione, con una potenza che può essere anche quella di un totale indebolimento delle facoltà mimetiche, è stato convocato sui palcoscenici di questo regista che si è guadagnato la fama di essere scandaloso e visionario proprio per la sua capacità di creare immagini che, in un libro precedente pubblicato sempre da Cronopio (Toccare il reale), Dorota Semenowicz ha definito “fuori controllo”. Che la scena potesse esprimere lo stesso trauma di un evento reale era il programma del teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Romeo Castellucci è tra i pochissimi artisti in Europa e negli Stati Uniti che sia riuscito ad applicarlo e il suo rapporto ambivalente con l’arte contemporanea lo dimostra: perché il regista della Tragedia Endogonidia è sì un grande creatore di immagini, ma lo è (per parafrasare proprio la definizione che Artaud dà di Van Gogh) con tutti gli strumenti del teatro, “arte del limite” per eccellenza, retaggio del tragico che a sua volta lo è del sacrificio (e non è proprio dall’ombra ingombrante di questo retaggio che l’arte attuale nelle sue forme più trasparenti e discorsive, più comunicative e politiche sta in gran parte cercando di liberarsi?)
Difatti non è nelle pagine di un libro, nemmeno in quelle de Il teatro e il suo doppio che bisogna ricercare le origini del teatro di Castellucci. Esse affondano nella musica, risalgono al momento in cui a diciassette anni, studente del liceo artistico, assiste in Piazza Maggiore a Bologna a un’esecuzione della Sagra della Primavera di Stravinskij (che poi avrebbe diretto come regista). “Niente mi apparve più epifanico, più sovversivo di quella musica scritta nei primi del Novecento. Non c’erano Sex Pistols che tenessero. Capii che la violenza poteva essere veicolata e disciplinata da una forma. Quella fu la mia prima lezione di estetica: un’esplosione di forza controllata fino al midollo da una forma artistica”.
Lo stato di pericolo dà corpo a tutta l’intervista che chiude Attore, il nome non è esatto, e il reale è la sua pietra dello scandalo, il suo deflagratore. E poiché è proprio dal reale e dalla sua ferita che ci stiamo allontanando (e a grandi passi stando al de profundis che Byung-Chul Han intona in suo onore in Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale), voltando le spalle al mistero della sua alterità – a cominciare dal rifiuto del suo impatto estetico – ecco che il palcoscenico, il luogo in cui tradizionalmente tutto è al posto di qualcos’altro (un luogo che persino Artaud non riusciva a non considerare eufemistico) diviene l’unico spazio in cui non solo la sua epifania è ancora possibile, ma lo stesso orizzonte di de-realizzazione che l’assedia diviene visibile nel suo sospendersi. La violenza che il regista della Socìetas richiama come carattere originario dell’evento teatrale – della sua “commozione” come ha scritto a suo tempo Piersandra Di Matteo – questa estrema esposizione di una vita nuda e incontrollabile che, esacerbata dal rifiuto del logos ha affascinato molti spettatori nell’identica misura in cui ne ha inquietati altri, si ritrova “controllata fino al midollo in una forma artistica”: bisognerebbe tenere il conto del numero di volte in cui la parola “forma” ricorre nella conversazione con Velia Papa in Attore, il nome non è esatto, e anche del come vi ricorre, della qualità talora bruciante che assume – Castellucci a un certo punto ne evoca “la vampa”, e il pensiero corre al pianoforte che brucia nella coorte del Palazzo dei Papi di Avignone illuminando la notte in una delle immagini di Del Pia – una forma che balugina, che sorprende, che strania, in cui si opera quel rovesciamento di Apollo in Dioniso che Giorgio Colli sviscerò in un suo piccolo saggio (La nascita della filosofia, 1975). Ma soprattutto è una forma aperta, mancante, che in fondo coincide con il limite del teatro – e scaturisce da quella lotta estenuante e paradossale che, racconta il regista, la Socìetas nel suo periodo iconoclasta ha ingaggiato contro i limiti formali della scena, paradossale perché “si malediceva il teatro ma l’unico posto per poterlo fare era il teatro stesso” – con quel costante errore che impedisce al “bacio simbolico della mimesi” di aderire al reale, di giungere a una vera duplicazione della vita, perché “il reale della scena non combacia mai con la realtà”.
Ed è in questo difetto, in questo vuoto, in questo vizio di forma – che spingeva i teorici del modernismo artistico a disprezzare la teatralità, a considerarla come scriveva Michael Fried negli anni cinquanta “il contrario dell’arte” – che invece tutto precipita con impressionante precisione, in nome di una dimissione (o di una “minorazione” come ha detto Annalisa Sacchi del teatro di Castellucci): nello scavo del personaggio, svuotato dalla psicologia ma divenuto matrice della stessa, decisiva, relazione con lo spettatore, nell’abbandono dell’azione – un tratto di spoliazione che sembra ricongiungere Castellucci al pensiero di Jerzy Grotowski, autore molto lontano da lui ma che è anche uno dei pochi citati nel testo – persino in quella discesa del regista dal palcoscenico a cui in gioventù partecipava come attore, per vedere meglio, un’uscita di scena che traccia il solco luminoso in cui prende posto l’attore, “stella” (come lo definisce Castellucci) di una costellazione pericolante dove la luce e l’inesattezza sembrano fare tutt’uno.
Tutto un lessico improntato al negativo che culmina nell’immagine, suscitata da Velia Papa, dei cani che nella scena di apertura di Inferno sbranano l’artista “dissolvendone il nome appena pronunciato”, e a cui il regista risponde citando il movimento dello tzimzum nella mistica ebraica: l’artista deve farsi fuori, come Dio che si ritrae per permettere alla creazione di esistere, “ogni creatore, piccolo Dio che si espone al ridicolo nella creazione, deve farsi da parte (…) non deve rivendicare, giustificare, imporre la sua presenza. Creare è fare spazio. Uno spazio che non è più mio”. In quello spazio va, notoriamente, a collocarsi lo spettatore, termine ultimo di ogni drammaturgia.
L’ultima fotografia documenta un momento dello spettacolo Inferno. Tutte le immagini che illustrano l’articolo sono di Luca Del Pia, estratte dal libro Cronopio Attore, il nome non è esatto, sostenuto da Marche Teatro.