Il ciclismo esagerato di Pogačar e Evenepoel
Tra vent’anni qualcuno racconterà ai nipoti di quando le corse di ciclismo, da marzo a ottobre, dalla Cipressa al Cauberg, dalla foresta di Arenberg al monte Zoncolan, dal Galibier alla colma di Sormano, dall’Oude Kvaremont all’alto de l’Angliru, erano pirotecnici giochi di bengala e fontane, stelline e petardi, mortaretti e girandole, mitraglie, razzi e candele e di quando gli artificieri si chiamavano Tadej Pogacar, Jonas Vingegaard, Remco Evenepoel, Mathieu van der Poel, Wout Van Aert… E di quando al Lunapark senza biglietteria del Grande ciclismo si faceva la coda accalcati alle transenne, appostati come indiani sul tornante più stretto, accampati da giorni nell’alpeggio del passo più alto.
Fortunatamente è questa la storia del ciclismo. Un nonno che racconta di Fausto Coppi e Gino Bartali, e insieme di Togliatti e la Dama Bianca; uno zio che si commuove al ricordo felice e inatteso di Felice Gimondi che batte l’imbattibile Eddy Merckx al Mondiale del Montjuich; e uno – che potrei anche essere io – che, la domenica pomeriggio del 2 agosto 1998, in un albergo sudtirolese che odorava di pino cirmolo, stava inginocchiato davanti al televisore e al cospetto di un omino piccolo e giallo che saliva sul gradino più alto del podio degli Champs Elysées.
Perché la cronaca, che diventa storia poi passa di bocca in bocca e la si chiama mito, si scrive di pagina in pagina e la si chiama leggenda.
Chi segue il ciclismo contemporaneo non ha dubbi ad ammettere che questa che stiamo ammirando sia una generazione di fenomeni. Chi invece ha dubbi li avrà sempre, perché preferisce immergere la realtà nella macerazione del sospetto e del facile sillogismo “vanno troppo forte quindi… deve esserci qualcosa che non torna”.
Il discorso sarebbe lungo e complicato da affrontare qui. Però, di fatto, da quando esiste lo sport, e soprattutto lo sport che si è fatto mestiere prima, e che da artigianato è diventato industria, e poi business entertainment, la cosiddetta “lotta contro il doping” assomiglia tanto al paradosso di Achille e la tartaruga. Ed è impensabile, oltre che abbastanza sciocco, ritenere che, in tutto questo grande show globale, il ciclismo possa essere il solo gabinetto del dottor Caligari.
E allora se, volenti o nolenti si accetta di essere parte in causa, anche soltanto come cultori o, purtroppo, “clienti” di tutto questo, non ci si può nascondere dietro il dito dell’ipocrisia della performance “a km 0”. Oltretutto, in particolare nel ciclismo, come dice la locuzione stessa, significherebbe non presentarsi neppure ai nastri partenza. I fuocherelli chimici che albergano nei motori dei forzati della strada – per usare l’espressione coniata da Albert Londres, grande reporter-suiveur in un Tour di cent’anni fa – vengono alimentati da sempre ricorrendo a quello che mette a disposizione la farmacopea del momento, ufficiale e no.
Dimenticando i forzati per tornare ai pirotecnici, domenica 21 luglio, non già nello scenario classico degli Champs Elysées parigini, ormai pronto a ospitare le Olimpiadi, ma in place Masséna, a Nizza, Tadej Pogačar aggiungeva il suo nome alla ridotta e rinomata compagnia di chi può vantare di aver vinto, nello stesso anno Giro d’Italia e Tour de France. L’ultimo a riuscirci era stato, poco meno di 26 anni prima, proprio l’omino piccolo e giallo, Marco Pantani. E prima ancora del Pirata erano soltanto in sei: il primo, Fausto Coppi, nel 1949, e poi ancora nel 1952; quindi Jacques Anquetil nel 1964; Eddy Merckx nel 1970 e, non sazio, nel 1972 e nel 1974; Bernard Hinault nel 1982 e nel 1985; e Stephen Roche nel 1987.
Ventisei anni è stato l’intervallo più lungo all’interno di questa speciale Hall of Fame dei vincitori delle due più importanti corse a tappe della storia. Nelle settimane che hanno ampiamente annunciato l’exploit del giovane campione sloveno – Pogačar ha indossato la maglia gialla fin dalla 4a tappa, la prima che giungeva in terra francese dopo il lungo, inedito preambolo italiano – non credo che a nessuno, neppure al più acceso tifoso del Pirata – non considero neppure i nazionalisti d’accatto, che sono spuntati come funghi soprattutto nelle appena trascorse settimane di Olimpiadi – , sia passata per la mente l’idea che sarebbe stato più contento se il nome di Pantani, dopo ventisei lunghi anni, rimanesse l’ultimo della compagnia.
Il ciclismo ha bisogno non solo di coltivare, ma anche di aggiornare i propri miti. E Pogi, e i suoi fratelli artificieri, sono qui per questo, per nostra fortuna.
Dal 2021 la Grande Boucle è una questione privata tra lo sloveno e il suo miglior “nemico”: il danese Jonas Vingegaard. Pogacar, a dire il vero, aveva vinto il suo primo Tour già l’anno prima, nell’edizione che si corse “in differita”, a settembre, a causa del Covid. Nella penultima tappa, la cronoscalata con arrivo a La Planche des Belles Filles, Tadej aveva infatti sorprendentemente sfilato la maglia gialla al connazionale Primoz Roglic. L’anno seguente a dargli filo da torcere nel suo bis, non trovò Roglic, partito con propositi di “vendetta”, ma il suo gregario, il danese Vingegaard. Che, in quell’occasione, gli prese le misure per batterlo l’anno successivo, nel 2022 e poi, ancora più nettamente, nel 2023. In questa edizione il “Re pescatore” – Jonas da ragazzino lavorava al mercato del pesce del suo villaggio, Hillerslev – diede una scoppola tremenda all’avversario all’arrivo di Courchevel. Quel giorno Pogi, che cominciava a diventare un po’ irritante per la facilità irridente con cui vinceva, diventò ai miei occhi più simpatico per motivi fondamentalmente personali, e forse anche poco critici. Il primo è che, di solito, preferisco parteggiare per chi sta dietro e deve provare a rimontare, garanzia di una corsa molto più appassionante di quando esiste un dominus incontrastato. Il secondo perché Tadej è uno dei migliori interpreti del ciclismo avventuroso e sconfinato di questi ultimi anni: di quelli – come Van Aert, Van der Poel, Evenepoel – che pronti via e suoniamocele di brutto. Invece Vingo il danese mi sembrava appartenesse a un’altra schiera, quella dei campioni calcolatori, per quella programmazione tutta incentrata sul Tour che mi ricordava gli anni noiosi e ragionieristici che anestetizzavano le grandi corse. Infine perché, a dire il vero, Pogačar mostrava qualche – mica tanti, eh – ma un po' di chili in più rispetto a Vingegaard, che era, ed è magro come il teschio di Yorick e diafano come Ofelia.
Il Tour del 2024 si presentava come una “bella” tra i duellanti. Se non che a inizio aprile, al Giro dei Paesi Baschi, il danese è stato vittima di una terribile caduta in discesa che a lungo ha messo in discussione l’intera stagione, se non addirittura la carriera. Alla partenza della Grande Boucle il suo stato di forma atletica destava molti dubbi, soprattutto rispetto a un Pogačar fresco vincitore, e a mani basse, del Giro. Insomma, i ruoli si sono un po’ ribaltati e la netta supremazia dello sloveno è stata, almeno fino a due terzi di corsa, condizionata dalla tenacia e dal coraggio di Vingo, che in questo ruolo di inseguitore ha trovato un’inedita dimensione di empatia con i tifosi. Alla fine il distacco finale in classifica tra primo e secondo (6’17’’, peraltro comunque inferiore al 7’29 che l’anno prima il danese aveva inflitto allo sloveno) dimostra la differenza delle forze in campo.
Nel gran finale a cronometro di Nizza, Tadej Pogačar vince con spavalderia. E, percorrendo a oltre 50 all’ora la Promenade des Anglais, con un gesto della mano in favore di telecamera indica il numero 3 a celebrare il suo terzo Tour de France. Se non fosse un bravo ed educato ragazzo sloveno avremmo potuto pensare che si stesse esibendo in una personale interpretazione dell'indimenticato Shane McGowan e omaggiasse l'originale significato dei suoi quasi omonimi The Pogues. Nome che è abbreviazione di Pogue Mahone, a sua volta anglicizzazione della poco gentile espressione gaelica Póg mo thóin: «Baciatemi il culo!».
Dietro a Pogačar e a Vingegaard, terzo in classifica generale al Tour, si piazza Remco Evenepoel, un altro dei The Goodfellas del ciclismo di questi anni. Pogi compie ventisei anni a settembre e Jonas ventotto a dicembre, mentre Remco ne ha compiuti ventiquattro a gennaio ed era alla sua prima partecipazione al Tour. Se lo sloveno può vantare un palmarès che, alla sua età, è inferiore (e non di molto) al solo Eddy Merckx, il belga è pure sulla buona strada, soprattutto se si considera la già cospicua collezione di maglie iridate di campione del mondo: in linea e a cronometro, a diciott’anni nella categoria juniores (2018), vince di nuovo il titolo mondiale in linea a Wollogong, in Australia, nel 2022, e quello a cronometro, a Edinburgo, nel 2023. Fino ad arrivare, pochi giorni fa, alla storica doppietta olimpica che tiene testa all’ultima impresa di Pogacar. Primo e unico per ora ciclista al mondo, dopo aver conquistato il 27 luglio la medaglia d’oro nella prova a cronometro, una settimana dopo, il 3 agosto, Evenepoel si è aggiudicato ancora l’oro nella corsa in linea che nel finale si snodava lungo lo spettacolare circuito cittadino del centro di Parigi, tra Montmartre e il Trocadero, fin sotto le “gambe aperte” della Tour Eiffel.
Remco è un bel nome. Ha la velocità un po' meccanica di qualcosa che scatta d'improvviso e, bam, non la vedi più se non all'arrivo. Non si capisce bene da dove il nome abbia origine: sicuramente è neerlandese, forse da Remme, una variante del germanico Raginmar o Radmar. Il significato dovrebbe avere a che fare con "decisione importante". C'è chi sostiene però che potrebbe avere la stessa etimologia di Remigio, che fu arcivescovo di Reims ai tempi di Clodoveo, re dei Franchi. In questo caso l'origine della parola rimanda al remo, e più in generale nel sapere condurre con abilità e sicurezza una barca.
Il 3 agosto scorso, negli ultimi giri della corsa olimpica, quando ha preso e se n’è andato a vincere in splendida solitudine, abbiamo visto tutti come Remco Evenepoel sappia "remare" forte sulla sua bicicletta e sappia prendere le decisioni importanti in corsa (oltre che a sacramentare col meccanico che non si sbriga col cambio bici davanti al Louvre e con il motociclista che non gli dice quanto vantaggio gli resta sugli inseguitori). Che cuore, Remco. Que Sacré-Coeur!