Napoli: romanzo di uno scudetto

10 Giugno 2023

Se il libro di cui qui si scrive avesse alla fine un indice dei nomi – secondo me tutti i libri dovrebbero avere un indice dei nomi, possibilmente anche i romanzi –, alla lettera B, per esempio, si vedrebbero sfilare in ordine alfabetico Baggio, Roberto; Bagni, Salvatore; Barthelme, Donald; Benedetti, Mario; Benitez, Rafa; Bolaño, Roberto; Brodskij, Josip; Brown, Jericho; Bruscolotti, Giuseppe e Burruchaga, Jorge. Alla D, si allineerebbero diligentemente De Angelis, Milo; De Laurentiis, Aurelio; Del Giudice, Daniele; De Lillo, Don; Di Lorenzo, Giovanni. Sotto altre lettere si potrebbero scovare altri accoppiamenti, più o meno giudiziosi: alla O, Onetti, Juan Carlos e Osimhen, Victor; alla P, Paley Grace e Politano, Matteo; fino alla M, dove Malamud, Bernard sta fianco a fianco di Maradona, Diego Armando.

Basterebbe questo a far capire a un lettore non distratto che il libro che ha per le mani, e che risponde al titolo di Il Napoli e la terza stagione (66thand2nd, p. 160) – titolo che nella parte alta della copertina campeggia in azzurro su fondo bianco, mentre dalla parte inferiore, azzurra, si stagliano le sagome di due calciatori della Società Sportiva Calcio Napoli, abbracciati nell’esultare per un gol appena segnato – è una per nulla convenzionale narrazione del campionato di serie A conquistato dai partenopei. Trentatré anni dopo, il Napoli torna a vincere uno scudetto, il terzo della sua storia calcistica iniziata poco meno di cent’anni fa, nel 1926.

Se all’indice dei nomi di persona si aggiungesse poi anche un altrettanto lodevole indice dei luoghi, di questo libro si apprezzerebbe la legittima, e auspicata, funzione di guida sentimentale alla città di Napoli, e alla sua confessione pedatoria di stretta osservanza maradoniana. L’indice seguirebbe il filo che cuce una trama di presenze e assenze, da Fuorigrotta, Stadio Diego Armando Maradona – già San Paolo – a via Emanuele De Deo, ai Quartieri Spagnoli, dove c’è il più famoso, e forse più antico – è del 1990, proprio l’anno del secondo scudetto – dei murales che la città ha dedicato al Pibe de oro; da Mergellina al Vomero, da Materdei al Duomo, fino a perdersi nei recessi sotterranei su cui poggia la città dal Cimitero delle Fontanelle, al rione Sanità, per poi riemergere a sorpresa al cospetto del Cristo Velato nella Cappella Sansevero, luogo nato dalla sulfurea immaginazione del principe Raimondo di Sangro, esoterista, alchimista, anatomista e, anche lui, come Diego, ma due secoli e mezzo prima, inventore di dimensioni impossibili.

Secondo me ci starebbe bene pure un terzo indice, analitico e tematico, così da poter scandagliare i livelli meno espliciti ma non per questo meno originali del libro. Ad esempio, alle pagine 47-49, si potrebbe indicizzare il tema “malinconia”, e in particolare il valore sentimentale che assume la malinconia nella militanza del tifoso partenopeo. A innescare l’argomentazione è la cessione al Chelsea, durante l’estate del 2022, del forte giocatore senegalese Kalidou Koulibaly, per ben otto stagioni colonna della difesa napoletana, che così viene commentata: «Altre cose che resteranno di Kalidou, sono tante e più di quelle che mancheranno, fanno parte della sfera malinconica, della nostra intimità di tifosi del Napoli e di appassionati del gioco, di chi conosce le regole e le supera, le adatta al fisico, al tempo, allo spazio. La malinconia è il vestito di Napoli e dei tifosi azzurri, è lo sguardo di Koulibaly che saluta e ringrazia commosso».  O ancora, alle pagine 61-62, viene introdotta una riflessione sull’inganno nel calcio, ovvero il dribbling, attraverso l’interpretazione di una dichiarazione di Diego Maradona in un’intervista rilasciata a Gianni Minà: «Io invece penso che, nel calcio, il dribbling serva solo in campo: la prodezza è far finta di andare a destra e schizzare invece sulla sinistra. Questo è l’unico inganno accettabile per i tifosi». Ma l’inganno sul campo da calcio è efficace solo se combinato con la sua rapidità di esecuzione, destinato a farsi pensiero che anticipa il tempo, che “pre-vede” il futuro, «come unico orizzonte cui il fuoriclasse può guardare». Il tutto serve all’autore per introdurre il ritratto di uno dei giocatori più sorprendenti, e decisivi, della stagione di conquista del Napoli: l’attaccante georgiano Kvicha Kvaratskhelia, nome di cui, soltanto dodici mesi fa, nessuno avrebbe forse pronosticato un futuro così dribblante e radioso.

Ma è anche arrivato il momento di dire, giustappunto, il nome dell’autore del libro di cui stiamo scrivendo. A inizio anno, quando il campionato di serie A aveva appena ripreso il suo corso, dopo la lunga e inconsueta interruzione invernale imposta dai Mondiali in Qatar, e la squadra allenata da Luciano Spalletti aveva ormai notevolmente distaccato in classifica le più dirette avversarie, la casa editrice 66thand2nd ha pensato di celebrare la probabilissima vittoria degli azzurri partenopei con un libro della collana di narrazione sportiva Vite inattese, da far uscire a fine del campionato. Nella scuderia degli autori del marchio romano scelta migliore non poteva cadere che su Gianni Montieri, che aveva firmato un paio di anni fa la biografia di Andrés Iniesta intitolata Come una danza

Gianni Montieri è napoletano, per la precisione di Giugliano, tifa Napoli, scrive poesie – bellissima la sua ultima raccolta Ampi margini, pubblicata dal piccolo editore barese LiberAria – e da anni scrive di calcio reinventando un nuovo codice letterario. Non il registro epico-romanzesco della narrazione del gesto atletico, e neppure l’indagine biografica e ambientale dei fatti agonistici; neanche il passo cronistico-analitico degli accadimenti tecnici, sostenuto da dati storico-statistici. La cifra della scrittura calcistica di Montieri è, come forse si è capito dalla disseminata presenza di riferimenti a letture poetiche e narrative, la capacità di sintonizzare lo specifico tecnico di una partita di calcio, o del suo contesto semantico – i ritratti dei protagonisti, calciatori, allenatori, dirigenti, e le loro interazioni con la stampa e con i tifosi – con le pagine di romanzi o un racconto o con i versi di decine e decine di poesie. Ed è come se la sovraesposta, estenuata e impoverita lingua del “parlare di calcio”, scritta e ancor di più parlata, trovasse nella scrittura di Montieri una nuova, insospettata forza di espressione e di immagini. 

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È in particolare dalla poesia, di cui è acuto lettore e interprete in prima persona, che Gianni Montieri attinge per ridare forza alle descrizioni degli accadimenti in campo. A proposito della perfetta armonizzazione dei movimenti collettivi del centrocampo del Napoli, Montieri cita i versi del poeta americano Ron Padgett: «Ma ciò che veramente danza / non si sa né/ c’è bisogno che si sappia / danza intorno a noi / e non si muove nulla» e allo stesso modo «quel che veramente danza nel gioco del Napoli […] non si sa e non c’è bisogno che si sappia, è una sorta di mistero nascosto di cui noi vediamo soltanto la superficie, l’evidenza perfetta». O ancora, due versi di una poesia di Giovanni Giudici («Essenziale rimanere duri / salvare la gentilezza») servono da chiave descrittiva di un micidiale contropiede innescato dai piedi di due centrocampisti napoletani, Anguissa e Zieliński, in un Napoli-Ajax: «Il gol del Napoli di quella sera risponde (nel mio immaginario) all’esortazione del poeta: durezza (integrità) e gentilezza. L’integrità viene dal rispetto degli schemi pensati da Spalletti e dall’aggressività sui calciatori olandesi, dalla lucidità di guardare al momento successivo, ovvero di immaginare (e sapere in parte) dove un compagno andrà, assecondando un movimento studiato e il talento e l’istinto. La gentilezza viene dal momento in cui la palla si stacca dal piede di Anguissa e rotola verso Zieliński e, da quell’attimo, asseconda la sua corsa, che solo corsa non è». 

Ma il vero esperimento di ermeneutica poetica di un accadimento calcistico viene messo in atto da Montieri in queste pagine quando sulla falsariga dei versi di una poesia di Mark Strand, C’è qualcosa nell’aria, vengono lette e “spiegate” due partite che il Napoli ha giocato contro la medesima avversaria, la Roma, a distanza di nove mesi: l’1-1 dell’aprile 2022, nella precedente stagione, e il 2-1 del gennaio 2023. Nel mezzo, un'altra dimostrazione di quanto possa accadere che letteratura e calcio abbiano interpreti dalle caratteristiche molto simili: «La grande poesia crea un immaginario, si posa dove gli altri non riescono, è farfalla laddove intorno ci sono soltanto vecchi elefanti, apre finestre dove tutti, e perciò anche gli appassionati di calcio, vedono muri. La grande poesia fa quello che fanno i grandi centrocampisti, i migliori attaccanti, i fuoriclasse, vede una possibilità dove gli altri non vedono niente. Mark Strand sarebbe un numero dieci o un attaccante versatile, ma siamo più precisi: sarebbe uno Zidane, un Pirlo, un Iniesta, sarebbe un Kvaratskhelia».

Montieri è capace di cogliere attimi, istanti di gioco analoghi alle svolte che accendono, o fanno cambiare passo a una narrazione: un incredibile gol di un mai dimenticato campione del Napoli degli anni passati, l’olandese Dries Mertens – quello messo a segno in un Genoa-Napoli del 2017 – gli fa venire in mente quello che David Foster Wallace dice dei racconti di Donald Barthelme, inventore di un «mondo surreale e perfetto in cui accadono cose cui normalmente non penseremmo ma, che grazie alla scrittura perfetta, ci sembrano le sole possibili, sensate. Il gol di Mertens è un click, è ciò che trasforma una buona partita in qualcosa da ricordare per sempre». Oppure, in occasione delle prime partite del campionato del Napoli, quando ancora a settembre la stagione è agli albori, ma nel gioco della squadra di Spalletti si intravedono quei bagliori di meraviglia che la renderanno preziosa e unica, ecco che dallo scaffale della sua biblioteca immaginativa Montieri estrae l’incipit di un racconto di Dave Eggers, Conoscere la nostra velocità: «Era una giornata limpida e azzurra come due occhi, proprio come il primo giorno di questa storia».

Ma non vorrei aver allarmato gli appassionati di narrativa calcistica. Gianni Montieri racconta con dovizia di analisi e di particolari, fortunatamente mai in maniera sbrigativa e convenzionale, del campionato del Napoli in una sorta di diario continuo che non risparmia tuttavia digressioni e flash-back, come l’incredibile gol di Maradona su punizione dentro l’area, ascoltato alla radio, di un Napoli-Juventus della piovosissima domenica 3 novembre 1985; o le partite viste a San Siro negli anni Novanta, nella precedente vita milanese dell’autore. Un diario della stagione inframmezzato da scampoli di ordinaria trepidazione tifosa, come il magistrale pezzo in cui Montieri va a parlare con Maradona davanti al murale di via De Deo, che sembra uscire da una commedia del grande Eduardo o da un dialogo di un film di Troisi.

Voglio però provare a chiudere questa recensione tornando a quello che, a mio avviso, è il principale reagente di questa felice sperimentazione di letteratura calcistica, ovvero l’ibridazione dell’immaginario “pallonaro” grazie all’innesto della parola e delle immagini poetiche. Lo faccio parafrasando i versi finali di una poesia di Giovanni Giudici, ispirata proprio al football, Viani e la sociologia del calcio; una parafrasi che, per rendere merito allo specifico della scrittura di Montieri che nasce da un’occasione ma che ha il passo e il respiro di una prova di lunga durata, capovolge, cancellandola, la negatività del dettato originale di Giudici: «Tutto questo parlare di calcio / per non parlare d’altro / – tutto questo per non guardare / l’essenziale del mondo».       

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