L’amico Buck. Racconto di Natale
Si prepara un divorzio, si discutono i preliminari da un avvocato. Lo studio racchiude in molti faldoni e carte ben ordinate migliaia di liti. Sempre tra parenti: fratelli, sorelle, cognati, ma soprattutto mogli e mariti. Ogni foglio un rancore. Le feste incombenti si notano in due grandi buste di carta piene di regali. Forse l’avvocato è felicemente sposato, e ride dei suoi affannati clienti. Forse anche la sua segretaria è sposata e madre felice. Si dicono poche cose essenziali. Atmosfera fredda, trattenuta, sguardi e non detti acuminati tra i separandi. Lo sguardo dell’avvocato non nasconde una noia profonda. Dice e ripete tre volte: “Di questo si parlerà l’anno nuovo.” Alla fine il cliente se ne va senza dare la mano alla moglie, ma poco dopo i due si ritrovano in strada, le loro automobili, per caso, sono posteggiate una di fronte all’altra. Lui fa manovra con prepotenza, per primo. Lei esce più piano, fissando la targa del marito che si allontana, e trascurando lo specchietto. Che l’avrebbe avvisata di una sgradevole visita: un grosso furgone sovraccarico di scritte, di quelli che hanno sempre fretta. L’urto è inevitabile. Lei non ha messo la cintura di sicurezza e va a sbattere il viso sul vetro della macchina. Il marito vede tutto dallo specchietto, e per un attimo rallenta. Lei lo guarda toccandosi spaventata il viso, lui accelera e si allontana a grande velocità.
Una firma davanti al giudice e non la vedrò più, sta pensando lui. È nervoso, euforico addirittura, va troppo forte e lo sa. Ma la strada sembra invitarlo all’avventura, si offre infinita davanti a lui. Sarà questa la libertà? si chiede. Una strada infinita davanti a te?
Chilometro dopo chilometro il passato si allontana e diventa indolore. La strada è una grande terapia. Va avanti per centinaia di chilometri, è quasi sera quando fa il pieno. I benzinai parlano tra loro un dialetto incomprensibile. Il passato è passato. Non se ne vede più traccia nel suo viso. Dà anche una piccola mancia per il lavaggio del parabrezza e dei fari.
“Più avanti c’è un autovelox micidiale” gli dice il benzinaio.
“Grazie” risponde lui.
Per ringraziare ancora decide di prendere nella casupola il caffè che sognava da ore. Non può essere buono, qui, sono dei poveracci, pensa.
E invece il caffè è buono, anzi eccellente. Il barista è vestito da meccanico, forse cambia anche l’olio delle macchine. Succede in provincia, lontano dal mondo. Le cose si semplificano.
La sera scende come una strana pace, il vento freddo riempie la pianura, uno stormo di uccelli neri si allontana lentamente verso sud. C’è una strana pace. Dietro le colline brulle la linea azzurra del mare
“Cerchi da dormire?” chiede il barista.
“Sì” ammette lui.
E si ritrova in una piccola casa immersa in un giardino selvaggio. Piante grasse alte come uomini, che levano le loro braccia verso il cielo azzurro scuro pieno di stelle. La luna è già alta. Il vento giunge a ondate come l’acqua del mare e le vecchie finestre lo trattengono solo in parte. Un sibilo simile a un fischio. Accende il telefono e scorre i messaggi di auguri senza aprirli, quelli del suo socio li cancella rabbioso. Non si è orfani a cinquant’anni, ma lui si considera orfano da quando ha perso i suoi genitori, che erano “brave persone”. Pensa senza agitarsi: non ho più nessuno su questa terra. Inutile pensare al resto, perché in fondo non c’è resto. La sua mente funziona abbastanza bene. È un vecchio bisturi, quando lavora e forse sempre. Più precisa di un chirurgo. Ci è voluta una vita per farla diventare così. L’immagine del taglio gli ricorda il divorzio imminente. Le discussioni. L’avvocato con i pacchetti regalo per moglie e figli. Una sensazione sgradevole gli sale dallo stomaco alla gola, qualcosa di luttuoso, o di violento, non riesce a capirlo. Ma subito il bisturi: divorzi, liti, pugni, roba da impiegati! Il pensiero chirurgico non è però sufficiente e gli basta guardarsi nel vecchio specchio con cornice di plastica e neon annesso per schizzare fuori dalla casetta. Perché si tratta di una casa molto piccola. Troppo piccola. Alzandosi sulle punte può toccare le vecchie travi. Anziché prendere la macchina si avvia a passi marziali verso il paese, a poche centinaia di metri. Se cammina si sente meglio. Una strada mai percorsa, facce nuove, un paio di vecchi con tanto di bastone che si trova a dover sorpassare, sorridendo chissà perché a entrambi. Il suo sorriso significa: presto sarò come voi, lasciatemi galoppare ancora qualche anno. Raggiunto il centro, raccolto attorno a una piazzetta rotonda, acquista qualcosa in tutti e quattro i negozi aperti, decorati per le feste con pochi straccetti colorati. Spazzolino, dentifricio, una grossa borsa da ginnastica, un pigiama a righe del secolo scorso, due camicie leggermente inamidate a righe sottili, un golf, e l’essenziale biancheria intima, anch’essa proveniente dal profondo passato: calzettoni a righe rosse e blu e buffe mutande identiche a quelle che usava suo padre. Dal tabaccaio acquista anche un libro, uno qualsiasi. Trova gradevole l’accento delle anziane negozianti. Credeva di essere in Puglia e invece si trova in Basilicata, quasi in Calabria. Se cammina, se acquista, non ricorda niente del passato. La sua mente è forte ma ha bisogno del corpo, che deve essere attivo. C’è anche una trattoria, nel paese, così si ferma a mangiare. È il primo cliente, i cinque tavoli con tovaglia di carta sono vuoti. Una signora sorridente e gentile lo accoglie e lo fa sedere dicendogli anche “benvenuto”. La cena è buona, la stanza ben riscaldata. A un certo punto un grosso cane lupo con folta pelliccia invernale fa capolino dal bancone di legno e lo guarda. Poi guarda la sua borsa. È curioso, per nulla aggressivo. La signora lo vede e gli fa un suono di rimprovero col naso e lui scompare. “Lo sa che non deve entrare” spiega al suo avventore, “si chiama Buck”. Dopo cena si ritrova davanti al locale con Buck. “Ciao Buck, io mi chiamo Antonio” gli dice. Il cane si siede e lo guarda inclinando leggermente il capo, come per inquadrarlo meglio. È la borsa, che lo rende perplesso. Lui se ne accorge e la apre. “Guarda, solo due scemenze…”. Buck si china leggermente e annusa una camicia. Ora sembra più tranquillo. La porta si apre e esce il benzinaio, che si scopre essere fratello della cuoca. Parlano del cane, dicono che è intelligente più di tante persone. Il cane sembra capire che parlano di lui e a un certo punto emette uno strano guaito. “Vorrebbe parlare” dice la cuoca. “Però gli piacciono i polli” dice il fratello per riportarlo alla sua animalità. Parlano del più e del meno e quasi senza pensarci Antonio si trova prenotato per la cena della vigilia del giorno dopo. Una pazzia! Ma è una pazzia buona, ne sorride mentre si avvia verso casa. Perché no? Gente simpatica. Un bel cane. E mentre lo pensa se lo trova davanti. Elegante, dopo una leggera corsa adesso trotterella giusto un paio di metri davanti a lui. Che Antonio rallenti o acceleri la distanza tra loro resta la stessa. Superata l’ultima casa del borgo il cane sale sul gradino di una casa demolita e si siede. “Ti fermi qui Buck?” Il cane risponde con una sorta di sorriso. Senza neppure rendersene conto sta accarezzando la grande testa di Buck, che a un certo punto tira indietro le orecchie e si scuote. Dopo un lungo sbadiglio si alza e ritorna trotterellando verso casa. Soltanto prima della curva si volta un istante a guardare la nuova conoscenza, che attraversa la strada con la sua borsa da ginnastica.
Si rivedono il tardo pomeriggio del giorno dopo. Antonio arriva un po’ in anticipo per la cena e Buck lo riconosce da lontano. Si salutano come vecchi amici. “Che magnifico cane” continua a ripetere Antonio accarezzandogli il testone peloso come un tappeto. La solitudine della notte non gli ha giovato, ha passato ore difficili. Avvolto in due coperte per combattere il freddo appena addolcito dalle pompe di calore. Il letto scricchiolante. Costretto a leggere per intero un libro stupidissimo pur di non pensare, al freddo e “al resto”. Forse a causa del suo antico amore per la geometria si era sentito vicinissimo a una minacciosa linea retta, quasi in bilico. Oltre la linea c’era un baratro e poteva caderci dentro in un istante. Ha atteso con ansia l’ora di cena e finalmente è arrivata.
Il suo tavolo è nell’angolo in fondo, accanto a una piccola candela c’è un fiore secco colorato come decorazione natalizia. Anche gli altri tavoli sono occupati. Il più vicino da una famigliola tedesca, una coppia di mezza età con due figlie. La più grande delle due di circa sedici, diciotto anni, l’altra ancora bambina. Tutti biondi. Parlano piano, non si sente neanche una parola. Gli altri, tre famiglie di paese, sono più chiassosi. Nonostante il prezzo fisso molto contenuto dalla cucina giungono piatti succulenti e abbondanti, e Antonio si scopre affamato. Al mattino ha fatto colazione con caffè solubile e una brioche in busta di plastica. Ha fame, una fame rabbiosa, e ogni piatto gli stuzzica nuovi appetiti. Sapori antichi, quelli dei pranzi dalle vecchie zie. Ogni volta accetta un bis. Mangia anche i dolci. Alla fine beve una grappa, poi ne beve un’altra. Il benzinaio, che mangia in cucina con una signora, forse sua moglie, lo raggiunge ogni tanto per incoraggiarlo a mangiare perché è festa e si può mangiare e bere quanto si vuole. “Guidare non deve guidare!” è il concetto più ribadito. E ripete diverse volte “io sono ignorante!” come per dirgli: so che sei una persona importante che si è fermata qui per caso. Si fa mezzanotte e sono tutti allegri, anche i tedeschi, rossi di vino e risate, ma sempre molto controllati. Suonano le campane della piccola chiesa. La ragazza tedesca lo guarda: gli dà il fianco sinistro e deve voltarsi leggermente per puntarlo con i suoi occhi azzurri che rispecchiano la fiammella della candela. Forse lo guarda incuriosita perché è l’unico senza compagni di tavolo. Ora si alzano e indossano cappotti e piumini, anche altri se ne stanno andando. Lo salutano tutti, la ragazza tedesca gli sorride e lo guarda bene da vicino strizzando gli occhi. Forse è un po’ miope. Ma è bellissima, radiosa addirittura. Per qualche motivo l’ha trovato interessante e naturalmente gli fa piacere. Escono tutti, il vento freddo fa irruzione tra i tavoli e anche lui infila il giaccone. Esce e si concede una sigaretta anche se ha smesso di fumare. I figli del benzinaio vivono a Nottingham, è questo il suo primo pensiero espirando una grande boccata di fumo che viene portata via dal vento. Gli sembra curioso collegare Nottingham a quel paesino. Poi pensa ai tanti petrali ingurgitati, pieni di canditi e fichi secchi e chissà che altro, dopo la torta di crema, con il vino cotto. E le melanzane, e il resto, il resto… La grande automobile dei tedeschi passa davanti alla trattoria, lo salutano ancora e lui risponde agitando la sigaretta come un vessillo. Si sente stupido. Se va a letto con quella cena nello stomaco vomiterà e starà male tutta la notte. Deve camminare, e molto. Ma dove? Non può starsene immobile in mezzo alla strada con una cicca da buttare che però lancia ancora scintille al vento. È completamente padrone del suo destino, pensa, così come è padrone della sua piccola azienda. Non deve rendere conto a nessuno. Si inchioda su questa parola, “nessuno”, e la bisbiglia in punta di labbra più di una volta. Ha la pancia gonfia, si sente pieno di odori sgradevoli, se non cammina molto vomiterà. Ma c’è il vento, non c’è una direzione. Poco più avanti nota una scala di vecchie traversine ferroviarie. Più in alto si intravede un giardino circondato da alberi nudi. Finalmente si decide e comincia a salire. All’altezza dei giochi arrugginiti per bambini percepisce un suono che non è il vento. Un respiro. È Buck. Che lo sorpassa e ora lo precede di un paio di metri. Punta dritto verso un boschetto che copre una ripida collina. C’è un viottolo di terra battuta, dev’essere una passeggiata frequentata. Buck sprofonda nell’ombra senza esitare, riesce appena a vederlo. Al centro il viottolo è gonfio di sassi e devono camminare sui bordi di terra. Ogni tanto Antonio accende la pila del telefono e ogni volta Buck si ferma e lo guarda, e i suoi occhi brillano puntati su di lui. Buck non sta facendo una passeggiata, lo sta proteggendo. Se non lo guarda lo ascolta, se si ferma si blocca anche lui e si gira a guardarlo. Lo fissa esattamente negli occhi. Dopo un’ora di salita non ha più freddo, farebbe anche a meno del giaccone. Soltanto adesso il suo stomaco gli manda qualche segnale di pace. Ha mangiato almeno dieci piatti di cibi pazzeschi, deve camminare ancora e ancora. Forse tutta la notte. Meglio che passarla nel bagno di plastica della casetta. La salita è sempre più ripida e deve accendere spesso la torcia per districarsi tra grandi pietre tondeggianti. Vedendolo sempre più stanco il cane sembra preoccupato quando lo aspetta scrutandolo. Buck non è affatto stanco, vederlo così tonico tranquillizza il suo amico umano, che peraltro gioisce della spossatezza, utile per la pancia e per la mente. Camminare, camminare ancora e ancora, così si incita borbottando tra sé. Gli fanno male i polpacci, ma può continuare a salire. Le sue pause si fanno sempre più frequenti ma durano pochi minuti. Così si tengono a bada pensieri inutili e disgustosi conati di vomito. Salgono ancora e gli alberi si fanno rari, minuscoli, quasi tutti piegati dal vento. Appare una grande radura erbosa, davanti a loro, ipnotica nel suo ondeggiare, Buck si concede una breve corsa saltando più del necessario e quando si ferma per guardarlo sembra si aspetti da lui qualcosa di simile.
“Non posso giocare con te, Buck…” si giustifica lui riprendendo a camminare, “sono troppo stanco, mi fanno male le gambe.”
È così stanco che non riesce più a ricordare perché ha camminato tanto.
Buck si avvicina e si lascia accarezzare, sembra che sorrida.
“Sei un cane magnifico” gli dice avvicinandosi al suo grande orecchio. “Il più bravo del mondo! Perché non vieni via con me? Ti tratterei come un principe…” Ha il fiatone, non riesce quasi a parlare. Dove diavolo pensava di andare con quel passo affannato? Ha corso perché ha mangiato e bevuto troppo. E il giorno prima ha corso perché voleva dare un taglio netto al passato. Netto, senza voltarsi. Per dimenticare, la cena, il passato, tutto.
Camminano finché la collina non torna a farsi ripida e pietrosa. Impossibile scendere quel lato, meglio fermarsi e riposare un po’. Si siede su una grande pietra bianca di luna e guarda il mare laggiù. Si vedono anche le luci di un gruppo di case diviso in due dalla strada. Non passa nessuno. Dormono tutti. Notte fonda. Capisce che la sua fuga è finita. Chiude gli occhi un istante e come in una frana gli rotolano addosso uno dopo l’altro i momenti felici che ha vissuto con sua moglie, la gioia per la casa dei loro sogni, i viaggi, il suo modo garbato di dormire, composto, sempre sullo stesso fianco. Siamo stati bene, ammette, abbiamo riso tanto. All’improvviso sente due lacrime bruciargli negli occhi, e ora scendono, calde, lungo le guance. Una gli finisce in bocca. Non sentiva da decenni quel sapore salmastro. Poi ne scendono altre, sempre più grandi, lungo la stessa strada. Ci sono minuscole luci anche sul mare, le vede appena attraverso le lacrime. Pescano, laggiù, lui è seduto su una pietra e piange. È stanco e piange così tanto che si sente buffo, come se fosse tornato bambino.
Buck è seduto accanto a lui, chissà da quanto tempo, e guarda lontano, verso il mare, con elegante discrezione.
In copertina Woof Woof Dog Stripes, opera di Andy Shaw.