Aristolochia: ceci n’est pas une pipe
"Auguri e figli maschi!” si suole dire alle partorienti secondo una concezione patriarcale della società. Per nostra fortuna è poi venuto Speriamo che sia femmina, film non indimenticabile, ma bastevole per un auspicio in chiave pink power.
Comunque, se volete mettere al mondo un rampollo c’è la pianta che fa al caso vostro, e che fin dal nome garantirebbe un felice esito: è l’Aristolochia. Plinio il Vecchio, nella sezione dedicata alla botanica della sua Storia naturale (libro xxv, 54) così ne scrive:
«Tra le erbe più famose, l’aristolochia sembra che debba il suo nome alle donne incinte, perché sarebbe “ottima” (ariste) “per le donne gravide” (lechousais). I Latini la chiamano pomo della terra e ne individuano quattro specie: una con la radice a tuberi rotondeggianti, le foglie di tipo intermedio tra quelle della malva e quelle dell’edera, ma più nere e più tenere: la seconda è l’aristolochia maschio: ha la radice allungata, della misura di 4 dita, e lo spessore di un bastone; la terza è la più lunga, sottile come una vite giovane, di efficacia singolare: è chiamata anche clematitide, e da altri cretica. Tutte queste specie sono di colore giallastro, hanno i gambi piccoli, il fiore purpureo, bacche piccole come quelle del cappero. Hanno valore solo per la radice. Ce n’è anche una che chiamano plistolochia (è la quarta varietà), più sottile dell’ultima descritta; ha la radice folta di filamenti, è spessa come un giunco piuttosto consistente; viene denominata appunto polirrizo. Tutte queste specie hanno un odore di medicamento, che però è più gradevole in quella dalla radice allungata e più sottile: essa ha infatti una scorza carnosa, adatta anche per i profumi al nardo. Nascono nei terreni grassi e pianeggianti. Il momento di strapparle da terra è al tempo della mietitura: si conservano così, dopo aver tolto la terra intorno. Tuttavia la più rinomata di tutte è quella del Ponto, e la più rinomata per ogni specie è quella più pesante; quella rotondeggiante è più adatta per i medicamenti; quella allungata contro i serpenti. È quest’ultima tuttavia che ha la fama più grande, perché, si dice, se viene avvicinata all’utero subito dopo il concepimento, mista a carne bovina, fa formare un figlio maschio. I pescatori della Campania chiamano la radice rotonda «veleno della terra» e – ne sono testimone – la gettano in mare tritata e mescolata a calce. I pesci accorrono rapidamente con straordinaria avidità e subito galleggiano morti. Quella soprannominata polirrizo si dice che sia utilissima per le slogature, le contusioni e le cadute dall’alto (se ne prende la radice in pozione nell’acqua), per i malati di pleurite e per i tendini (in questi casi se ne prende il seme)».
Al contrario, Galeno la inserisce in una pozione per indurre l’aborto. E, quanto all’etimo, Cicerone nel De divinatione sostiene altrimenti: «Quale utilità ha la radice del convolvolo come purgante, quale ha l’aristolochia contro il morso dei serpenti, il cui nome deriva proprio dal suo scopritore, Aristolochos, che la vide in sogno; io vedo che ciò è possibile e mi basta; perché sia possibile non lo so». Benché ancor oggi sia impiegata nella medicina popolare cinese, è bene non seguire questi antichi rimedi. È pianta officinale tossica, persino cancerogena, tanto che i prodotti a base di aristolochia sono messi al bando.
Circa 400 le specie, sia decidue sia sempreverdi, che costituiscono famiglia a sé (Aristolochiaceae), e diffuse in molti paesi, dal nordamerica alla Cina, dal Brasile al Caucaso. Alcune di queste vegetano allo stato spontaneo negli incolti o nelle aree umide e ombrose di quasi tutte le nostre regioni, come l’A. clematitis – detta anche erba astrologa per la tendenza dei fiori a orientarsi con il sole, e in Toscana “stallaggio” – l’A. rotunda e l’A. pallida. Queste tre essenze nostrane sono erbacee perenni, sarmentose, con rizomi o tuberi da cui dipartono fusti semplici o ramificati, con foglie alterne e cuoriformi, fiori eretti, ascellari, con lembo linguiforme e perianzio ingrossato alla base, di un giallo più o meno intenso nella clematitis e nella pallida, porpora nella rotunda. I frutti sono capsule ovoidali o tondeggianti contenenti semi leggeri.
Ma sono le esotiche a stupire, come la A. macrophylla, l’A. gigantea e l’A. elegans (o littoralis), liane vigorose, che in poco tempo ricoprono muri e pergole, dai fiori spettacolari per foggia e dimensioni. Dondolano su lunghi piccioli con un calice somigliante a una pipa, perciò note anche come Dutchman’s Pipe ma, strizzando l’occhio a Magritte, possiamo ben dire: “ceci n’est pas une pipe”. Possono infatti suggerire analogie erotiche ricordando gli organi sessuali femminile e maschile, a seconda dello stadio dell’antesi. Non hanno petali, e i tre sepali, uniti nel perianzio, creano un sacco a fondo cieco con un collo che si apre nel mezzo dei due ampi lobi frontali, dapprima uniti poi aperti in due metà speculari a simulare i petali mancanti. Possono raggiungere dimensioni notevoli (20-30 cm) e hanno tinte che variano dal bordeaux al giallo o marrone con un reticolo di venature chiare; al centro la bocca della gola che conduce all’utrìcolo è ben evidenziata da un colore vivace. Sono efficientissime trappole per insetti che, a differenza delle carnivore, non mangiano. Attratti dall’odore (per noi non sempre accattivante) e dai colori, gli insetti scivolano sulle pareti cerose del tubo florale dove un fitto vello pilifero impedisce loro di uscire trattenendoli fino a fecondazione avvenuta e, terminato il compito, il fiore avvizzito li libera. È così che avviene la simbiosi tra le tre specie nostrane di aristolochia e una rara farfalla, la Zerynthia Cassandra, perciò protetta: l’aristolochia funge da pianta nutrice per i bruchi, il lepidottero garantisce l’impollinazione e, di conseguenza, la nascita di nuove piante.
Coltivo la mia elegans in un vaso capiente riparandola in serra fredda dal tardo autunno alla primavera, ogni estate si arrampica sulla facciata di casa con i suoi viticci e stupisce con i suoi fiori inusuali. Disperavo di poter scrivere sull’aristolochia. Quale scrittore poteva averla contemplata in una sua pagina? Invece, non vi dovete accontentare del vecchio Plinio. Rileggendo Rimbaud trovo Jeune ménage, un testo datato 27 giugno 1872, quando, tornato a Parigi, Arthur riprende il legame con Verlaine. Poesia criptica, di fiabesca ironia, con allusioni al tormentato ménage à trois di Verlaine con Rimbaud e la moglie Mathilde. Qui, il poeta adolescente farebbe la parte del «malin rat» che sconvolge la vita domestica degli sposi. Ma il topo scaltro potrebbe pure rinviare al nomignolo con cui Verlaine chiamava la moglie: princesse souris. Comunque sia, a noi interessano le aristolochie ivi citate:
La stanza è aperta sul cielo turchino;
non un palmo di spazio: madie e stipi!
Sul muro invaso dalle aristolòchie
vibrano le gengive dei folletti.
Sono intrighi di qualche spiritello
tanto sperpero e tanta baraonda!
È la fata africana che fornisce
mora e reticelle nei cantucci.
Entrano in molte, matrigne scontente,
lembi di luce, dentro le credenze,
poi ci stanno! la coppia esce di casa
(è poco seria) e nulla si combina.
Lo sposo ha già il vento che lo inganna
continuamente, qui, durante la sua assenza.
Anche i folletti acquatici, malvagi,
errano per le sfere dell’alcova.
La notte, amica oh! la luna di miele
li coglierà ridenti e spargerà
nel cielo mille diademi di bronzo.
Poi, se la sbrigheranno col topo scaltro.
– Se non viene uno smorto fuoco fatuo,
come una fucilata, dopo i vespri.
– O santi spettri santi e bianchi di Betlemme,
ammaliate invece il blu della loro finestra!
Non sono qui evocate per caso le aristolochie, in vero adatte ad atmosfere fiabesche. Ma trattandosi di una coppia di giovani sposi questi fiori che favoriscono il parto devono avere una loro funzione per la comprensione del testo che, per altro, nel finale rinvia alla nascita di Betlemme, quella sì, avvolta di santo mistero.