David Jiménez, Noémie Goudal e Antoine d’Agata / Fotografia Europea: un sogno ad occhi aperti?

23 Giugno 2021

“Sulla Luna e sulla Terra/ fate largo ai sognatori!”. È con questi versi che Gianni Rodari chiude la sua poesia Sulla Luna. Le stesse parole vengono proposte come titolo del Festival di Fotografia Europea a Reggio Emilia, dopo la cancellazione della passata edizione, dedicata proprio al centenario della nascita dello scrittore. Suggestivo, senza dubbio, che ogni spettatore possa essere considerato un sognatore, nel senso di chi sa guardare oltre il velo del reale per immaginare altri spazi ed altri mondi. E fascinosa è la Luna, realizzata da Marco Di Noia, vincitore della Open call del festival, che fa eco alle parole di Rodari. Nell’immagine, nata da un racconto scritto dall’artista nel 2018 durante un viaggio in Giappone, si vedono molte persone che guardano in alto, stupite dalla presenza e dalla vicinanza del corpo celeste, incerte sul senso da dare a quell’enorme sfera. Insomma una confusione tra realtà e immaginazione, come in un sogno ad occhi aperti, quando i confini tendono a dissolversi. Eppure, ciò che più si ricorda di questo festival non sono tanto le immagini legate in maniera più o meno evidente all’idea di sogno, quelle di David Jiménez (Aura), l’installazione molto “onirica” di Noémie Goudal (Telluris), o ancora le fotografie di Antoine d’Agata (Virus) esposte all’esterno, sulle finestre di un palazzo, quanto quelle che stanno drammaticamente vicine alla realtà.

Un ideale e sintetico percorso potrebbe iniziare da Halfstory Halflife (2017) di Raymond Meeks. Le fotografie mostrano alcuni giovani che si tuffano nel vuoto da un ponte che attraversa gli affluenti dei torrenti Bowery e Catskill, nello stato di New York. Sotto il ponte si apre una cascata profonda diciotto metri. L’occhio del fotografo si sofferma sui corpi sospesi in aria appena dopo il salto nel vuoto. Le braccia e le gambe talvolta sono divaricate, imitano il volo degli uccelli oppure ricordano chi cerca di saltare a piè pari, come se di sotto ci fosse niente più che un gradino. Ma non si vede affatto dove giungeranno. Il nero dentro cui si lanciano, che il fotografo esalta a contrasto del biancore dei corpi, è simbolo di quel vuoto, dell’incertezza di un esito come condizione inevitabile connessa all’azzardo del vivere.

 

Raymond Meeks, Halfstory #1370997, 2017, Courtesy Casemore Kirkeby.


Raymond Meeks, Halfstory #1360214, 2017, Courtesy Casemore Kirkeby.


Raymond Meeks, Halfstory #1543, 2017, Courtesy Casemore Kirkeby.


Non sembra una “fotografia piacevole”, e Raymond Meeks potrà anche essere definito “maestro della fotografia tranquilla”, come si legge nel catalogo, ma in queste foto vi è molto di più. Si tratta, piuttosto, di un istante inebriante, di assoluta libertà, in cui convivono paura e desiderio, bellezza e morte, perdita di sé e massima esaltazione della vitalità. Non è propriamente il delightful horror di Edmund Burke, ma lo sguardo che segue quei giovani corpi armoniosi è attratto dal nero che li avvolge e da una bellezza stupefacente che non rassicura. Il fotogramma è un precipizio, e l’istante del clic è il loro tuffo nel buco nero del vuoto. La scena si svolge a pochi chilometri dalla civiltà postmoderna, ma lo scenario è quello senza tempo dei riti di passaggio, i campi aperti della natura sconosciuta e ostile e i meandri inquietanti dell’ignoto, non raggiungibili dalle “divinità civili”. Con un di più di americano, di nuovo Eden e di Terra Promessa, che sa di viaggi di Melville, o di fughe verso mete sconosciute, come nelle peripezie di Gordon Pym, in cui gli orizzonti reali vengono sostituiti da quelli dell'inconscio. Il sogno americano, scintillante e ambiguo, per il momento si perde nel vuoto, e dell’inesplorata terra vergine del Grande Gatsby, “verde seno del Nuovo Mondo”, resta solo una mera illusione.

In un altro progetto, la natura incontaminata lascia posto a un indice statistico, il coefficiente di Gini, per raccontare il sogno infranto della felicità, diritto previsto e sancito dalla Dichiarazione di Indipendenza. Gli autori di INDEX G (2018) Piergiorgio Casotti e Emanuele Brutti, partono da St. Louis, una delle città con maggiori problemi di razzismo degli Stati Uniti d’America. Qui le strade testimoniano le tensioni, le contraddizioni, la differenza. In mostra si legge che il lavoro si basa sulla percezione sottile del fallimento umano, su un’idea di discontinuità tra sistemi spaziali umani adiacenti, come fosse “un’opera teatrale del silenzio, fatta di assenza di personaggi e delle loro storie peculiari, in cui le cose viste e raccontate rimangono non dette e sospese nel tempo”. E infatti a “St. Louis, ad esempio, i codici postali sono importanti. A nord di Delmar Blvd., 95% nero, l’aspettativa di vita è di 67 anni. A pochi passi, a poche centinaia di metri a sud di Delmar Blvd., 70% bianco, una persona ha un’aspettativa di vita di 82 anni”.

 

Piergiorgio Casotti & Emanuele Brutti, INDEX G, 2018 © Piergiorgio Casotti & Emanuele Brutti.

 

Piergiorgio Casotti & Emanuele Brutti, INDEX G, 2018 © Piergiorgio Casotti & Emanuele Brutti.

 

 

Piergiorgio Casotti & Emanuele Brutti, INDEX G, 2018 © Piergiorgio Casotti & Emanuele Brutti.

 

Anche qui la terra promessa è distante tanto quanto il sogno di poterci vivere. Si è invece molto più vicini al paese di George Floyd, e alle sue ultime parole: “Mi manca il fiato”. E se la Luna di Gianni Rodari è il simbolo della favola eterna, lo spazio utopico dove reinventare un mondo nuovo, la St. Louis di Brutti e Casotti sembra un pianeta dove non si respira e si muore in fretta. L’indice di Gini, rielaborato come misura della segregazione spaziale, serve agli autori per evidenziare come la diseguaglianza si rifletta sulla netta divisione dello spazio. Idea reiterata anche nell’allestimento della mostra, dove lungo le pareti sono appese foto a colori e in esterno, mentre al centro della sala sono esposte quelle in bianco e nero che ritraggono gli interni delle case e i volti di alcune delle persone che forse vi abitano o vi hanno abitato.

Nelle foto d’esterni l’elemento dominante è la strada. Vuota, desolata, ostile. Non ricorda una linea simbolica e liquida che mette insieme esperienze di vita diverse, uno spazio dove la mobilità è sinonimo di apertura, bensì un lungo taglio che separa o una sutura che ricorda e addirittura enfatizza il taglio.

 

La strada nega la sua essenza di continuum spaziale, è una frattura. Sulla strada non si incontra nessuno, nemmeno il padre e il figlio che Cormac McCarthy aveva trasformato negli archetipi del passato e del futuro di una nazione. Le persone sono ridotte a presenze invisibili in un Paese vuoto. I loro spostamenti sono avvenuti prima o avverranno dopo lo scatto. Restano solo muri di mattoni, segnaletica orizzontale e semafori, strumenti per definire limiti da non superare. Le insegne parlano di meccanici, auto usate, pneumatici, fast food, posti per gente che di passaggio, wandering. Un nomadismo che non attinge al mito della frontiera, alla letteratura on the road, agli hobos, al viaggio coast to coast, che attraversa stati e meridiani; qui ci si accontenta di passare da un quartiere a un altro, e senza nessun ascensore sociale. Il paesaggio sarà lo stesso, mattoni rossi e negozi anonimi, uno spazio scandito dalle linee gialle delle carreggiate, dal profilo dei tetti, dai cavi dell’elettricità, linee parallele che sembrano sezionare il fotogramma in diverse porzioni tutte di uguale squallore.

Anche se la mobilità è possibile solo in orizzontale, si prova lo stesso a cambiare. Le foto scattate negli interni delle abitazioni raccontano di locali vuoti, totalmente privi di arredi o di segni di una presenza umana. Si crea un effetto straniante per la mancanza di elementi umani in quella che consideriamo la più umana delle situazioni. Il silenzio più desolante e la solitudine più astratta spingono chi guarda queste foto a sentirsi vicini alle situazioni raffigurate, ma chi deve avere la nostra solidarietà, la nostra pietas, non ha volto. 

 

Se nei sogni delle periferie di St. Louis c’è la frustrazione di volare basso per evitare di ricadere pesantemente al suolo, nei sogni dei potenti si annida la volontà di stare talmente in alto da ambire a una funzione di controllo globale. Donovan Wylie, cresciuto a Belfast, con il suo lavoro The Tower Series (2005-2014), mostra le torri di guardia costruite a metà degli anni Ottanta dagli inglesi, poste sulle cime delle colline tra le due Irlande (British Watchowers). Dopo essere state smantellate, ma non distrutte, queste strutture sono state reinstallate in nuovi teatri di guerra: Kandahar in Afganistan (Outposts), o in zone dove è necessario controllare il territorio, come a Labrador in Canada (North Warning System), strumenti di prevenzione nella guerra per le risorse naturali. L’idea del cinquantenne irlandese, l’età non è un dettaglio trascurabile, è la rappresentazione del conflitto, attuata attraverso lucide e precise opzioni tecniche. Le immagini vengono scattate nelle medesime condizioni atmosferiche, ogni dettaglio è definito, chiaro, preciso. Le architetture sembrano il risultato di un pensiero realizzato impeccabilmente e le foto paiono restituire il medesimo sguardo privo di ombre che queste strutture forniscono agli apparati di potere che le usano.

 

Donovan Wylie, Northern Ireland 2015, from The Tower Series.


Donovan Wylie, Kandahar Province, Afganistan 2010, from The Tower Series.


Donovan Wylie, Labrador, Canada, 2013, from The Tower Series.


Queste fortezze lontane e inaccessibili, a causa della loro indecifrabilità, esprimono un’aura di forza che di conseguenza genera, in chi guarda, pensieri di impotenza. L’impossibilità di sottrarsi al controllo riporta alla mente il panopticon di Jeremy Bentham, e l’idea di una sorveglianza totale e permanente. 

Ecco allora che, con strumenti ben diversi da quelli descritti da Foucault in Sorvegliare e punire, l’occhio del fotografo è capace di smontare la partitura e di incrinare la fortezza. Osservare chi osserva, ovvero chi sta di guardia, significa smascherare chi sorveglia per punire o per generare terrore. L’immagine, che mostra il terreno di un conflitto, diviene la rappresentazione e il teatro di uno scontro: fotocamera contro torre, obiettivo contro panopticon, fotografo contro apparato di potere. Wylie dimostra che la fotografia, intesa sin dalle sue origini come un dispositivo puramente tecnico, può opporsi alla tecnica della sorveglianza, ritrovandosi alleata di sguardi marginali e privi di potere. Dunque la fotocamera si può opporre all’impotenza dell’essere costantemente spiati, poiché risponde con la libertà di poter guardare dappertutto.

 

Se è vero che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, probabilmente i sogni dei re e quelli dei sudditi non hanno molto in comune. È quanto suggerisce il lavoro di Yasmina Benabderrahmane, La Bête, a Modern Tale (2020). Il racconto moderno è il Grand Théatre, un immenso complesso culturale disegnato dall’archistar Zaha Hadid, costruito sulle rive del Bouregreg, vicino a Rabat, in Marocco, voluto dal re come simbolo del suo sogno: proiettare un intero paese nell’era della modernità e del rinnovamento. E, chissà mai perché, ogni volta che un sovrano africano fa professione di sviluppo e di emancipazione, fatalmente imbocca la direzione di un Nord e di un Occidente talmente miope che considera risorsa economica ciò che non è economicamente riproducibile, come la terra stessa.

“Ho visto la valle di Bouregreg deteriorarsi progressivamente, essere squarciata, sporcata; il paesaggio essere violentato giorno dopo giorno. E gli abitanti che restano lì, che resistono, che sono in lotta. Manifestano, dicono: “Ma per cosa? Perché un tale cantiere? C’era già un teatro a Rabat”, ricorda la fotografa. La bête è il monumentale edificio che appare come un’astronave nel deserto. Le immagini nascono dal dissenso, dalla percezione di come un corpo estraneo occupi una porzione di territorio che non gli è familiare.

In opposizione a questa massa di cemento, Yasmina Benabderrahmane racconta l’antica favola di un corpo che invece le è del tutto familiare: quello di “sua nonna, nata ai piedi delle montagne dell’Atlante, e i suoi gesti rituali, ancestrali, destinati a scomparire”.

 

Yasmina Benabderrahmane, Khôl, 2020 ©Yasmina Benabderrahmane, Adagp, Paris, 2021.


Yasmina Benabderrahmane, La Bête, 2020 ©Yasmina Benabderrahmane, Adagp, Paris, 2021.


La realtà del suo paese di origine diviene l’occasione per scoprire, dietro l’apparenza della modernità, la realtà del mito, del sempre uguale e proprio per questo infinitamente destinato a ripetersi. Le foto più significative mostrano la semplicità di alcuni gesti: un occhio chiuso, strizzato come per un gesto istintivo di difesa, una misbaḥah sgranata tra due dita: gesti senza tempo, energia intensa, silenziosa, e discreta. Come piccole sculture viventi si oppongono al mostro artificiale e artificioso che domina il luogo in cui sono nati. Le immagini di Yasmina sembrano fatte di polvere e di terra. E forse proprio questo intendono evocare: il passaggio del tempo, il ciclo della vita umana che passa, lasciando memoria di sé non nelle architetture, quanto nei gesti e nei riti collettivi. Si percepisce che la fotografa non è di fronte allo spazio, ma dentro di esso, un corpo che condivide suolo e radici insieme alle persone che ha fotografato. Un esserci che non è una semplice forma di co-abitazione, ma è una co-esistenza. Scattare una foto è dunque “esistere insieme” al soggetto ritratto. E raccogliere la sua eredità. La fotografa riceve ospitalità, è portatrice di conoscenza, e le sue immagini sono il dono ricevuto.

 

La maggior parte delle foto di cui si è parlato è stata scattata prima della pandemia, tuttavia risultano assolutamente “attuali” nel momento in cui suggeriscono che non è sufficiente sognare un cambiamento, ma bisogna immergersi nella realtà che si cela dietro al sogno. Quel lungo periodo non è un’esperienza che può essere omessa come parte non rilevante del discorso. Al contrario, è destinata a disseminarsi e a radicarsi in ogni nuovo contesto, anche quello così evanescente dei sogni. E quando ci proveremo, con gli occhi aperti o chiusi, sarà impossibile prescindere da un incubo che ci ha costretti a fare i conti, faccia a faccia, con morte, malattia, ansia, paura, restrizioni della libertà di movimento, ma anche di pensieri e di parole. Il “distanziamento sociale”, d’altro canto, ha scatenato un impellente bisogno di corporeità, ma le immagini di queste quattro mostre sembrano affermare che non si tratta di un generico desiderio di contatto, bensì di qualcosa di più viscerale e profondo. Forse è un bisogno di conflitto, nel senso di “sbattere contro”, scontrarsi, capire la realtà in cui siamo tornati a vivere. Una sorta di corpo a corpo, si potrebbe dire. Forse è a questo che servono le immagini.

 

Festival Fotografia Europea, Reggio Emilia dal 21/5/2021 al 4/7/2021

 

Le mostre di Raymond Meeks, Piergiorgio Casotti ed Emanuele Brutti (a cura di Fiorenza Pinna), Donovan Wylie e Yasmina Benabderrahmane fanno parte della sezione Daydreams (direzione artistica: Tim Clark, Diane Dufour, Walter Guadagnini).

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