Gli animali del mare

9 Ottobre 2024

Il mare come luogo di narrazioni con protagonisti rigorosamente non umani. Una curiosa letteratura dell’acqua, in cui creature spesso insolite sono al centro di avventure inaspettate o, addirittura, diventano guide esistenziali che indicano altre strategie di vita. Se ne volessimo fissare il punto di partenza, questo potrebbe essere il primo libro di Rachel Carson, ripubblicato da Aboca col titolo di Storie dalle profondità del mare, tradotto da Isabella C. Blum. Carson, che negli anni Sessanta inventa l’ambientalismo, lo scrive nel 1941. Unendo alta qualità stilistica a estese conoscenze di biologia marina, l’autrice ci porta sulla superficie e nella profondità dell’oceano. La sua dote più spiccata è l’empatia. Carson si identifica nell’animale, ne assume lo sguardo e le sensazioni, annullando quasi la sua componente umana.

I protagonisti sono tre. Il primo “personaggio” è un uccello, il piovanello femmina chiamato Silverbar. Il mare è sotto di lui, è il luogo dove trova nutrimento ed è la mappa da seguire quando, coprendo migliaia di chilometri, migra dalle coste americane dell’Atlantico verso la Patagonia in inverno e verso il circolo polare Artico in primavera. Il secondo è lo sgombro Scomber, che da subito deve contare solo sulle sue capacità, imparando a frequentare le acque basse delle secche, dove abbonda il plancton di cui si nutre. Ma la tranquillità nella sua vita non esiste. Abbandonati il porto del New England, Scomber e i compagni sono attesi da una schiera di nemici: grossi uccelli, pesci spada, tonni, calamari, balene. I pescatori li terrorizzano. Quando vedono lo scafo delle imbarcazioni, l’inquietudine si trasmette “con rapidità elettrica da un pesce all’altro”, trasformandosi in panico di fronte alla rete da pesca. Centinaia di sgombri vengono catturati, Scomber è uno dei pochi superstiti. Vedendo i pesci che si accumulano sul ponte del peschereccio, Carson immagina che il pescatore si interroghi sul mistero della loro vita. Si chiede che cosa avessero visto i loro occhi, probabilmente, “cose che lui non avrebbe visto mai, luoghi dove non sarebbe mai andato, cose che lui non aveva visto mai, luoghi dove non era mai stato”. Carson ci mostra (anche in tal senso fu antesignana) l’unicità di ogni forma vivente. L’eccezionalità di ogni esperienza. E l’insensata miseria della morte che coglie gli sgombri “sul ponte di una barca reso viscido dalle interiora dei pesci e scivoloso dalle loro scaglie”, dopo essere “passati sotto le forche caudine di tutti i nemici implacabili”.

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La terza protagonista del libro è l’anguilla Eel, “creatura del buio e della notte”, la cui avventura ha inizio nel Mar dei Sargassi, negli abissi a sud di Bermuda. Qui la voragine scavata tra le catene montuose del fondo oceanico è profonda e tiepida: la condizione ideale per deporre le uova. Con questo scopo, una volta all’anno, arrivano nell’area le anguille europee e quelle americane. Una volta nate, ancora in forma larvale, le anguille si mettono in viaggio e, contemporaneamente, mentre crescono di dimensioni, risalgono lentamente verso la luce, arrivando nello strato di mare in cui si nutrono di alghe brune. Il loro corpo, ancora “trasparente come vetro”, ha assunto la forma di foglie di salice, perfettamente adatta ad essere trascinata alla deriva dalla corrente nord atlantica. A fine estate il “corteo” si separa in due colonne: le anguille americane, più grosse, vanno verso ovest; le europee verso est.

Guidate da un richiamo inesorabile, ciascuna di loro si muove alla volta del continente da cui provenivano i genitori. Quando si avvicinano alla costa il loro corpo è cambiato: assomiglia a un cilindro ingrossato, quanto serve per risalire i fiumi. Inoltrandosi nelle baie, in marzo avviene la separazione: mentre i maschi “indugiano negli estuari dei fiumi resi salmastri dal sapore del mare”, le femmine risalgono i fiumi controcorrente, spostandosi di notte, velocemente, formando colonne lunghe chilometri, assediate dai predatori. Nel fiume vivranno a lungo, anche una decina d’anni. Poi, improvvisamente, torneranno sui loro passi per ritrovare l’abisso marino dove, deposte le uova, troveranno la morte. 

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Il corposo saggio del biologo americano Carl Safina Il viaggio della tartaruga, pubblicato negli Stati Uniti nel 2007 ed edito da Adelphi, con traduzione ancora di Isabella C. Blum, è dedicato a uno dei più antichi animali del mare. A contrassegnarlo è l’inquietudine, perché all’orizzonte è immaginabile “l’avvento del giorno senza le tartarughe”. Safina scrive a ridosso della drastica decimazione delle tartarughe di mare avvenuta negli ultimi vent’anni dello scorso secolo. A differenza degli animali della Carson, i suoi sono continuamente alle prese con gli esseri umani, i loro più formidabili sterminatori, diretti e indiretti. Safina ne è certo: il maggior pericolo per le tartarughe è la “nostra superficialità”. Per salvarle bisogna conoscerle. E per conoscerle lui le ha seguite, viaggiando insieme a chi le studia e a chi le caccia, imparando a individuarne le abitudini e i comportamenti, incontrando gli altri animali con cui hanno a che fare, cetacei, squali, tonni, pesci spada. Con la consapevolezza che le tartarughe ci precedono di centinaia di milioni di anni. La nostra invasiva e fatale presenza è arrivata nella loro vita da un battito di ciglia: per milioni di anni le tartarughe hanno nuotato in un mare senza uomini. Nonostante la lunga convivenza – testimoniata dalla centralità della tartaruga nei miti di origine e nel folklore di moltissime popolazioni sparse ovunque nel globo – ai nostri occhi le tartarughe sembrano però muoversi in un “universo stranamente alieno”.

Di fatto, non le abbiamo mai capite. Tra le sette specie di tartarughe marine, l’attenzione di Safina si indirizza verso le Liuto, sfuggite miracolosamente all’estinzione, almeno nell’Oceano Pacifico. Rettili a sangue caldo, sono quanto di più vicino ci sia a un dinosauro vivente. Il primo a descriverle è stato un medico francese, Guillame Rondelet, nel 1554. Devono il loro nome scientifico, Dermochelys coriacea, al color nero tendente al blu della pelle, simile al cuoio. Hanno un aspetto unico, perché oltre alle sette creste longitudinali presenti sul torso, non hanno il guscio. Le loro coste non si uniscono né si fondono ma formano una struttura che rimane aperta; invece di un solido carapace, il dorso è formato “da un mosaico di migliaia di minuscole ossa sottili ricoperte da una spessa matrice di grasso e tessuto fibroso”.

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La parte ventrale “consiste soltanto di un fragile stretto ovale di osso completato e riempito da un pesante tessuto fibroso spesso diversi centimetri”. Le Liuto detengono tutti i record: sono le tartarughe più veloci nel nuoto, i rettili più pesanti (possono arrivare a 900 chilogrammi) e dalla crescita più rapida; sono tra gli animali che si immergono più in profondità (fino a 1200 metri, dove vivono “gli invertebrati delle acque di mezzo”), sono i più ampiamente distribuiti e altamente migratori: una Liuto attraversa interi bacini oceanici, spaziando dai mari tropicali fino ai territori di confine delle regioni artiche e antartiche e poi si arrampica sulla terraferma per nidificare. La dieta è originale (sono proprio le abitudini alimentari ad avere differenziato le varie specie di tartarughe): prediligono le meduse velenose che incamerano in gran quantità nell’esofago oblungo.

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Non hanno abitudini stabili. Mentre nei mari settentrionali le Liuto possono passare molto tempo in superficie, quando si spostano verso sud scompaiono alla vista perché se ne stanno prevalentemente immerse. La loro vita è un continuo migrare tra siti di alimentazione e di riproduzione, guidate probabilmente dal campo magnetico terrestre e da una macchia rosata e traslucida posta sulla sommità del capo, una sorta di finestra sul cervello che può facilitare l’elaborazione delle informazioni sulla luce e sulla lunghezza del giorno. Complessivamente, la vita di una Liuto può sembrare ripetitiva e noiosa, nell’immensità azzurra dell’oceano accade pochissimo. Ma, suggerisce Safina, a scandire la sua esistenza è altro, ovvero “il ritmo dei colpi di pinna, il ritmo delle immersioni e delle pause, il ritmo del respiro consumato e del respiro riguadagnato”. Una è però la priorità: questi essere colossali ora devono affidarsi a noi. Hanno bisogno di persone che consentano loro di nidificare su spiagge non eccessivamente illuminate e da dove non vengano sottratte le uova; che permettano loro di non cadere nelle reti dei pescatori; che non le caccino per portarle in tavola o per trasformare il carapace in ornamento. 

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Ma c’è anche un altro modo per avvicinarsi alle creature del mare, trovando nel loro modo di organizzare la vita dei modelli alternativi e degli specchi del proprio sé. È quanto ha realizzato la giornalista scientifica americana Sabrina Imbler in Fin dove arriva la luce. La mia vita in dieci creature marine (edito da Codice con traduzione di Allegra Panini e disegni di Simone Ban). Facciamo degli esempi. Da chi imparare a resistere e a trasformarsi? Il miglior modello è quello dei pesci rossi che sanno reggere la morsa claustrofobica della boccia di vetro e poi, liberati, mutano aspetto e colore, diventando inarrestabili. A chi, invece, paragonare una madre desiderosa che la figlia si adegui al modello dominante nella società americana? La scelta cade sul polpo violaceo, che, durante un’incubazione di quattro anni e mezzo, per proteggere le uova dai predatori, non mangia e perde il colore, trasformando il suo corpo “in un faro riflettente”, destinato a morire dopo la schiusa.

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La balena, invece, ha un’altra funzione. Permette di capire che certe relazioni sono comprensibili solo da morte, esattamente come capita con il mastodontico cetaceo, che nessuno può dire di vedere bene se non una volta trapassato. La scoperta del piacere di essere comunità, di trovarsi insieme agli altri finalmente liberi da retaggi culturali opprimenti, è associato all’osservazione dei camini termali, veri e propri vulcani sotterranei dove, nella desolazione degli abissi, pullula inaspettatamente la vita, ben rappresentata dal granchio Kiwa puravida che “facendo ondeggiare le proprie enormi chele e agitando le spine da istrice del carapace”, coltiva i batteri di cui si nutre, sopravvivendo a chilometri di distanza dal sole. Se Eunice aphroditois (per anni chiamato Bobbit, come la donna che dopo una violenza tagliò il pene al marito), un verme cacciatore che può raggiungere i tre metri di lunghezza e se ne sta perlopiù nascosto nella sabbia dei fondali, si collega alle insidie che hanno funestato l’adolescenza dell’autrice, un curioso pesce farfalla, incrocio tra specie scoperto nel 1977 e ancora senza un nome, diventa il modo per affrontare la questione delle proprie origini ibride. E infine c’è il corpo. Le ultime tre parti del libro lo mettono al centro. In tre modi. In primo luogo nell’esperienza di fondersi con altri corpi, che Imbler abbina al movimento delle salpe, strani animali simili a “sferette di gelatina” che “si spostano formando lunghe catene pulsanti che ondeggiano come serpenti o si avvolgono a spirale come il guscio di una chiocciola”.

Quindi nel desiderio di metamorfosi, che le seppie giganti australiane sanno mettere in atto con spettacolare efficacia, quando i piccoli maschi modificano il disegno del corpo per sembrare femmine ed evitare di essere riconosciuti dal maschio dominante; o quando le femmine usano lo splotch, un disegno con chiazze bianco latte sulla testa, sulle braccia e sul mantello. Infine il corpo viene visto nella possibilità di tornare a riassaporare una “dolceamara” adolescenza, una volta accettata la transessualità. È quanto sperimenta la medusa Turritopsis dohrnii, che possiede una capacità unica: dopo un trauma o quando è ormai vecchia e malandata, “può trasformarsi potenzialmente in un gran numero di giovani sé, tutti provvisti della stessa capacità di rigenerarsi”. 

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