Goebbels: il suicidio della Germania
Perché occuparsi di un mostro psicopatico come Joseph Goebbels? Uno squallido narcisone servile che non avendo niente da offrire allo specchio si trasformava in Ombra del Supremo e suo Grande comunicatore all’universo mondo (pronto a essere conquistato dal superuomo coi baffetti di pura razza ariana). Personalmente, pur comprendendo la sua innegabile modernità diciamo così mediatica, sul piano psicopatologico (l’esplosione del narcisismo di massa) e su quello della comprensione dei meccanismi di coinvolgimento emotivo del popolo o pubblico che lo si voglia definire, faccio fatica a misurarmi con i suoi miseri ragionamenti. Mi interessa molto di più, forse addirittura in modo morboso, il pubblico che lo esalta. Certo, l’evento è stato preparato con cura maniacale, ci saranno state delle prove ma il grido della folla è unanime.
La stessa folla che ha decretato la fine di Weimar, la stessa che a Roma ha inneggiato al Duce che dichiarava guerra qua e là. Cosa c’è di più visto e stravisto di una folla beota? Per dare un minimo di profondità storica del fenomeno farò inevitabilmente il nome di Barabba. Il popolo sceglie sempre Barabba. Getta il Gesù del momento con l’acqua sporca. Come è possibile che il popolo più colto d’Europa, la Germania, abbia adorato un violento psicopatico come Hitler, circondato da una banda servile di mediocri, morfinomani e pazzi? Invocando scemenze come la razza ariana e simili, e riuscendo a creare nemici inesistenti (esattamente come Putin attualmente, che chiama il popolo a una difesa che non ha attaccanti) e soprattutto occulti.
Il capitalismo-comunismo-giudaico-massonico. La piazza del Duce è più pecoreccia, e a nessuna persona perbene verrebbe in mente Cicerone sentendolo parlare. Pecoreccio il popolo e pecoreccio il fantasmagorico Duce, campione dell’arte tutta italiana del trasformismo. Però Berlino tra le due guerre non è terra di sprovveduti. Il popolo che si raduna per ascoltare quello che veniva considerato il portavoce del nazismo, il capo indiscusso della comunicazione, il 18 febbraio 1943 nell’immenso palasport di Berlino, ha letto Goethe e Schiller, ascoltato Bach e Beethoven, apprezza l’arte, è cresciuto tra grandi filosofi, immensi poeti… Se ci sono domande senza risposta questa è la prima: non capiremo mai (esattamente) perché.
Peter Longerich con il suo Goebbels e “la guerra totale” (Einaudi 2024) ha isolato questo momento storico preciso per un ottimo motivo: il 1943 è anno infausto, per il Führer, è l’inizio della fine, e di ogni opera, storica o di fantasia, è importante che la fine sia ben raccontata, perché ognuno (ogni popolo, anche) la vive a modo suo. Nella sua precedente monografia Joseph Goebbels, pubblicata da Einaudi nel 2016 era già ampiamente narrato questo comizio del ’43, ma qui lo pubblica integralmente, commentandolo in ogni passaggio. Perché è importante questo discorso? Perché avviene quando la sconfitta di Stalingrado annuncia la fine della follia nazi-fascista. Come parlarne? Cosa dire al popolo che si sentiva ormai padrone del mondo? Le interpretazioni prevalenti dell’epoca riguardano l’inadeguatezza degli alleati, italiani in primis. Goebbels arricchisce l’interpretazione aggiungendo il suo inestinguibile antisemitismo: dietro le quinte del mondo occidentale si muovono, diabolici, i potentissimi ebrei che hanno “infettato il mondo”. Sono loro che controllano le leve del potere negli Stati Uniti e in Inghilterra. Forse soltanto Hitler coglie il motivo reale: l’imprevedibile risposta del popolo russo. Ottusi ma ostinati fino all’inverosimile, li definisce. Il grande scrittore russo Vasilij Grossman, con i suoi romanzi e i suoi reportage, ha dedicato la vita e il suo tormentatissimo lavoro a questa semplice verità: Stalingrado non è una vittoria di Stalin, che peraltro era stato responsabile della catastrofe iniziale dell’invasione tedesca alla quale non credeva, ma di un popolo. Dopo essersi alleato con Hitler e dopo aver occupato insieme alla Wermacht la Polonia, Stalin si ritrova con i tedeschi in casa e un’Armata Rossa quasi senza ufficiali, finiti in gran parte nei Gulag perché troppo vicini ai rivoluzionari delle origini (Lev Trotsky in primis). Goebbels da tempo cerca di coinvolgere il suo idolatrato Führer in un suo elaborato teorico che si riassume nel concetto di “Guerra totale”.
C’è anche un esplicito ritorno alle origini del NSDAP, il partito nazista. Soprattutto nella scelta del luogo simbolo, teatro di tante manifestazioni vittoriose, spesso filmate dalla famosa Leni Riefenstahl, la documentarista amica di Hitler ma che non condivideva il feroce antisemitismo di Goebbels. Nel suo documentario dedicato alle olimpiadi di Berlino del ’36 (Olympia) mostra addirittura, e con ammirazione, e a lungo, le imprese medagliate di Jesse Owens, afroamericano atleta di punta della delegazione statunitense. Forse è per questo che del comizio del ’43 non c’è un filmato integrale. Soltanto pochi frammenti dei cinegiornali, in cui Goebbels agita il braccio e mostra una sicumera che il suo misero corpo non sostiene. È zoppo, ha un piede deforme, un’ambizione smisurata pari soltanto alla sua ottusa adorazione del Capo.
Quando decide di lasciare moglie e sei figli non ancora adolescenti per mettersi con un’attrice il Führer lo convince a restare con la famiglia e lui fa sparire l’amante e cancella la sua passione. Decisione fatale per l’intera famiglia, avvelenata poco dopo il suicidio di Hitler, che gli concederà persino il comando della difesa di Berlino, e per poche ore il suo stesso ruolo di comandante totale. Nello stesso momento in cui Goebbels declama il suo discorso agguerrito e folle, quelli che dovevano essere spazzati via prima dell’inverno, i sovietici con i loro sempiterni suggeritori ebrei, stanno avanzando con le loro truppe verso la Germania. Il fronte orientale è crollato. Non può nasconderlo. Parlavo di un ritorno alle origini “rivoluzionarie” del nazismo in questo discorso: non tutti i tedeschi hanno contribuito abbastanza alla guerra. I figli delle famiglie altolocate non sono tutti al fronte. Gli uomini, in generale, non sono tutti al fronte. Questa è la guerra totale “oltre ogni immaginazione”.
Gli uomini in guerra, le donne al lavoro. La folla grida ripetutamente questo slogan. Letteralmente incredibile la faccia tosta di Gobbels quando parla dell’attacco bolscevico alla Sesta armata di Paulus! Nella fiaba che racconta a se stesso e al popolo osannante il lupo sovietico ha aggredito i prodi soldati tedeschi, unici difensori delle civiltà occidentali, purtroppo anch’esse infiltrate dai soliti infidi banchieri ebrei e da capitalisti-comunisti. Se vincerà l’asse pluto-comunista-ebraico la Germania verrà distrutta, i suoi mirabili campi arati e ben coltivati depredati, gli uomini torturati e costretti a lavorare in schiavitù. Come non sovrapporre a queste parole deliranti quelle di Putin che si dichiara aggredito dai nazisti ucraini? Sono le parole dei dittatori, che non potrebbero vivere senza una radicale falsificazione della storia.
Chi volesse azzerare la storia dovrebbe rendersi conto che anche attualmente il mondo è dominato in buona parte da regimi totalitari. Se è vero che il nazi-fascismo è un fenomeno storico concluso, è altrettanto vero che il nazional-populismo in grande espansione planetaria è e sarà sempre il preambolo necessario ai regimi totalitari e alle guerre. Almeno questo dovremmo averlo imparato. Cos’altro dice Goebbels agitando hitlerianamente il suo modesto pugno? In fondo tutto il discorso non è altro che una chiamata alle armi e una verifica della fedeltà al Führer e al progetto. Si rivolge al pubblico, stimola le sue risposte, pronte e gridate. “Siete disposti a seguire il Führer nella buona e nella cattiva sorte fino alla vittoria?” Sì! tuona la folla. “Se necessario volete una guerra più totale e radicale di quanto possiamo immaginare?” Sì! urla la folla, nel palasport e davanti alle radio e agli altoparlanti disseminati ovunque.
Parla chiaro, promette una vittoria del tutto immaginaria ma annuncia che il prezzo da pagare sarà alto. Del resto, oltre il nazismo, lo scrive nei suoi diari (che nella loro ampiezza sono diventati essenziali per gli storici del nazismo), non c’è più vita che abbia un qualsiasi senso. Può addirittura accettare ridacchiando uno squallido lapsus: comincia a dire “Stermin…” prima di correggersi ridacchiando con un più sobrio “estirpare gli ebrei finché si è in tempo.” Grida eccitate, applauso fortissimo, risate: queste le parole che descrivono la reazione del pubblico al lapsus, e su queste bisogna riflettere. Soprattutto sulle risate di scherno. Che dicono la verità più tremenda: il popolo sa perfettamente cosa sta succedendo agli ebrei nei campi di sterminio. Lo sa e lo condivide.
La ferocia antisemita è il cuore palpitante di tutto il suo disgustoso discorso, ed è l’essenza stessa del nazifascismo. Condivide anche le sferzate del viceführer: “Oggi non si tratta più di mantenere uno standard di vita elevato a spese della nostra capacità di difesa (sic!) contro l’Est, quanto di rafforzare la nostra capacità di difesa a spese di uno standard di vita interno ormai non più conforme ai tempi. La guerra totale è quindi imperativo del momento! (grida, applausi…) Dobbiamo metter fine all’atteggiamento borghese che abbiamo visto anche in questa guerra: voler fare la frittata senza rompere le uova! (Applausi crescenti e grida di approvazione) Il pericolo che abbiamo di fronte è enorme. Gli sforzi da fare per affrontarlo devono esserlo altrettanto. È venuto il momento di toglierci i guanti di velluto (grida! invocazioni a Hitler) e di usare i pugni! (Grida: Sììì! Applausi).” Spero che questa lunga citazione renda a sufficienza il succo del suo intervento.
Confesso che ho fatto fatica a leggere per intero questo discorso, che ammanterei di aggettivi insultanti. Quando torno su queste pagine di storia – e di storia contemporanea, si chiama così: i miei nonni hanno combattuto la Prima guerra mondiale, mio padre e i miei zii la Seconda, grazie al cielo concludendola combattendo contro i fascisti e i nazisti – provo emozioni fortissime che mettono in crisi convinzioni maturate in decenni. Per esempio il mio pacifismo e il mio antimilitarismo, che pure considero autentici e profondi. Mi sono tornate in mente le recenti affermazioni di persone che sono state giovani con me, che della Seconda guerra mondiale, alla fine, lamentavano i “crudeli bombardamenti” delle città italiane da parte di inglesi e americani. Devo ammettere che dentro di me la penso diversamente: quelle bombe, meritatissime, sono state troppo poche. E questa Repubblica, una e indivisibile, non doveva proprio nascere. Riflessioni dolorose e inutili, le accenno soltanto per dimostrare che leggere questo discorso, con l’utile e profondo commento di Longerich, non lascerà nessuno indifferente.
L’onda d’urto annunciata da Goebbels arriverà e sarà tremenda, e devo aggiungere l’avverbio: giustamente. I tedeschi non verranno affatto ridotti in schiavitù ma con i loro sette milioni di morti e le città distrutte inizieranno un lungo percorso che gli italiani non hanno mai conosciuto. Chi come me è nato e cresciuto nell’immediato dopoguerra non sapeva nulla di storia. Fascismo, democrazia, soltanto parole senza contenuto e senza memoria. I miei compagni di scuola erano convinti che l’Italia avesse vinto la seconda guerra mondiale, e c’era infatti una festa che lo lasciava credere. Molti dei loro genitori erano passati da Mussolini a Togliatti senza battere ciglio, e per loro “democrazia” significava soltanto pagnotta e soldi americani. I pochi pensatori liberal-democratici erano stati uccisi o non erano altro che incomprensibili minoranze in via di rapida estinzione. Oggi ci sono ragazzi convinti (lo scrivono nei temi) che Aldo Moro fosse il capo delle Brigate Rosse, quindi la Seconda guerra mondiale si confonde nelle loro menti con le guerre puniche. Le rimozioni creano il sintomo, come è noto, e oggi questo sintomo si chiama nazional-populismo. Aggiungiamo un pizzico di antisemitismo e avremo la fotografia del nostro presente. Forse confessare un’altra domanda che mi sono fatto ossessivamente leggendo questo libro ha un senso, a questo punto: di cosa parliamo quando parliamo di democrazia?