Etruschi: Giano & Gino Severini
Di sicuro l’autore dello scatto non era un professionista, eppure che foto. A renderla interessante basterebbero la cappa e il cappuccio, il cordone a fiocchi in vita, lo stendardo fissato a terra accanto a un altare; insomma, atmosfera di un medioevo vero (si capisce bene che non è una rievocazione storica come quelle che si fanno qua e là per valorizzare qualche borgo). Ma quando scopriamo chi indossa l’abito della confraternita, quasi si sobbalza: Gino Severini, uno dei protagonisti, mezzo secolo prima, del movimento futurista.
La fotografia è all’interno del catalogo pubblicato in occasione della mostra Giano-Culsans. Il doppio e l’ispirazione etrusca di Gino Severini, presso la Fondazione Luigi Rovati a Milano. I curatori – Sergio Angori, Paolo Bruschetti e Giulio Paolucci – hanno avuto l’idea di saldare un episodio della vita e dell’attività artistica di Severini con alcune sculture etrusche conservate presso il Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona. Non si tratta affatto di un collegamento estemporaneo.
A metà Ottocento, nei pressi di una delle porte monumentali della cinta muraria della città vennero scoperte due statuette in bronzo. Sono due divinità del pantheon etrusco, Selvans e Culsans, come si ricava dalle iscrizioni incise sulle cosce dell’una e dell’altra (anche in Grecia troviamo scritte sulle cosce di alcune statue, e viene da chiedersi se la ragione sia proprio la nobiltà che gli antichi attribuivano a questa parte del corpo).
La prima statuetta – Selvans – raffigura la divinità che presiede ai confini, e che i Romani chiameranno Silvanus. L’altra – Culsans – è il dio che a Roma verrà chiamato Ianus, Giano: i due volti lo caratterizzano qui nel mondo etrusco come anche in quello romano. Le iscrizioni in caratteri etruschi riferiscono anche il nome del personaggio, molto probabilmente un notabile dell’antica Cortona che volle offrire i bronzi all’uno e all’altro dio.
Le ragioni dell’offerta dipendono molto probabilmente dal rigoroso formalismo rituale della religione etrusca: lavori di trasformazione dell’area della porta urbica forse indussero a chiedere il favore del dio dei confini e di Culsans che presiedeva ai luoghi di transito, di entrata e di uscita dai centri urbani.
È questo infatti il dominio di Culsans-Giano: i passaggi. Un dominio spaziale e temporale allo stesso tempo perché si tratta dei passaggi da un tempo all’altro – da un mese all’altro, da un anno a quello successivo –, ma anche da un luogo a un altro: non per nulla a Roma il nome di Ianus ritorna in quello della porta, ianua. Giano è perciò il grande sorvegliante: a questo serve il doppio volto che gli consente di osservare davanti a sé, e dietro. Ci fu persino una moneta dell’imperatore Adriano (circa 125 d. C.) in cui Giano è quadrifronte, guarda cioè in tutte le direzioni.
Il tempio eretto al dio nel Foro Romano (Ianus Geminus) ebbe poi una speciale importanza anche dal punto di vista politico: le sue porte restavano chiuse in tempo di pace, ma venivano aperte durante le guerre. Per questo l’edificio giocò un ruolo speciale all’interno della propaganda di Augusto e di altri imperatori, che si vantarono di aver chiuso le porte del tempio di Giano, insomma di aver assicurato un periodo di pace; le porte ben serrate si vedono ad esempio su una moneta di Nerone (con la scritta Ianum clusit).
Il capitolo della vita di Giano dopo la fine del mondo antico è tutt’altro che banale, dato che le sue sembianze si ripresentano nelle personificazioni di Gennaio: in molte immagini dei mesi dell’anno in età romanica Ianuarius continua ad avere il doppio volto che abbiamo visto anche nella statuetta di Culsans.
Ma c’è un caso speciale: al culmine del portale maggiore del duomo di Modena è scolpita una figura nuda con una doppia testa. Qui i mesi non c’entrano più: il dio antico è tornato al suo compito di custode delle soglie, ma ora guarda dall’alto la porta di una cattedrale cristiana.
Giano è dunque il dio che governa le transizioni, gli ingressi e le uscite, e quel passaggio cruciale che è, in ogni ambito, l’inizio; non per nulla, nei manoscritti antichi si scriveva che l’opera stava cominciando – incipit... – come ad avvertire il lettore dell’importanza di questo momento. Nel saggio che conclude il catalogo – Iniziare – Marco Belpoliti si interroga proprio su questo tema del principio, e ricorda come Italo Calvino avesse intitolato Cominciare e finire una delle sue Lezioni americane, poi rimasta inedita. Insomma l’orizzonte illimitato delle possibili strade che si aprono davanti a chi si accinge a parlare o a scrivere. È come se – scrive Belpoliti – ci fosse l’ombra di Giano dietro “l’idea di potenzialità che ha segnato gran parte della letteratura degli ultimi settant’anni”.
E Severini? Negli anni Cinquanta torna nella città natale, da cui è lontano da decenni. Si riannodano fili affettivi e artistici, e Severini scopre quei bronzetti che da giovanissimo aveva del tutto ignorato (a sedici anni aveva combinato qualcosa di grosso, ed era stato espulso, come si diceva, da tutti gli istituti del Regno). Nel 1958 manda alcune foto delle statuette a Picasso, dicendosi certo che le troverà interessanti: è il richiamo del ‘primitivo’ che sin dai primi anni del secolo aveva stregato le avanguardie, ora nei prodotti di civiltà artistiche extraeuropee, ora nelle forme di culture estranee alla linea greco-romana, ora in certi aspetti dell’arte medioevale. E ora anche Severini rifà a modo suo la statuetta di Culsans del III secolo prima di Cristo.
Infatti, con Severini il dio Giano non è stato troppo rigoroso, e ha chiuso gli occhi, come fa del resto con tutti i grandi artisti: entrano dove vogliono, vanno avanti e tornano indietro a loro piacimento, osservano quanto gli altri tralasciano. Nell’itinerario degli artisti, in altre parole, il prima e il dopo della storia dell’arte diventano fattori secondari, se non impicci. Du cubisme au classicisme, che Severini scrisse nel 1921, è tutta una sfilata di proiezioni ortogonali e di formule matematiche, di citazioni di Dürer e di Leonardo, Vitruvio e tanti Greci (ma nessun ‘primitivo’). Prese di posizione che poi non gli avevano impedito di entusiasmarsi davanti ai mosaici ravennati di San Vitale, e di paragonare i volti del vescovo Massimiano e dell’imperatore Giustiniano a un autoritratto di Cézanne.
E una volta tornato a Cortona, nessuna divinità etrusca gli impedì di entrare nella chiesa di San Niccolò, sede dell’omonima “compagnia”, e di vestire gli abiti della confraternita. Scrive a Picasso: “nella foto che ti mando puoi vedere come mi sta bene la veste da confratello. La si indossa per accompagnare i confratelli al cimitero”. C’era anche un’altra ragione per farlo: era stato membro della “compagnia” anche Luca Signorelli, il pittore nato a Cortona cinque secoli prima.