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Parte il Giro / I novant'anni in maglia rosa
Il rosa è il colore del Giro d’Italia. Ma non da sempre. Passarono ventidue anni e diciannove edizioni prima che un fiocco, per l’appunto, rosa tenesse a battesimo la maglia rosa.
È il 10 maggio 1931 quando al termine della prima tappa, la Milano-Mantova, il primo a tagliare il traguardo indossava sul palco la maglia rosa, che da quel giorno avrebbe contraddistinto il primo in classifica generale. A vestire quell’inedito simbolo del primato fu guarda caso un campione mantovano, un campione emergente sulla scena ciclistica nazionale e, di lì a poco, anche internazionale: Learco Guerra.
Erano gli anni in cui il ciclismo italiano aveva un solo dominatore, anzi, una specie di tiranno. Da cinque anni vinceva sempre, o quasi sempre, Alfredo Binda, un ex stuccatore varesino che aveva trovato la strada del successo dopo essere emigrato in Francia e aver esordito, per passatempo, nelle corse per dilettanti in Costa Azzurra. Ci volle poco per capire che il Binda la sua fortuna l’avrebbe fatta stringendo un manubrio e spingendo sui pedali e non con pennelli e trabattelli a pitturare i soffitti di qualche villa di Antibes o Nizza. Tornato a correre in Italia, rapidamente sbaragliò la concorrenza e in particolare quella del Campionissimo, il “vecchio” Costante Girardengo, protagonista dei primi anni del dopoguerra. Binda trionfava con facilità disarmante nelle classiche di un giorno, dal Giro di Lombardia alla Milano-Sanremo, passando per la prima edizione del Campionato mondiale su strada del 1927, ma soprattutto non aveva rivali nel Giro d’Italia. Nel quinquennio tra il 1925 e il 1929 ne vinse ben quattro, facendo incetta di tappe e, di conseguenza, di premi. E mortificando quasi tutti gli avversari.
Nel 1930 gli organizzatori del Giro, preoccupati per quell’assoluta egemonia che stava togliendo interesse alla competizione, gli offrirono il premio del vincitore, 22.500 lire, purché non prendesse il via. Binda, ovviamente, accettò.
Scriveva Mario Fossati, il più lucido e documentato dei cantori del ciclismo: «Binda era un campionissimo che incantava i raffinati. Non era un freddo, un ingrato, un avaro come i fans di Girardengo sostenevano… Certo, con lo stile superiore delle sue imprese sapeva convincere i tecnici; certo, diceva una parola nuova; certo, mascherava lo sforzo con tanta eleganza da portare il primo pubblico femminile al ciclismo. Ma la corsa rimaneva sempre dentro di lui. Poi arrivò Guerra. Un volto aperto, i capelli nerissimi, la risata pronta, la generosità oltre ogni limite. Guerra osa perché non tramonta mai l’ora di osare. Osa per il bel gesto in sé».
Per far tornare a vibrare i tifosi del ciclismo, che vivono e si appassionano ai più accesi dualismi, Learco Guerra era quello che ci voleva. Ed era quello che, in fondo, voleva anche il regime che mirava a fondare sulla passione sportiva buona parte del suo consenso popolare.
Rispetto ad altre discipline, nella mitografia fascista della nazione che ambiva a modernizzarsi, a velocizzarsi, a librarsi nei cieli di una nuova gloria patria, il ciclismo era visto in modo un po’ sospetto: troppo arcaico, contadino, troppo abbruttito dallo sforzo massacrante della fatica impolverata o fangosa delle strade. Si sarebbe potuto salvare solo se avesse espresso una potenza muscolare che lo avvicinasse a un dinamismo rombante e futurista.
Binda non era nulla di tutto questo: freddo, razionale, calcolatore non incendiava l’entusiasmo dei tifosi. Al contrario, Learco Guerra, il nuovo campione, fin dal nome esprimeva quella baldanza aggressiva, quella generosità di gesti e azioni compiute per esaltare il connubio tra il muscolo e la macchina che sarebbe stata condensata nel soprannome che l’immaginifico mondo della cronaca ciclistica gli assegnò al suo apparire: la Locomotiva umana.
Il colore rosa fu scelto dalla “Gazzetta dello Sport”, in omaggio al colore sul quale, dal 1899, a soli tre anni della sua fondazione (1896) il quotidiano sportivo milanese veniva stampato. Il modello era quello del Tour de France che aveva adottato una maglia gialla, a contrassegnare il primo in classifica, fin dal 1919 (gialla, appunto, come il giornale “L’Auto”, che organizzava la corsa francese). Non era propriamente un colore che, nell’immaginario popolare, esaltasse le imprese dei “forzati della strada”, né tanto meno corrispondesse alla virile idealizzazione eroica dei campioni dello sport da parte del fascismo. Ma si provvide ben presto a fascistizzare la maglia apponendole ricamato al centro del petto un fascio littorio. Da novant’anni a questa parte le maglie di lana grossa e spessa hanno cambiato decine di volte forma e anche tonalità di colore: dal tenue rosa antico alle sfolgoranti e tecnicissime tenute acriliche simil-fucsia degli ultimi anni. Soprattutto dalla tinta unita delle origini al caleidoscopio di inserti di colori e scritte dettate dal mondo della sponsorizzazione sportiva.
Nella storia del Giro d’Italia il più grande collezionista di “maglie rosa”, ovvero il corridore che ha indossato più volte il rosa, in quanto leader della classifica generale della corsa, è stato Eddy Merckx, in rosa in 78 occasioni. Del resto il Cannibale – così era chiamato Merckx dagli avversari per la sua famelicità di vittorie – detiene, in coabitazione proprio con Alfredo Binda e con Fausto Coppi, il record di Giri d’Italia vinti: 5. Spesso tuttavia il numero di maglie rosa indossate durante la corsa non corrisponde al numero dei successi finali: ne è la dimostrazione un altro grande campione, come Francesco Moser, che si è vestito di rosa sul podio per ben 50 volte, ma che, nella sua lunga carriera, ha conquistato la vittoria finale al Giro solamente in un’occasione, nel 1984.
A Merckx spetta un altro primato: quello di avere indossato la maglia rosa dalla prima all’ultima tappa al Giro del 1973, imitato da Gianni Bugno nell’edizione del 1990 (a dire il vero anche Girardengo, nel 1919, e Binda, nel 1927, dominarono la corsa per tutte le tappe, ma in edizioni in cui il “rosa” non era stato ancora propriamente inaugurato).
Al contrario, la scorsa edizione, quella del 2020, ha fatto registrare l’inedita particolarità di un vincitore finale, il britannico dal nome gaelico Tao Geoghegan Hart, che non ha mai indossato la maglia rosa durante la corsa, ma soltanto nella tappa conclusiva, e decisiva per la classifica.
La maglia rosa ha assunto negli anni un valore simbolico così pervasivo da estendere il suo cromatismo all’intero Giro che viene denominato “la Corsa rosa”.
Sfide sconfinate. Lo sport che cambia il mondo è un progetto del Polo del '900 coordinato dall'Unione culturale Franco Antonicelli che si propone di riflettere sul cambiamento sociale nel Novecento e nella contemporaneità attraverso il fenomeno sportivo. Il progetto si svolgerà con una serie di appuntamenti pubblici a Torino e online per tutto il 2021. Sul canale YouTube del Polo del '900 è disponibile il video dell'incontro In un secolo di Giro... 90 anni di Maglia Rosa, realizzato in collaborazione con Museo del ciclismo del Ghisallo e Museo AcdB della bicicletta di Alessandria, gemellati nel progetto Archivio Digitale che ha presentato una mostra virtuale per i 90 anni della Maglia Rosa. Il prossimo appuntamento, previsto per il 21 maggio, sarà dedicato invece ai rapporti tra mondo dello sport contemporaneo e contrasto alle discriminazioni di genere e razziali.