Speciale
Sciascia Trenta / La vecchia casa della noce
Sono trascorsi 30 anni da quel giorno di novembre in cui Leonardo Sciascia ci ha lasciati, trent'anni in cui il paese, che lui ha così bene descritto, è profondamente cambiato, eppure nel profondo è sempre lo stesso: conformismo, mafie, divisione tra Nord e Sud, arroganza del potere, l'eterno fascismo italiano. Possibile? Per ricordare Sciascia abbiamo pensato di farlo raccontare da uno dei suoi amici, il fotografo Ferdinando Scianna, con le sue immagini e le sue parole, e di rivisitare i suoi libri con l'aiuto dei collaboratori di doppiozero, libri che continuano a essere letti, che tuttavia ancora molti non conoscono, libri che raccontano il nostro paese e la sua storia. Una scoperta per chi non li ha ancora letti e una riscoperta e un suggerimento a rileggerli per chi lo ha già fatto. La letteratura come fonte di conoscenza del mondo intorno a noi e di noi stessi. De te fabula narratur.
La prima volta che ho incontrato Leonardo Sciascia non ho fatto fotografie. Non riesco ancora a darmene una ragione.
Era il 16 di agosto del 1963. Avevo da poco compiuto vent’anni.
Avevo cominciato da circa tre anni a fotografare abbastanza sistematicamente le feste religiose siciliane. Qualche mese prima con il primo nucleo di quelle immagini, già abbastanza cospicuo, avevo fatto una mostra, la mia prima mostra, al circolo di cultura di Bagheria, il mio paese. Stampe che avevo fatto io stesso, nel piccolo bagno di una casa di campagna, attaccate con puntine da disegno su sacchi di juta ai muri.
Accadde che un mio amico, Vincenzo D’alessandro, assistente di Storia medievale all’Università di Palermo, di Bagheria anche lui, conoscesse bene Sciascia. Leonardo in quel periodo veniva spesso a Palermo per consultare negli archivi documenti relativi alla storia che stava scrivendo, quella di Fra Diego La Matina, eretico racalmutese, uomo di tenace concetto, lo definì, che durante un interrogatorio aveva ucciso con le sue stesse catene l’inquisitore che lo interrogava. Una storia che da lì a poco sarebbe diventata Morte dell’Inquisitore.
Vennero a pranzo a Bagheria dove c’erano un paio di ristoranti rinomati. All’uscita dal ristorante il mio amico propose a Sciascia di visitare la mia mostra. Un ragazzo che mi sembra faccia delle buone foto. Andarono, io non c’ero, e Leonardo mi lasciò un biglietto di gentile apprezzamento.
Non sapevo nulla di Sciascia. In realtà non sapevo nulla di nulla. Avevo forse letto Il giorno della civetta, ma dubito che ne avessi compreso la portata. Sciascia era già uno scrittore molto apprezzato e il mio amico mi riferì con orgoglio del suo entusiasmo per le mie fotografie.
Fu così che qualche mese dopo, di ritorno da Butera, dove ero andato a fotografare una festa, decisi di passare da Racalmuto per cercare di incontrarlo.
Arrivai a Racalmuto in un mezzogiorno di scirocco micidiale e cominciai a domandare alle poche persone che sfidavano la canicola dove potessi trovare Leonardo Sciascia.
Nanà?, mi rispondevano, a la Nuci. Una contrada non lontana dal paese dove Leonardo trascorreva le estati e dove andava a scrivere i suoi libri.
Non fu facile trovare, persa tra i mandorleti, la vecchia casa di campagna. Arrivammo verso l’una, non proprio un’ora decente per piombare a casa di qualcuno.
C’erano due donne anziane che stavano infornando il pane nel piccolo forno che si trovava davanti allo spiazzo prospiciente la casa. Erano le zie. Chiesi di Leonardo, lo chiamarono, e lui spuntò sull’uscio di casa. Mi presentai e mi scusai per l’ora. Ah!, il giovane fotografo di Bagheria. Prego, accomodatevi. Volete un po’ d’acqua?, con questo caldo!
Non avrei poi mai visto arrivare nessuno a casa di Sciascia senza che immediatamente lui non gli chiedesse subito se avesse sete o fame.
Proprio in quel momento arrivò un contadino che portava un mulo carico di orci pieni d’acqua e sul quale stava felice in sella il nipote di Leonardo. La moglie e le figlie non c’erano. C’era invece Mila, la nipote, che aveva più o meno la mia età.
Io ero completamente imbambolato, sopraffatto dal fascino di quel luogo più che semplice, poverissimo, senza acqua né elettricità, bruciato di sole, sonoro di cicale, senza alberi “da ombra”, qualche ulivo, qualche mandorlo, fichidindia, e dalla miracolosa coerenza tra quello che vedevo e quell’uomo, carismatico nella sua semplicità, cordiale, caloroso. Come se di colpo tutto mi apparisse già consegnato alla trasfigurazione perfetta del ricordo, della letteratura.
Quell’incontro, le cose che mi disse, cambiarono la mia vita.