Sorrentino: Youth

22 Maggio 2015

Come sempre bisogna fare la tara a Sorrentino. Chiedersi come costruisca il suo immaginario, cosa ci metta dentro, come lo utilizzi, come lo svilisca e al tempo stesso lo elevi, in un modo spudorato e osceno al quale non può rinunciare. Sorrentino è sempre davanti al suo film, dietro le sue immagini, sopra e sotto il suo mondo, è il verme sotto le rose di Lynch, il paracadutista che atterra sulle montagne svizzere. Invece di nascondersi o di stare a distanza, come forse la fagocitazione del visivo oggi richiederebbe, Sorrentino schiaccia, sottolinea, trapassa il foglio a forza di calcare la mano, e forse converrebbe nemmeno andarli a vedere, i suoi film, se fin dal principio non si ha la voglia o la curiosità di stare al gioco.

 

una scena del film Youth, regia Paolo Sorrentino, 2015

 

Quanti registi, oggi, fanno ancora così? Quanti registi, oggi, non sanno rinunciare al loro immaginario, ma anzi lo ribadiscono a ogni passaggio? Pochi, pochissimi, e tutti a rischio di abuso della pazienza (Malick, per dire, volenti o nolenti si è infilato nello stesso pertugio). E Sorrentino, che di certo non ha paura di confrontarsi con i suoi maestri e i suoi contemporanei, il proprio immaginario lo alimenta a dismisura come un Babadook nascosto in cantina, lo ingigantisce da anni come spettatore e come regista, come lettore e come appassionato di musica o semplice e curioso creatore di forme obese. Sorrentino è un buffone che si rigira il mondo come vuole, che fa di tutto per non essere un intellettuale, come fa dire a Michael Caine in Youth - La giovinezza,  che mescola e fonde, inventa e svacca senza la paura di andare a sbattere, scegliendo gli attori, i temi e le location dei suoi film come un bambino con libertà assoluta di svuotare il portafogli di papà in un negozio di giocattoli.

 

Il fatto è che Sorrentino in quel negozio ci ha costruito la sua memoria, il suo magazzino pieno di immagini e di reminiscenze, di rimasugli e frammenti, come se fosse colto da una forma particolare di sindrome di Collyer, quella che porta all'accumulo di libri letti, di film visti, di filosofi studiati al liceo, di volti scrutati su uno schermo centinaia di volte, di celebrità prima idolatrate nel chiuso di un cinema e poi finalmente incontrate, e non per strappare un autografo su un red carpet o una stretta di mano a una festa in cui si è entrati di sgamo, ma per lavorarci insieme – roba da non crederci, sembra dire ogni volta Sorrentino, sia che si trovi di fronte Sean Penn o a Michael Caine, a Harvey Keitel o Jane Fonda – per costruire insieme a loro un personaggio, per truccare quel volto amato in forma bidimensionale e trasformarlo nella maschera parodizzata di se stesso, nella solita, grottesca maschera di tutti i personaggi di Sorrentino, la maschera ridicola del dolore e del rimpianto, della falsità e dell'agonia del desiderio.

 

Una scena del film Youth, regia Paolo Sorrentino, 2015

 

Ma è proprio questa assoluta innocenza del desiderio creativo, un amore provinciale per tutto ciò che la grande cultura anglosassone del Novecento ha dato a buona parte del mondo, a salvare ogni volta Sorrentino dal naufragio nelle sue stesse ossessioni. E a salvarlo, ancora, in nome del suo gusto perverso per la bellezza che si svilisce e, all'opposto, per la merda da incellofanare in una confezione sgargiante, secondo un'estetica personale e insieme di massa della meraviglia ripetuta, cercata, inseguita, svilita, umiliata. Da un lato ci sono il passato, l'ossessione della purezza e il mito della bellezza perduta; dall'altro, come al solito, il presente, una realtà da trasformare in recita, in concerto perenne (stavolta al posto di David Byrne c'è Mark Kozelek), ci sono i corpi umani da racchiudere dentro invisibili confezioni in lattice, come un Cattelan del cinema, come uno scultore di altorilievi in gomma, ogni volta guardando al futuro come a una chimera, e questa volta, in Youth - La giovinezza, nel suo albergo d'alta montagna che ospita celebrità, panzoni sosia di Maradona, coppie silenziose ma sessualmente attive, un direttore d'orchestra, un grande regista in declino, un attore emergente, e pure Miss Universo, a considerare il presente come il semplice regno dell'attimo, delle possibilità ancora da sfruttare, lasciando la bellezza all'occhio che divora e sa solo guardare indietro e accettando per una volta il trucco osceno che ciascuno porta in volto.

 

La nemesi e il sogno di Sorrentino stanno entrambi nella leggerezza, nelle Simple Songs scritte dal suo protagonista musicista: ma la sua condanna, o semplicemente la sua natura di regista e di uomo che ama ancora quello che fa e quello che consuma, sta nel non sapersene cosa fare della leggerezza e della semplicità, visto che non è in grado di tener ferma la macchina da presa nemmeno a morire e non sa mai resistere in nessun momento, nemmeno dopo i titoli di coda, alla tentazione del mostruoso, del paradossale e dell'illusorio, gettandosi ogni volta in quel vuoto che i suoi film imbellettano meglio di chiunque altro, alla ricerca di una battuta finale che non troverà mai, e che se anche trovasse sarebbe perfettamente in grado di annullare con il suo contraltare o il suo doppio osceno, come un Giano bifronte che potrebbe suicidarsi o continuare a vivere, mentre la meraviglia continua a crescere, di film in film, di libro in libro, di immagine in immagine, e con lei la possibilità di trasformarla in spazzatura.

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