Conversazione con il fotografo / Gianni Berengo Gardin. Collezionare
Laura Gasparini - Gianni Berengo Gardin è un notissimo fotografo italiano attivo dal 1953, prima come fotoamatore e in seguito come professionista. Forse è meno noto come collezionista, ad eccezione della sua ponderosa raccolta di libri fotografici, ma non per le numerose altre collezioni. Cosa ti spinge a collezionare? Cosa significa per te l'atto di collezionare?
Gianni Berengo Gardin - Sinceramente non saprei dirtelo, non ci ho mai pensato più di tanto. È un atto istintivo, una passione che non so bene da dove nasca. Ho cominciato già da ragazzino con le figurine Liebig, i modellini di navi o di aerei, i dischi, i libri. Le mie sono collezioni estemporanee, nate per caso. Non c’è specializzazione. Quando mi piace un oggetto, vado alla ricerca delle sue varianti. Certo, c’è quel piacere unico che ti dà la “caccia”, e poi il momento in cui l’oggetto è tra le tue mani.
La tua collezione è composita: collezione di libri fotografici, soldatini, i film che hanno fatto la storia del cinema, quelli rigorosamente in bianco e nero, dipinti naif, modellini di barche, aerei, dimentico altro?
Ci sono gli ex-voto, gli oggetti della cultura popolare o quelli kitsch, i dischi, le pipe. E poi le magnifiche sculture in legno del mio amico Adolf Vallazza. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non mi piace invece collezionare fotografie.
Quali connessioni vi sono tra queste diverse tipologie di collezioni?
Va da sé che le collezioni delle medaglie e dei trofei che hai conseguito partecipando ai concorsi fotografici sono un ricordo preciso di una tua attività legata alla fotografia, attività che poi, per te, è diventata una professione.
Non ci ho mai pensato, a dirti la verità non lo so. Se vuoi cercare una connessione, escluse la collezioni legate alla professione, è che si tratta in genere di oggetti legati alla cultura popolare e materiale.
Osservando le tue collezioni, tu non segui, nel costruirle, il criterio di “rarità”: qual è il criterio principale? Ve ne è più di uno? Se sì, quali sono?
La varietà nella moltiplicazione, direi. D’altra parte non si tratta mai di oggetti di valore. E spesso è il caso che me li fa incontrare.
Hai inoltre una collezione, ovviamente, di macchine fotografiche che conservi in una vetrina, ma questa non è esposta a fianco delle altre collezioni, ma in una stanza a parte. Qual è il motivo?
Si tratta esclusivamente delle macchine fotografiche che ho usato nel tempo, dalla prima macchina avuta in prestito da mia madre, alla Kodak Retina, Weltini, Condor, per poi passare alle macchine professionali, Nikon, Hasselblad, Exakta, Linhof, Rolleiflex, Speed Grafic. Per le Leica è un discorso a parte, perché sono le macchine che ho sempre previlegiato, dalla serie III C alla serie M. Uso tuttora una M7, naturalmente a pellicola. Forse sono un po’ feticista, le amo in modo particolare e, a parte mia moglie, sono state le compagne della mia vita, quindi stanno nella camera dove dormo!
La tua camera oscura, inoltre, è arredata con quadri e dipinti, non si presenta come un locale tecnico. Mi ha colpito.
Anche se da qualche anno non stampo più, la camera oscura è stata a lungo il luogo dello studio in cui passavo la maggior parte del mio tempo, non era solo un luogo tecnico ma un ambiente come gli altri, anzi, forse il più intimo. Ora in quella stanza lavora mia figlia Susanna, che si occupa del mio archivio.
Tra le collezioni più note c’è quella dei libri fotografici. Puoi parlarcene?
I primi libri veramente importanti della mia collezione, sono i libri dei fotografi americani che mi inviava su suggerimento di Cornell Capa, suo grande amico, uno zio d’America, Fritz Redel. Alcuni di questi libri erano dei doppioni che arrivavano addirittura dalla biblioteca di Magnum. A questi si sono aggiunti i libri dei grandi maestri, in particolare francesi, a cominciare da Willy Ronis che mi ha insegnato la professione. E quindi tutti gli altri, secondo i momenti, gli incontri, le occasioni. Ci sono poi i libri degli amici, come Scianna, Basilico, Kudelka, Salgado e tanti altri. Credo che per un fotografo sia fondamentale conoscere e studiare il lavoro degli altri. Purtroppo ormai lo spazio dello studio è saturo, e devo centellinare i nuovi acquisti.
Ma anche la collezione di edizioni rare di letteratura non passa inosservata. Infatti in una intervista hai dichiarato che ciò che ti ha influenzato maggiormente nel fotografare è stata la lettura, in particolare la letteratura americana e che in seguito, quando hai visto le fotografie della Farm Security Administration, ti sei riconosciuto nelle cose lette.
Esatto. L’amore per la letteratura mi è stata passata da mio padre. Molte delle collezioni di libri che si vedono nelle foto provengono dalla sua biblioteca. I miei gusti naturalmente erano diversi dai suoi, in particolare dopo la guerra la scoperta degli autori americani è stata per me fondamentale, mi sono riconosciuto nel loro modo di raccontare. E quando sono andato negli USA sapevo già cosa volevo fotografare. Un autore, poi, che mi è particolarmente caro è Simenon, non quello di Maigret, ma quello dei romanzi, che hanno molto influenzato certe mie fotografie della Francia.
Tra le diverse tipologie delle tue collezioni non è presente quella fotografica e cioè la collezione di fotografie di altri fotografi che hai incontrato durante la tua lunga carriera come Robert Doisneau, Edouard Boubat, Henri Cartier-Bresson, Willy Ronis con il quale hai stretto una vera amicizia, Salgado, per citarne solo alcuni. È stata una scelta precisa dettata da quale motivo?
Di un fotografo non mi interessa possedere una singola fotografia, voglio conoscere e possedere il suo lavoro nel modo più completo possibile e quale strumento migliore dei libri?
Walter Benjamin scrive: “Ciò che nel collezionismo è decisivo è che l’oggetto sia sciolto da tutte le sue funzioni originarie per entrare nel rapporto più stretto possibile con gli oggetti a lui simili. Questo rapporto è l’esatto opposto dell’utilità, e sta sotto la singolare categoria della completezza”. Nel tuo caso, invece, non si tratta della sfera della completezza, ma del possedere un oggetto o una serie di oggetti che hanno contribuito al tuo percorso di fotografo, d'autore. È così?
Diciamo che nel mio caso, professione e passione sono una cosa sola. Questo si riflette anche nelle cose che colleziono, molte di queste hanno contribuito utilmente al mio percorso di fotografo.
Durante la visita guidata della mostra Dall'archivio al mondo. L'archivio di Gianni Berengo Gardin a cura di Alessandra Mauro per Fotografia Europea 2017 a Reggio Emilia ti sei soffermato davanti ad alcune tue immagini, in particolare quelle sul lavoro, e hai affermato che tu hai documentato volti degli italiani che “ora non ci sono più” sottintendendo che le tue fotografie, quelle in particolare, sono uniche, sono documenti e a distanza di tempo una testimonianza. Il tuo archivio lo si può considerare una collezione di volti oltre che una testimonianza?
Anche di volti, anche se non si tratta quasi mai di ritratti veri e propri, le persone sono sempre fotografate nel loro ambiente di lavoro o di vita. Raccontano, insieme, una storia e testimoniano, insieme, un mondo che è profondamente cambiato.
Di nuovo dobbiamo citare Benjamin a proposito dei volti, vado a memoria, quando nel 1931 scrive, commentando il lavoro di Sander: “Da un momento all'altro opere come quelle di Sander potrebbero acquistare un'attualità imprevista… Che si venga da destra o da sinistra, bisognerà abituarsi a essere guardati in faccia per sapere da dove veniamo”. Il suo, mi pare proprio un invito a collezionare sguardi oltre che volti. È in definitiva lo spirito che ti ha sempre accompagnato nel tuo lavoro di documentazione, di non porti dei limiti e credere con fiducia nella prospettiva storica.
Sì, hai ragione.
Quanto tempo dedichi alla tua passione da collezionista?
Una volta molto di più, mi piaceva andare a curiosare per mercatini e botteghe di vecchi oggetti, sia in Italia, sia all’estero. Ora, con l’età, mi sono dato una calmata. Anche perché non c’è più un angolo libero. Certo, se m’imbatto in un oggetto che mi attrae, resistere è durissima, a volte non resisto.
Gli oggetti, i libri, o i film che ti sono più cari occupano un posto speciale nella tua collezione?
Direi di no, se escludi le macchine fotografiche.
Parlaci dello spazio della tua collezione. Non hai uno spazio dedicato. Esse sono conservate nel tuo archivio fotografico, ma che è anche studio, atelier, camera oscura, biblioteca e molto altro.
Sì, è tutto mescolato insieme. Non c’è distinzione tra lo spazio delle passioni e quello del lavoro, che poi come ho già detto è una passione anche quello.
Spesso hai affermato che non sei un artista, ma che ti ritieni un artigiano. Nel tuo atelier c'è un banco da lavoro perfettamente organizzato e chi visita il tuo atelier-archivio rimane colpito da quell'angolo.
Sin da ragazzo ho costruito modellini di navi e di aerei. Mi è sempre piaciuto lavorare con le mani, ho costruito la mia prima borsa fotografica, perché allora non se ne trovavano in commercio, e il mio primo ingranditore. Poi mi è rimasta la passione per il bricolage, ho sempre aggiustato io le cose in casa, ho fatto impianti elettrici e costruito finestre. Poi, se ci pensi, il lavoro in camera oscura è un lavoro da artigiano, totalmente manuale.
Torniamo allo spazio dove lavori e dove conservi le tue collezioni. Esso è anche il tuo archivio, archivio non solo come luogo di conservazione, ma anche come luogo di pensiero e di creazione dove hai sviluppato i tuoi progetti e le tue numerose pubblicazioni.
L’importanza di un archivio è anche questa, non un luogo di solo deposito della memoria, ma qualcosa di vivo e sempre attuale, da cui possono nascere nuovi progetti e idee. Come questa mostra per Fotografia Europea. E come il mio ultimo libro, In festa, nato proprio riguardando i materiali d’archivio in occasione di una mostra sulle feste popolari in Italia pensata per il festival Pistoia – Dialoghi sull’uomo, inaugurata qualche giorno fa e con molte foto inedite.
Nella mostra Dall'archivio al mondo, non solo hai presentato alcune tue celebri fotografie, ma hai scattato appositamente delle immagini del tuo studio-atelier, e probabilmente hai esposto, forse per la prima volta, allo sguardo del pubblico l'aspetto più intimo e privato della tua vita d'autore.
In effetti è così. In genere io sono molto riservato. Dato il tema di Fotografia Europea, Mappe del tempo. Memoria, archivi, futuro, mi è stato detto che sarebbe stato interessante documentare anche lo spazio reale in cui si svolge la mia attività. E prima che ci pensassi più di tanto, ero già lì con la macchina fotografica in mano che mi aggiravo per lo studio.
È un processo e un'analisi che forse tu ben conosci avendo fotografato lo studio-atelier e la collezione di bottiglie di Giorgio Morandi, immagini realizzate rigorosamente in bianco e nero. Cosa è significato per te entrare nell'intimità dell'artista e restituirla in un libro?
Avevo già visto il bellissimo lavoro dell’amico Ghirri. Io sono stato l’ultimo a fotografare lo studio prima che venisse smantellato per essere ricostruito altrove. Un lavoro di documentazione, che però mi ha dato grande emozione. Mi sentivo un po’ in soggezione a entrare nello spazio intimo di un così grande autore, ma quel rigore, quella luce particolare e quella meticolosa accumulazione di oggetti mi hanno subito conquistato e ho lavorato con naturalezza, quasi sentissi delle assonanze, senza voler essere presuntuoso. È stata anche una sorpresa, ho potuto documentare per primo la scoperta di uno sgabuzzino completamente sconosciuto, che conteneva una moltitudine di vasi e oggetti che si vedono nei suoi quadri.
Si afferma che l'archivio e lo studio di un autore sono il suo specchio, l'autoritratto dell'artista. Ti riconosci in questa affermazione?
Direi di sì.
Con l'avvento del digitale l'archivio e l'atelier assumeranno un aspetto del tutto differente e smaterializzeranno i particolari e i dettagli che ora raccontano molto dell'autore. Che previsioni fai per il futuro?
Nere. Ne parlavo giusto l’altro giorno con un soprintendente ai Beni Artistici che è della mia stessa opinione, con questa corsa alla digitalizzazione si porranno in futuro grossissimi problemi di lettura dei materiali conservati, la tecnologia cambia così velocemente e non sempre il nuovo comunica con il vecchio. E poi, questi archivi che non si vedono, non si toccano, non hanno odore, dentro cui non puoi entrare, non è triste?