Sade, filosofare nel boudoir
Il 4 luglio 1789, Donatien-Alphonse-François de Sade, “nudo come un verme”, è costretto a traslocare forzatamente dalla Bastiglia sotto la minaccia di una pistola. Viene trasferito nella casa di Charenton-Sainte-Maurice, una struttura amministrata da frati della carità, poi adattata a ospizio per malati di mente. La scheda d'ingresso, stilata da un religioso, ci permette di condensare in fretta un profilo di Sade, segnalando i motivi per cui si ritrovi in quelle spiacevoli condizioni:
«Signor conte de Sade (Louis, Aldonce, Donatien) Ordine del 3 luglio 1789. Durata illimitata. Firma: De Villedeuil. Privato della libertà dal 1777 dietro richiesta della famiglia, in seguito a un processo criminale che egli ha subíto per avvelenamento e sodomia, delitti di cui si è giustificato e inoltre per gli eccessi di libertinaggio ai quali si lasciava andare, e per turbe mentali cui era soggetto e che facevano temere alla famiglia che in uno di tali eccessi, finisse per disonorarne il buon nome».
Tempo dieci giorni, la Bastiglia viene presa. È il 14 luglio. Qualche giorno prima, il 9 per l'esattezza, Sade firma alcune scartoffie. La Rivoluzione è in atto, ma la burocrazia non sembra farci caso. L'autografo è necessario. Bisogna staccare i sigilli dalla sua stanza alla Bastiglia. La marchesa, sua moglie, vigilerà in sua vece. Oltre alla firma, il marchese redige a sua volta una lettera indirizzata al commissario Chenon, incaricato dell'operazione. Chiede che sia dato mandato alla moglie di raccogliere e recuperare tutte le carte, i mobili e gli effetti personali che lì si trovano. Sade non scorda di aprire un inciso: con tono perentorio, avverte che una delle guardie che l'ha prelevato dalla Bastiglia, in piena notte e con modi violenti, gli ha sottratto dalle tasche due luigi. Il commissario è invitato a farli riavere alla moglie. Come i dolci, di cui è ghiotto, il denaro è una delle sue grandi ossessioni. Ne è sempre sprovvisto. O non gli basta mai (ne sa qualcosa il fido Gaufridy, destinatario delle sue lamentele).
Lo stesso trattamento, a dirla tutta, l’aveva già subìto mentre si apprestava a lasciare il carcere di Vincennes per la Bastiglia, dove si troverà mille volte peggio. Lo scrive a Madame Sade nella prima lettera. Dopo essersi lamentato della stufa in camera, dei capogiri e di mille altre cose (tra queste l'esiguità della stanza e le rare passeggiate permesse), scambiando il carcere per un hotel, aggiunge: «Hanno la pretesa che io mi rifaccia il letto e scopi la mia camera». Passi per il letto, ma scopare proprio no. Prega la moglie di ottenere che «gli si dia qualche lezione»: l'incaricato eseguirà il servizio una volta alla settimana, per cinque o sei anni, in modo che lui possa osservarlo con attenzione; in modo che possa diventare bravo quanto lui. Protesta e frigna come un moccioso. È petulante. Appena giunto alla Bastiglia rovescia su Madame una valanga di richieste. La meticolosità è seconda solo alla stravaganza. Capriccioso, si impunta. Ci sono oggetti pressanti di cui ha assolutamente bisogno: il cuscino per il suo sedere, le pantofole foderate di pelliccia, i due materassi e il guanciale. E insiste a proposito del guanciale: fondamentale per il suo riposo. Chiede vasi di marmellata. Sei pacchetti di candele da notte e pure candeline. Acqua di rose per gli occhi, acquavite. Colonia, della migliore.
Sono gli stessi elenchi che risaltano dando una scorsa alla corrispondenza da Vincennes. Prostrato, furioso, Sade riflette sulla pena detentiva dal punto di vista morale: «Ebbene persuadetevi voi e i vostri, scrive a madame de Sade, che il solo vantaggio che se ne ricava è un sicuro veleno dell'anima, la distruzione certa delle qualità che formano un carattere, e che, fatta eccezione per coloro che ci campano sopra e ne ricavano tanto da pagare le loro amanti, chiunque vi confermerebbe che spezzando tutti i legami con la società non si arriva certo a renderli rispettabili, in una parola, che il rimedio può rendere l'uomo peggiore ma mai migliore». La lettera viene scritta i primi di giugno 1780, ed è accompagnata da un allegato – la solita lista. Sade domanda libri, «I seguenti volumi di d'Alembert, te ne prego», e poi, aggiunge, sciroppo di altèa con discreta aggiunta di iodio, «lo stesso che mi hai mandato l'ultima volta perché era molto gradevole». Chiede frutta sciroppata, «quella che ho sempre mangiata e che avresti fatto meglio a mandarmi piuttosto che le candeline di cui non sapevo e non so che farmene». Bisogna poi allertare il dentista entro i prossimi quindici giorni, «temo ne avrò bisogno»; poi torna sul cibo: «Il 15 giugno scorso mi avete mandato un pasticcio di anguille che era squisito ed ebbe ottima accoglienza nonostante la calura». Ma, precisa, deve essere senza spezie. Gran finale, con nonchalance: «Se poi volete farmi assaggiare le prime fragole, e che la cosa sia possibile, mi farete piacere, ma si tratta di un puro e semplice capriccio». Come non amarlo?
Il 21 marzo 1779, da Vincennes, scrive a mademoiselle de Rousset, attesa per il capodanno. Inutilmente. Si era pure messo in ghingheri: «Mi ero fatto bello, cipria, pomata, barba a pelo e contropelo; avevo messo da parte gli stivali foderati di pelliccia, avevo scelto un bel paio di calze di seta verde, avevo indossato i pantaloni rossi, farsetto giallo e abito nero, e un bel cappello ricamato d’argento», aggiunge, dipingendosi come un vero Dandy libertino. Ha il gusto per il teatro, ricorda Barthes. «Mi vedete coi miei stivali? Sapeste come sono bello da vedere!». E ancora ci vorrebbe un gabbano, scrive: «Sapete uno di quei gabbani come li portano i marinai di Marsiglia». A volte, le sue lettere esplodono in una sequenza da saltimbanco, Sade ne è ben conscio: «Ma che cosa sono mai io qui dentro, cara santa, che cosa sono mai se non un bambino?».
Liste e capricci. I calzoni che mi hai mandato vanno benissimo, scrive Sade a madame sua moglie, il 16 maggio 1779, da Vincennes. Disperato, lucido, collerico: le lettere zampillano di cose che madame deve procurargli. «I biscottini sono sempre eccellenti sicché non me ne stancherò per parecchio tempo: raddoppia pure gli invii; le penne invece sono pessime: quelle che voglio sono le grosse penne da un soldo l'una che puoi trovare al "Griffon", dove le sanno appuntare a meraviglia». E si lamenta pure dei savoiardi! «Il biscotto alla savoiarda non è per niente quello che volevo: 1. lo volevo glassato tutt'intorno, e di sopra e di sotto, con la medesima glassa dei biscottini; 2. volevo che nella parte interna ci fosse del cioccolato, mentre non ce n'è neppure l'ombra: si sono limitati a dargli un colore bruno con del succo d’erbe». E poi vasetti di burro di Bretagna: «Ma che sia buono e ben scelto». Gran finale, un paio di borchie di acciaio per le scarpe. Le sue sono rotte. Ma voglio che non costino più di 3 franchi, dice, perché uscendo da qua intendo acquistarne all'ultima moda. Dandy impenitente, perfido - Bret Easton Ellis deve aver letto la sua corrispondenza prima di scrivere American Psycho.
Intanto, però, la cella della Bastiglia dove soggiornava viene saccheggiata. Gilbert Lely ricorda: «La sua biblioteca di seicento volumi, “alcuni dei quali assai preziosi”, gli abiti e la biancheria, i mobili, e i ritratti per un valore di duemila lire, le sue opere manoscritte, tante da formare una quindicina di volumi e “bell’e pronte da passare in tipografia”, tutto ciò è “lacerato, bruciato, rubato, saccheggiato, asportato”. Inoltre il lungo rotolo delle 120 Journées è ormai irrimediabilmente perduto per de Sade». Né la minuta, né la copia torneranno mai in suo possesso (il rotolo verrà ritrovato nella cella dal marchese de Arnoux de Saint-Maximin; finisce nelle mani della famiglia Villeneuve-Trans. Tre generazioni vigileranno su quel plico dalla grafia minuscola. Ai primi del '900, segnala Lely, viene acquistato da uno psichiatra e dermatologo berlinese, Iwan Bloch, che lo editerà utilizzando lo pseudonimo di Eugène Dühren).
Quando il saccheggio ha luogo, La filosofia nel boudoir, di cui festeggiamo la nuova edizione Einaudi tradotta da Patrizia Valduga (con prefazione di Michele Mari), non è ancora stata scritta. In assenza di manoscritto e testimoni sopravvissuti, facciamo affidamento alla data della prima stampa: 1795. Nondimeno, è possibile che Sade avesse stilato uno schema del testo prima della caduta del Re, lo si intuisce da certi riferimenti legati alla monarchia. Ad esempio la moneta in “luigi”, come segnala Jean Deprun nel terzo volume dell’edizione Pléiade. Il progetto potrebbe essersi dunque sviluppato in tre tempi. Il secondo nell’autunno del 1793, quando Sade è in libertà e anima la sezione des Piques. Ritocchi successivi, osserva Deprun, possono aver avuto luogo durante il 9 Termidoro. La nuova traduzione di Patrizia Valduga è appassionante, fluida. Rende più sensibili alcune espressioni. Accentua una certa musicalità del testo. Gli organi sessuali sembrano un precipitato di note, una cascata che fa da contrappunto alle tirate filosofiche.
Nella nota n. 3 del primo dialogo, Valduga si sofferma sulla traduzione del termine uccello: «Uccello: “vit”, in auge nel ‘700, ancora in uso a metà ‘800 (Flaubert scrive “vi”) e scomparso agli inizi del ‘900 (lo usa Apollinaire in Les onze mille verge [sic.]), ha qui 56 occorrenze, mentre “membre” 29, “engin” 9 e “penis” nessuna. Non compare nel Littré, né nel Villeneuve (…). Non sapevo come tradurlo, ho chiesto aiuto a Alberto Capatti, che mi ha consigliato il Dizionario storico del lessico erotico italiano; ho deciso di tradurlo con “uccello” e non con “cazzo”, perché la mia traduzione non assomigliasse a un testo di Busi o di Tondelli più che a uno di Sade». Per la scelta delle imprecazioni, l’intercalare delle bestemmie che costellano il testo, rimandiamo alla lettura. Più che consigliata.
Potremmo dire che La filosofia nel boudoir, così come l’intera produzione di Sade, la sua stessa vita, rispondano a ciò che Jules Michelet, nell’introduzione all’Histoire de la révolution, considerava un vuoto, uno spazio atemporale. Patrick Wald Lasowski, nel suo Libertines ben riassume il momento: «Dal 1686, il risultato della politica catastrofica di Luigi XIV è prevedibile. Ancora nel 1709, la crisi rivoluzionaria è imminente agli occhi di tutti… E tuttavia, alla morte del Grand Roi, una lunga e inquietante sospensione storica s’instaura prolungandosi per sessant’anni. Stando a questa sospensione decisiva, la Reggenza, il regno di Luigi XV, quello di Luigi XVI, non sono altro che le designazioni ricadute, cronologiche, di un unico spazio atemporale in cui si agita un’umanità consegnata all’abbandono, a questa confusione assoluta che il delirio della voluttà ha generato. (…) Questa spaziatura lascia un bianco: quello della finzione. È lì che il libertino lavora la Storia sotto i riflettori della dissolutezza».
Come un joker sociale (Barthes), Sade si muove dentro la cornice di questa spaziatura. È durante questo vuoto che la sua attività licenziosa viene monitorata dal luogotenente di polizia Antoine Sartine conte d'Alby, suo nemico giurato, che ha il compito di annotare con zelo le attività sessuali dei membri della corte, e poi di riferire tutto a sua maestà, Re Luigi XV, e a Madame de Pompadour: puro esercizio di intrattenimento. Si tratta dello stesso Sartine citato da Roland Barthes nella sua “Vita di Sade”: «Uno dei principali persecutori di Sade, il luogotenente di polizia Sartine, soffriva di un’affezione psico-patologica che in una società giusta (che pareggia i colpi) lo avrebbe fatto rinchiudere allo stesso titolo della sua vittima: era un feticista della parrucca: “La sua biblioteca racchiudeva ogni sorta di parrucche, e di tutte le dimensioni; le indossava secondo l’occorrenza”; fra le altre c’era la parrucca delle avventure galanti (con cinque riccioletti sciolti) e la parrucca per interrogare i criminali, sorta di acconciatura a serpenti, che era chiamata l’inesorabile».
La filosofia nel boudoir è infatti dedicata “Ai libertini”. Il gioco erotico (il “codice erotico” lo chiama Barthes) e violento, con quell’interminabile serie di posture modulate, calcolate, variate, tableaux vivants che Sade pone dentro alla cornice di quel periodo storico, in modo da fare “quadro” dell’orgia, o del supplizio (Michele Mari ben coglie questo aspetto: «La logica del quadro è funzionale anche all’accumulo e alla moltiplicazione degli attori, degli organi, dei gesti, dei rapporti, in ossequio alla coazione libertina a una complicazione infinita»), è spinto così all’eccesso, oltre i limiti, da sbucare dall’altra parte, lambendo il comico. Un comico altrettanto violento, che illumina le gesta incorniciate, la serie di eccessi. Ma è qualcosa che illumina pure la sua condotta di vita. Viene in mente quella frase pronunciata da Saint-Fond, libertino incallito, nell’Histoire de Juliette: «Mi piace fargli sperimentare il tipo di cose che più crudelmente disturbano e sconvolgono la mia esistenza». Questa frase si irradia lungo tutta l’opera di Sade. È una sorta di chiave di lettura.
Dentro questo spazio in cui recitare, far recitare, o giocare con una pagina bianca, la finzione de La filosofia nel boudoir è allora di segno retorico: si tratta di rovesciare queste sequenze di orge in un dialogo edificante, una serie di lezioni filosofiche immorali il cui fine ultimo è proprio la persuasio. Dolmancé è il grande libertino, cultore della materia. Insieme e lui, e a Madame de Saint-Ange, zia della giovane Eugénie, passiamo dalla parola ai fatti; ma è la prima a circolare e a incunearsi attraverso l’udito (per Sade il più sensuale dei sensi, quello che suscita le impressioni e i desideri più vividi). In questo, La filosofia nel boudoir sembra prossimo a quei testi osceni scritti nel ‘600 da alcuni membri dell’Accademia degli Incogniti: Ferrante Pallavicino, Antonio Rocco. È Laura Coci a individuare il legame, proprio nell’introduzione a La retorica delle puttane di Pallavicino: «Pallavicino, Rocco, Sade: questi campioni di immoralismo, così come ne La retorica delle puttane, L’Alcibiade fanciullo a scola, La filosofia nel boudoir sono storia di iniziazioni sessuali, di “precettori immorali” e allievi inclini a compiacergli, per amore di voluttà e di denaro». E, sempre Coci, nelle note introduttive a L’Alcibiade fanciullo a scola di Antonio Rocco, paragona il pamphlet Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani (contenuto nel quinto dialogo de La filosofia nel boudoir) all’Alcibiade («È al pari dell’Alcibiade la storia di una iniziazione/corruzione psico-fisica in forma di dialogo»). Leggiamo, terzo dialogo de La filosofia nel boudoir, le parole della giovane Eugénie, rivolte alla zia: «Oh! diletta, ti adoro; ecco, non avrai scolara più sottomessa di me».
Questa filìa tra i testi è stata notata anche da Jean-Claude Lebensztejn in un suo libro dedicato, tra gli altri, a Sade. Ciò che li unirebbe è il fatto che: «Degli argomenti che eccitano, un po' sulfurei, siano trattati come argomenti di disputa accademica; La retorica delle puttane di Ferrante Pallavicino non fa eccezione. (…) Solo gli italiani avevano, e forse hanno ancora, questo senso del confine tra desiderio e parodia». Senso che a Sade non manca.*
*nota ai testi: Sade, Oeuvres III, a cura di Michel Delon (con la collaborazione di Jean Deprun), Gallimard, Paris, 1998; Sade, La filosofia nel boudoir, Einaudi, Torino, 2023; Sade, Lettere da Vincennes e dalla Bastiglia, a cura di Luigi Bàccolo, Mondadori, Milano, 1976; Gilbert Lely, Sade. Profeta dell’erotismo, Feltrinelli, Milano, 1968; Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso, Einaudi, Torino,1977; Patrick Wald Lasowski, Libertines, Gallimard, Paris, 1980; Ferrante Pallavicino, La retorica delle puttane, a cura di Laura Coci, Guanda, Parma, 1992; Antonio Rocco, L’Alcibiade fanciullo a scola, a cura di Laura Coci, Salerno, Roma, 2003; Jean-Claude Lebensztejn, Kafka, Sade, Lautréamont - rêve déchiré, Les presses du réel, Dijon, 2017.