Artpod / Gerhard Richter, "Kleiner Liegender Akt", 1967
Nel dipinto di Gerhard Richter che porta il nome di «Kleiner Liegender Akt» c’è una donna sdraiata su un fianco, sopra un sofà, completamente nuda. È appoggiata dolcemente sui gomiti, col busto appena ruotato e inclinato in avanti. Le sue braccia cingono un cuscino scuro. La gamba destra, sollevata, va a incrociare la sinistra, all’altezza del polpaccio. Probabilmente la donna ci guarda. Non lo possiamo stabilire con certezza, perché l’immagine è sfuocata. Una specie di velo opaco si frappone tra noi e il dipinto e ci impedisce una visione distinta degli occhi della donna e dei dettagli della stanza in cui si trova. Dietro il suo corpo nudo si staglia una superficie rettangolare, decorata a losanghe (una grata?), che a uno sguardo frettoloso potrebbe anche sembrare un arazzo (o un tappeto volante).
Più probabilmente, però, è un mobile, accostato alla parete, ce lo dicono i due oggetti appoggiati sopra: un quadro e un vaso di fiori. Ma sarà davvero questa la realtà? Sembra che l’artista abbia voluto sottrarre leggibilità alla sua immagine, che a noi pare quasi una fotografia dipinta. In un certo senso è proprio così, perché Richter, fin dal principio della sua ricerca, adotta un particolare procedimento: sceglie immagini comuni, anche banali, prese dal repertorio fotografico del suo tempo, dalle riviste, ma anche dagli archivi familiari, dalle foto amatoriali e dalle sue stesse foto private e le adopera come soggetto dei suoi dipinti, riproducendole. Le tratta, in definitiva, come una sorta di objets trouvés.
Tuttavia il suo non è mai un processo di pura imitazione: «non cerco di imitare una fotografia», dice in uno dei suoi appunti, «ma di farne una. Se dimentico il presupposto che la fotografia non è altro che un pezzo di carta esposto alla luce, allora pratico questa tecnica attraverso altri mezzi: non realizzo dipinti che ricordano delle foto, ma che lo sono». E se il dipinto che noi guardiamo fosse davvero una fotografia, allora dovremmo crederle a priori, perché la fotografia, si sa, è forse la sola arte capace di trasmettere la verità, anche quando, come in questa e in molte altre immagini di Richter, il soggetto è appena riconoscibile. Allo stesso tempo siamo messi di fronte a un frammento di realtà in cui tutto è volutamente mosso, sfuocato, e il pittore lo sa: è esattamente quello che vuole. In un autoritratto del 1996 intravediamo Richter, con lo sguardo rivolto verso il basso, immerso in una fitta nebbia: la sfocatura.
I soggetti di Richter sono spesso figure familiari (la moglie, la figlia), ma vengono anche dalla storia: i bombardamenti della seconda guerra mondiale; i suoi “grigi” compatti (che evocano l’Olocausto); l’atmosfera sacra, quasi di preghiera, delle sue candele. Tutti questi piani sembrano intrecciarsi e lasciar segno uno dell’altro, immagine dopo immagine. Idealmente i dipinti di Richter compongono un Atlante, parallelo a quell’Atlas in perenne costruzione che lui stesso a poco a poco mette insieme, fatto di tutte le fotografie da cui parte, una sorta di storia in divenire del suo immaginario, delle fonti visive che attraversano gli anni e le epoche.
Ma in quello sfocato che ci impedisce di chiamare le cose con un nome preciso, si avverte anche il senso di una lotta, il rifiuto di piegarsi allo «stupore della capacità», quel virtuosismo pittorico che, secondo Richter, distrae e alla fine allontana dall’immagine stessa.
Dietmar Elger, il suo primo biografo, dice che le sue opere «illustrano una verità perduta».
Il nostro piccolo nudo disteso è dunque una particolare donna, fotografata nella sua stanza, in una posizione precisa. Eppure non si concede alcuno spazio, né enfasi, alla questione della sua identità; chi sia, o chi non sia, sembra proprio non avere importanza. Questo le conferisce una sorta di alone archetipico. E così, guardando i suoi occhi velati, siamo noi a sentirci guardati e, all’improvviso, ci riconosciamo.
Legge Laura Redaelli del Teatro delle Albe.