Venezia 75 / Gianikian-Ricci Lucchi: noi due cineasti
Nel film, tutto parte nel 1975. È l'anno in cui si conoscono. Angela aveva appena filmato una cerimonia paesana in otto millimetri. Il loro incontro è un colpo di fulmine (deve essere stato così). Tanto che viene suggellato da una specie di patto (almeno così io lo immagino). Yervant inserisce in sovrimpressione alcune immagini sulla pellicola filmata da Angela. Mentre le inquadrature del film scorrono sullo schermo, la sua voce off ricorda il loro incontro (o la voce è quella di Yervant?) e la storia delle sovrimpressioni. Il titolo di questo primo film lo riprendono da Pound, Erat-Sora (così lo descrivono, nel catalogo curato da Sergio Toffetti: «Nel mese di maggio l'aria è profumata di rosa. Nelle campagne si prega la madonna di Fatima, di Lourdes, di Pompei. Mutamenti, trasformazioni, miracoli, danze mistiche, roseti»). La meccanica delle cineprese amatoriali permette di riavvolgere la pellicola filmata, quando ancora si trova nel caricatore. Permette di rifilmarla, aggiungendo strati di immagini. Dunque, un accorgimento tecnico suggella la nascita di una relazione amorosa e insieme artistica.
Noi due cineasti, come dice la seconda parte del titolo. Due in una sola striscia di pellicola: sovrimpressi. Restano i diari di Angela, la prima parte del titolo, che di questo film miracoloso, tenero, a volte buffo, commovente, sono le fondamenta. Sì. I diari di Angela – Noi due cineasti. Non è un titolo perfetto? Riassume con nitidezza ciò che vediamo scorrere per più di due ore. Così, due mani aprono un quaderno. E dal 1975 facciamo un salto. Ci ritroviamo nel 2012. Una voce (quella di Yervant) legge alcuni passi. Riguardano la grande mostra tenutasi presso l'Hangar Bicocca. Un vero evento. Angela la definisce "bellissima". C'è fierezza nelle parole. Finalmente, dopo decenni di lavoro indefesso, anche l'Italia si è ricordata di loro. Quella mostra che raccoglie l'insieme delle loro installazioni, i rotoli dipinti da Angela, è una specie di risarcimento per tutti gli anni in cui il loro nome era sulla bocca di tutti all'estero, ma ignorato qui nel nostro paese. E li vediamo in penombra, passeggiare tra gli schermi in una specie di flânerie, mentre Dominique Païni (uno dei primi ad aver intuito l'importanza del loro lavoro) li filma. Angela cammina tra le opere. Sul fondo vediamo le "torri" di Kiefer. Il buio è interrotto dai colori esplosivi delle installazioni. Giallo rosa acceso. E i volti rallentati.
I gesti. Tutto sembra finalmente al suo posto. Come doveva essere. Quella mostra è un altro sigillo che, seppur tardivo, prende atto dell'importanza del loro lavoro. Il loro lavoro di artisti. Le pellicole ormai mangiate dalla decomposizione, analizzate; ogni fotogramma osservato con una lente d'ingrandimento, amplificato, descritto in taccuini (da Yervant) e poi ri-filmato, per rendere giustizia alla "Storia", a quella del secolo che ci siamo lasciati alle spalle. Secolo di violenze che continuano ancora oggi. Per fare questo, è necessario collezionare, immagazzinare bobine, fotografie, giocattoli, riempiendo pagine fitte di inchiostro, leggendo libri, informandosi con precisione. È quello che hanno fatto per una vita intera: sporcarsi le mani tra immagini efferate, formati ormai desueti, materiali evanescenti simili a rovine, da cui emana una puzza pestilenziale, pagine altrettanto violente, che inneggiano alla supremazia della razza, con un linguaggio pomposo, retorico, stomachevolmente lirico. Il loro lavoro, furioso, incessante, libero da restrizioni e censure, fieramente indipendente, sta invece all'opposto di tutto questo. Clinico, inesorabile fino a far male. Risponde a quei metri di pellicola e a quelle pagine pompose con un secco: «sappiamo chi siete in realtà, non ci fregate con le vostre balle: noi non dimentichiamo, guardate cos'avete combinato». E cosa state combinando ancora oggi.
Quelle immagini terribili, mangiate, dissolte chimicamente, riverberano, illuminano il nostro presente. I loro film, le loro installazioni nascono da quell'archivio feroce, incandescente. Ma c'è un altro archivio che è andato a formarsi nel tempo. Quello delle immagini che loro stessi hanno filmato. Ed è a partire da questo secondo archivio che I diari di Angela – Noi due cineasti è composto. Da questo archivio ormai enorme, Yervant Gianikian ha selezionato alcuni momenti: i viaggi in direzione Est: Turchia, Armenia, Russia, ex-Yugoslavia. Sono viaggi legati ovviamente ai loro film. Viaggi in Russia per quel progetto infinito sugli artisti, scrittori, cineasti sopravvissuti alle violenze staliniane, che ha visto luce lo scorso anno a Documenta 14. Un lavoro che parte dal 1989, anno del loro primo viaggio in Russia (ce ne sarà un secondo l'anno dopo). I viaggi in Turchia e Armenia sono invece legati al terribile massacro che i turchi hanno commesso nei confronti degli armeni.
Il loro Uomini Anni Vita e Ritorno a Khodorciur – Diario Armeno, parlano di questo. Anche i viaggi nella ex-Yugoslavia per presentare i loro film (ad esempio Inventario balcanico) sono l'occasione per testare con mano i danni ingenti e la distruzione, lo stato di catastrofe causato dal conflitto. Qui in una ripresa in albergo, Angela riflette a voce alta. Bisogna capire – dice – da dove arriva tutto questo. Come in un'anamnesi medica. Risalire ai motivi. Non ai sintomi. Per scongiurare altre guerre. Pare che non ci siamo ancora arrivati. E forse non ci arriveremo mai.
A questi materiali (il viaggio armeno conta la presenza di un loro caro amico, Walter Chiari: presenza magnetica, unica, colta nella quotidianità di un viaggio; eppure, che verve, e che capacità di sorprendere con un gesto, una maschera con cui giocare, scherzare...) se ne aggiungono altri, più intimi. Ad esempio le riprese nella loro casa in campagna. Angela che cucina dolci. La cura dell'orto. La presenza di Laura, la vicina novantottenne. Il processo per fare il vino. La legna tagliata.
Le pellicole sbobinate. L'attenzione alla loro condizione fisico-chimica. La loro vita si fonde con il loro lavoro. Ci sono momenti davvero intensi. Le riprese "rubate" in Turchia a cui Yervant aggiunge qui la voce registrata del padre, scampato al massacro turco. E il luogo che stanno filmando è proprio quello, tanti anni dopo. Si crea così una strana vertigine temporale. L'inquadratura sghemba, un po' sfocata, traballante e la voce, il testo, i ricordi di un uomo che ci riporta indietro nel tempo, a un campo di grano pieno di cadaveri senza testa, ceppi di alberi usati come base per ghigliottinare uomini, il campo che diventa un cimitero (i turchi obbligano i superstiti a scavare buche di un metro per seppellirli). Ma del viaggio in Turchia, ci sono anche i momenti in nave. Angela giovanissima (sono riprese del 1978) in posa, o coi capelli lunghi, bagnati. E Yervant coi capelli neri, occhiali scuri (filmato da Angela). E la Volkswagen targata Ravenna, da dove sono partiti. È solo uno dei tanti esempi che potremmo fare.
E il film? Ci sono mani che sfogliano pagine di quaderni, fitte di scrittura, a cui si aggiungono schizzi veloci, dettagli, specie di aide-mémoire: ciò che di certo aveva colpito l'attenzione di Angela. E mentre le pagine scorrono, sul vertice della loro parabola perdono il fuoco. Poi lo ritrovano. Scelta la pagina giusta, una voce (quella di Yervant) legge alcune righe. Giusto il tempo di ritrovarci immersi in ciò che quel testo aveva trattenuto. Insomma, qualcuno scrive e un altro filma. Questo è l'aspetto più sorprendente. C'è una specie di telepatia, o di simbiosi tra loro due. Lo scritto, ciò che Angela ricorda è ciò che spesso ritroviamo filmato da Yervant. A volte è Angela che indirizza Yervant su un dettaglio, come il melo cotogno sopravvissuto tra le macerie al confine bosniaco. Ma è incredibile quanto il testo di Angela e le inquadrature di Yervant finiscano per sembrare vasi comunicanti. Tanto che per un istante sembra che le riprese siano una materializzazione-visualizzazione del testo scritto (viene prima il diario? la ripresa? cosa vedere Yervant mentre filma?). Insomma, cosa fa Yervant mentre filma, e Angela mentre scrive o schizza figure? Registrano entrambi a modo loro "cose viste".
Il gatto Miska in Russia, ad esempio. Scontroso, si struscia su Angela, accoccolandosi, meravigliando l'arcigna padrona degli archivi filmici a Mosca. Totalmente conquistata, aprirà immediatamente loro gli archivi, stampando anche bobine che i due porteranno in Italia. E viene in mente una cosa stramba: che nel film la ripresa funga da visualizzazione dei ricordi scritti da Angela nei suoi diari, come in una specie di immersione flashback. E viene in mente anche che ci deve essere una sorta di testardaggine nel filmare ogni cosa, ogni istante. Cambiano i formati, ma qualcuno filma sempre. E questo aspetto, questa specie di abitudine crea meravigliosi siparietti tra i due. Angela che si mette in posa, scherza con Yervant. O le candele in campagna, la sera. Le finestre. I tramonti. Oppure Angela che rompe male l'uovo e rimbrotta amorevolmente Yervant per averla disturbata. L'occhio della cinepresa, della videocamera registra tutto. E deve essere stato sorprendente rivedere tutti questi materiali, sepolti in archivio, forse dimenticati. Improvvisamente riemersi.
E scorrono così immagini, acquerelli: i volti dei russi schizzati da Angela. Il ricordo dell'incidente terribile capitato a Yervant nel 2014, quando a causa di una vecchia bobina nitrato esplosa è diventato una specie di torcia umana. Qui, la voce di Angela rotta dall'emozione, con un groppo in gola, commenta gli acquerelli: vediamo occhi spalancati, fiamme, rosso acceso ovunque. Dai primi soccorsi, al coma, i deliri, gli strati di unguenti, e poi la convalescenza, fino al premio che vincono alla Biennale Arte, con Ritorno a Khodorciur – Diario Armeno, e Angela scrive, commenta: «posso finalmente scoppiare a piangere». E vediamo Angela a San Lazzaro degli Armeni, nel corridoio, scherzare, ridere. Loro due con il Leone d'oro – Yervant con la mano sinistra ancora avvolta nelle bende.
Le immagini e i testi scorrono ma il tempo quasi si annulla. Così arriviamo al 2016. A una pagina che è chiamata da Angela "cronaca". Il tempo è prezioso, dice. L'ultima parte del film è la più toccante. La più intima. I malanni fanno la loro comparsa. Angela, con la gamba ingessata su una carrozzina, osserva un film in moviola. E poi la tavola da pranzo. Le candele. Piccoli rituali. Filmare. Amare. Lavorare. Vivere. Deve essere la cosa più bella che possa capitare a qualcuno. E poi, in fondo, Angela ancora in campagna, nell'orto. Controlla le verdure. Raccoglie pomodori in un cesto. In un braccio tiene una stampella. Ma il cesto è troppo pesante. I pomodori mangiati da insetti. Yervant continua a filmare, ma allunga l'altra mano: prende il cesto. «I pomodori dell'ultima stagione» dice Angela. E mentre la vediamo camminare in un passaggio dell'orto, una specie di stacco-dissolvenza ce la mostra mentre corre, in una stretta calle veneziana, con la laguna sul fondo. E la vediamo mentre impugna macchine fotografiche usa e getta. Ovunque. E cosa fa? Fotografa Yervant. Lui la filma, lei lo fotografa. Non sono più sovrimpressi, come nel primo film del 1975, eppure, io non ho mai visto in vita mia tanta prossimità, tanta comprensione, condivisione. Deve essere questa l'impressione che I diari di Angela – Noi due cineasti ha fatto anche agli spettatori in sala, durante la proiezione ufficiale al 75° festival di Venezia. Un applauso infinito ha allentato la commozione.