Lupini, fiori dell’alba e della mezzanotte

30 Giugno 2024

Sì, proprio quelli che mandarono in rovina i Malavoglia. Benché pescatori, il carico della Provvidenza non era di lupini di mare (Chamelea Gallina) – le piccole bivalve meno costose delle vongole veraci che in Romagna chiamano “poveracce” –, bensì lupini di terra, i semi del Lupinus albus

Non vi esorto a coltivare in giardino questa erbacea annuale della famiglia delle Fabaceae (o Papilionaceae), spontanea nelle regioni centro-meridionali, tuttavia è bene soffermarvisi un poco perché ha le sue grazie e con il giallo L. luteus, l’angustifolium e l’hirsutus (o gussoneanus), entrambi dalla livrea blu, è una delle quattro specie selvatiche presenti sul nostro territorio. 

Pianta annuale, provvista di fittoni, si alza su fusti robusti, pubescenti, dalle belle foglie palmate di 6-9 segmenti e dai racemi apicali di fiori chiari con la tipica corolla fagiolina dotata di labbro supero e infero. I brevi pelosi baccelli accolgono quattro o cinque semi piatti, giallastri, il cui consumo ha influenzato costumi e abitudini nelle aree mediterranee. Nei paesi del sud la figura del “lupinaro”, il venditore itinerante di lupini lessati e salati, è nella memoria delle generazioni più âgées. Ancor oggi, si mangiucchiano come bruscolini d’aperitivo o di strada. Il loro ruolo nel regime alimentare è stato rivalutato dai nutrizionisti, così anche il mercato si è adeguato: la grande distribuzione li offre precotti, in confezioni sottovuoto, o in farina per prodotti da forno dolci e salati. Come tutti i legumi, infatti, sono ricchi di fibre, proteine, sali minerali (ferro, potassio e fosforo), e indicati per le diete, specie dei celiaci. Ha persino proprietà curative: tiene a bada i livelli di colesterolo e glicemia. 

Una volta tanto, i lupi non sono in questione: l’etimo pare non essere latino, come si tenderebbe a pensare, ma greco (λύπη, afflizione, tristezza), e rimanderebbe allo sgradevole sapore amaro dei semi crudi e non trattati. 

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In giardino, invece, possiamo dedicarci al Lupinus polyphillus, selvatico nella sua area d’origine – gli USA – dove colonizza vaste zone per un colpo d’occhio indimenticabile: onde blu spruzzate di bianco. Introdotto in Europa nel 1826 possiamo ammirarlo in massa anche in Germania e nelle regioni scandinave, e senza alcuno sforzo: ti viene incontro a frotte lungo le autostrade, e tu spasimi un’area di sosta per immergerti in quel mare di ametista, con qualche vela bianca o rosa che ne increspa la superficie.

I numerosi ibridi Russell – George Russell, l’appassionato giardiniere che a inizio Novecento diede avvio alla sperimentazione – sono molto amati dagli inglesi che ne fanno una presenza fastosa delle loro quinte teatrali en plein air. Pur mescolati a ombrellifere, gigli, achillee, delphinium e phlox paniculate, giocano un ruolo da protagonisti con le alte, dense spighe di fiori dai colori squillanti: superbi pennacchi viola, gialli, rosa, rossi, bianchi, arancio, persino bicolori con abbinamenti stupefacenti a contrasto (porpora e bronzo, giallo e rosa o arancio, blu e giallo ecc.) o in nuances monocrome. Senza dimenticare il non meno ornamentale cespo delle foglie digitate, degno piedistallo alle statuarie, luminose infiorescenze.

In quelle contrade, quest’erbacea perenne ha tutto quel che le bisogna: clima fresco e acqua, terreni fertili e ben drenati. Altrimenti, i lupini faranno bizze e vi lasceranno privi della loro meraviglia. Per questo dalle mie parti non è semplice coltivarli, basta una botta di caldo estivo e quelli lasciano il campo, anzi il giardino, seccati, e non si faranno più vivi.

Seamus Heaney, il poeta nordirlandese premio Nobel nel 1995, li ha magistralmente immortalati nella raccolta del 2001 Luce elettrica:

Eretti. A sostenere qualcosa. Semplicemente ritti.
In attesa. Non disponibili. Eppure là
di sicuro. Sicuri e inflessibili.
Fiore dell’alba dita rosate e della mezzanotte blu profondo.

Pacchetti di semi all’inizio, rosa e azzurri,
scorrevole leggerezza e piccola promessa nervosa:
guglie di lupini, erotismo del futuro,
pennello che sfiora l’azzurro e profonda presa della terra.

Oh torrette pastello, baccelli e steli affusolati
saldi alla terra per tutto il nostro vagare estivo
e anche quando sbiancavano non si tiravano indietro.
E nulla di questo oltrepassava la nostra comprensione.

Il verso in clausola mi porta con la memoria al passo di una lettera di Etty Hillesum, ebrea olandese nata nel 1914, che morirà ad Auschwitz il 30 novembre 1943. Dal Diario e dall’epistolario (Lettere 1942-1943), entrambi pubblicati da Adelphi, ci viene la sua voce lucida, ferma, al contempo pacata, ragionante. È la voce di chi, di fronte all’assurdo della Storia, non vuole stare al sicuro, vuole esserci, vuole cercare di «capire quel che capita». Una voce che non alza mai un’accusa al suo Dio. E sempre innamorata della natura e dei suoi paesaggi, anche «dietro il filo spinato».

Dal campo di transito di Westerbork, dove volle andare per assistere i suoi correligionari, e che sarà anche per lei la tappa intermedia prima dello sterminio, scriveva ai suoi cari:

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«8 giugno 1943 martedì mattina, le dieci 

Sono salita un momento su una cassa che si trova fra i cespugli per contare il numero dei vagoni merci, erano trentacinque, preceduti da alcuni vagoni di seconda classe per la scorta. I vagoni erano completamente chiusi, ma qua e là mancavano delle assi, e dalle aperture spuntavano mani a salutare, proprio come le mani di chi affoga.

Il cielo è pieno di uccelli, i lupini violetti stanno lì così principeschi e così pacifici, su quella cassa si sono sedute a chiacchierare due vecchiette, il sole splende sulla mia faccia e sotto i nostri occhi accade una strage, è tutto così incomprensibile.» 

e ancora, poco oltre:

«Io sto bene e sono contenta, in fondo vivo qui proprio come ad Amsterdam, a volte non mi accorgo neppure di essere in un campo – è ben strano che io sia così. [...]

Di sera assistiamo al tramonto del sole, che si tuffa nei lupini violetti dietro al filo spinato.

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Etty non avrebbe mai spento la luce dei lupini, nemmeno al colmo della disperazione, qualora vi si fosse abbandonata. Non così Ingeborg Bachmann.

Nel componimento eponimo della raccolta del 1953, Il tempo dilazionato, a cui il «Gruppo ’47» assegnò il suo prestigioso riconoscimento, decretandone il successo, la scrittrice austriaca ci consegna la previsione di tempi bui, quando tutto sarà perduto. E quando sarà necessario non più indugiare, lasciar andare l’amata, i cani, i pesci, spegnere persino i lupini.

S’avanzano giorni più duri.
Il tempo dilazionato e revocabile
già appare all’orizzonte.
Presto dovrai allacciare le scarpe
e ricacciare i cani ai cascinali:
le viscere dei pesci nel vento
si sono fatte fredde.
Brucia a stento la luce dei lupini.
Lo sguardo tuo la nebbia esplora:
il tempo dilazionato e revocabile
già appare all’orizzonte.

Laggiù l’amata ti sprofonda nella nebbia,
che le sale ai capelli tesi al vento,
le tronca la parola,
le comanda di tacere,
la trova mortale
e proclive all’addio
dopo ogni amplesso.

Non ti guardare intorno.
Allacciati le scarpe.
Rimanda indietro i cani.
Getta in mare i pesci.
Spengi i lupini!

S’avanzano giorni più duri.

Ma no. Se avessi lupini da guardare prima della fine, ne berrei la luce fino all’ultimo sorso perché, come Etty credeva, pensare ai fiori, anche in tempi tragici, aiuta a riconciliarsi con il creato, e a salvare l’anima.

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