Gladioli
La signora in abito azzurro e ombrellino verde passeggia lungo il vialetto assolato, guarda i gladioli ritti nell’ultimo ordine dell’aiuola alla sua sinistra. Sembra sorpresa: forse dalle tinte vivaci e dal portamento dei fiori, che s’alzano senza alcun sostegno, o dalle farfalle bianche che svolazzano dintorno? O, forse, dal trovare un’intera quinta di gladioli in giardino?
La scena è stata dipinta da Claude Monet nel 1873 (Gladioli, Institute of Arts, Detroit). Di certo, il pittore francese non avrebbe apprezzato il giudizio di Ippolito Pizzetti. L’esperto giardiniere ammette in giardino gli iris ma non i gladioli, che stan bene – sostiene – solo recisi in grandi vasi: «è un fiore longilineo, un fiore elegantissimo, splendido, ma freddo, per quanto intensi e vari siano i suoi colori, e anche allegro, ma come possono esserlo le lacche e certe vernici [...] in giardino è difficile trovargli una collocazione».
Vero è che di solito sono relegati ai margini degli orti, con dalie e zinnie.
Credo invece che tra gli iris e gli agapanthus i gladioli ci stiano benissimo: le spade fogliari degli iris sono simili e i gladioli (dal diminutivo del latino gladius, spada) vi si confondono, regalandoci una seconda fioritura; invece, quelle nastriformi dei “fiori dell’amore” fungono loro da appoggio. Uno dei problemi dei gladioli, infatti, è che spesso i loro gambi si piegano al vento o alla pioggia, e i tutori non sono belli a vedersi.
Ma qui ci aiuta Eva Mameli, che per prima ebbe in Italia la libera docenza universitaria in botanica. E sì, en passant, fu anche moglie di Mario Calvino e mamma di Italo ma è, appunto, dato secondario. Ho tra le mani una sua dotta monografia (Il gladiolo, collana Biblioteca per l’insegnamento agrario professionale, Ramo Editoriale degli Agricoltori, Roma 1949) in cui, oltre alla storia della varietà moderne offre tutte le necessarie informazioni per la coltivazione. Tra queste troviamo anche il suggerimento per evitare fusti troppo fragili. Il termine tecnico del fenomeno è “allettamento”, per cui le piante, specie le erbacee, per la scarsa consistenza dei tessuti, si ripiegano al suolo. Ecco i consigli di Eva:
È molto importante, nella coltivazione del gladiolo, impedire che le piante si allettino e che la spiga si incurvi. Nelle coltivazioni industriali si tendono dei fili lungo i solchi per mantenere erette le foglie e le spighe. Nei giardini, se le piante sono poche, sono sufficienti tutori di legno, però è necessario disporli tempestivamente, prima che il vento pieghi le foglie e le spighe. Vi sono varietà che hanno tendenza a incurvare lo stelo; queste vanno sostenute con maggior cura delle altre.
L’allettamento delle piante, quando non è un difetto della varietà, è dovuto molto spesso alla piantagione troppo superficiale dei bulbi. Molta influenza sulla rigidezza dello stelo ha anche la concimazione equilibrata: sono, soprattutto, i concimi potassici e fosforici a determinare lo sviluppo delle fibre e il turgore cellulare, mentre un eccesso di azoto organico produce steli deboli.
Una formula equilibrata di concimi è la seguente: azoto 5; anidride fosforosa 10; ossido di potassio 5.
Claude Monet doveva esserne al corrente, viste le erte spighe dei suoi gladioli!
Già nel 1940 Eva e il marito avevano dato alle stampe presso l’editore Paravia un libretto in cui raccoglievano le risposte date ai lettori della loro rivista «Il giardino fiorito». Anche qui, con qualche informazione più puntuale (per es., i bulbi vanno interrati almeno 10-12 centimetri), la scheda n. 15 è dedicata ai Gladioli a stelo debole. Benemerita, dunque, la ristampa arrivata nel 2011 dei 250 quesiti di giardinaggio risolti pubblicata da Donzelli.
Di fronte a tanta sapienza, cedo di nuovo a Eva la parola per la descrizione, precisa quanto essenziale, del fiore:
Il genere Gladiolus appartiene alla classe delle Angiosperme, alla sottoclasse delle Monocotiledoni, all’ordine delle Liliflore e alla famiglia delle Iridacee. Le sue caratteristiche sono: bulbo solido (bianco-rosato o giallo esternamente e internamente), protetto da tuniche fibrose rossicce o gialle; foglie equitanti, strette e lunghe, rigide, oppure lineari, con nervature parallele; fiori con ovario infero; perigonio zigomorfo di 6 segmenti disuguali, per cui il fiore risulta asimmetrico e dorsiventrale. I fiori sono più o meno tubolosi e il tubo è per lo più imbutiforme; i segmenti perigonali stretti alla base; quelli superi spesso a forma di cappuccio; 3 stami (manca il verticillo staminale interno) inseriti nel tubo; 3 stigmi sopra un lungo stilo; ovario triloculare che si trasforma a maturità in una capsula loculicida contenente molti semi sferici, o appiattiti e alati.
Eccesso di tecnicismi per un fiore così conosciuto e diffuso? È bene, allora, armarsi di dizionario e acquisire un po’ di lessico specialistico, non vi pare?
Comunque, nella sua Prefazione Eva Mameli sapeva essere assai più piacevole, puntando sui pregi del fiore: l’ampia gamma e combinazione dei colori; l’eleganza delle spighe florali; la forma «impeccabile»; la durata delle corolle e il lungo periodo della fioritura, specie se si alternano varietà precoci, intermedie e tardive; la facile coltivazione. Insomma, un fiore alla portata di tutti che, con qualche accorgimento rende più ricco il giardino, checché ne dica Pizzetti. Il quale, tuttavia, pur avanzava una buona argomentazione a favore dei selvatici, quali il gladiolo delle messi (Gladiolus segetum) o la spadacciola (Gladiolus communis), assai simili se non per la forma dei semi. Entrambi di origine africana e progenitori dei gladioli moderni, quindi di tutti gli ibridi, portano bei fiori rosa acceso e, interrati in un ampio prato, conferiscono al giardino quell’aria spontanea “all’inglese” sempre di gran fascino.
Ma ora veniamo alla parte sui gladioli che Eva Mameli avrebbe potuto svolgere solo su suggerimento del figlio scrittore. Due poesie, una per i selvatici e una per quelli da taglio. E di due poeti tra i massimi.
Comincio niente meno che da Arthur Rimbaud. Il dormiente nella valle è un testo del 1870 dove dolce è la mors acerba di un soldato della guerra franco-prussiana, e il dettato talora ha la grazia di un epigramma funebre da Antologia Palatina:
È un verde anfratto dove canta un rivo
che impiglia folle all’erbe i suoi brandelli
d’argento; dove il sole riluce dai monti
solenni: è una valletta che spuma di raggi.
Un giovane soldato, a bocca aperta e capo nudo,
con la nuca immersa nel fresco crescione azzurro,
dorme; sotto le nubi è steso nell’erba,
pallido nel verde letto in cui la luce piove.
Ha ai piedi dei gladioli, dorme. Sorride come
un bimbo malato sorriderebbe nel sonno:
Natura, devi cullarlo nel tepore: ha freddo.
Non fremono le sue narici a quei profumi;
dorme nel sole, una mano sul petto
calmo: ha due buchi rossi al lato destro.
Guardava a Rimbaud e ai poeti francesi Gottfried Benn, poeta sensibile ai fiori, amava anche le rose, i lillà, le ortensie. Questi suoi Gladioli sono in vaso, fiori cittadini, altro è la natura, e i campi del piccolo villaggio della sua infanzia. È una poesia della raccolta Frammenti (1951), è un Benn ultimo, che declina verso l’oscuro:
Un mazzo di gladioli
allude, è indubbio, alla creazione,
non morbidume di corolle, non speranza di frutto –:
sono lenti, durevoli, non sanno d’irritazioni,
generosi, sicuri d’esser dentro i sogni dei re.
Altrimenti il mondo della natura e dello spirito!
Là i greggi lanosi:
resti di trifoglio, scarsi, poi caccole di pecora –
e qui i simpatici talenti
che spingono Anna al centro degli eventi,
la purificano, sanno la via d’uscita!
Qui non c’è via d’uscita:
esistere – cadere –
non contare i giorni –
compimento
bello, cattivo o lacerato.