Pandemia e de-socializzazione / I poteri degli schermi
Tutti noi abbiamo fatto, stiamo facendo, esperienza della pandemia. E tutti noi, abbiamo fatto, stiamo facendo, esperienza di una sovraesposizione mediale. Domanda: vivere tra gli schermi, attraverso gli schermi, è una condizione di virtualizzazione preesistente alla pandemia, che la pandemia avrebbe meglio rivelato? È lungo questa dorsale che provo a leggere il recente volume I poteri degli schermi. Contributi italiani a un dibattito internazionale (a cura di M. Carbone, A.C. Dalmasso, J. Bodini; Mimesis 2020). Si tratta di un collettaneo con scritti di Carbone e di diversi collaboratori storici (Bodini, Dalmasso, Nijhuis) del suo gruppo Vivre parmi les écrans che da un decennio svolge intensa attività di ricerca su questi temi, così come di studiosi che in modi diversi hanno dato negli anni contributi rilevanti: Montani, Casetti, Pinotti, Gallese e Guerra, ma anche Cometa, Borradori, Lingua, Eugeni, Carocci, Avezzù.
Lo schermo è qualche cosa che permette l’apparizione delle immagini, del fantasma di ciò che non è qui, che è “a distanza”. Questo è uno dei suoi poteri, che si annoda quindi al tema filosofico della rappresentazione, del plesso verità/simulacro, ma anche a quello “contemporaneo” della possibilità dei multipli simultanei, della riproducibilità di benjaminiana memoria, della ripetizione all’infinito in una tele-visibilità di massa, sino al problema della de-socializzazione capillare. Anche di ciò stiamo facendo esperienza, cioè di quel sottile potere che hanno gli schermi di stravolgere le esistenze, gli sguardi, il respiro, persino i ritmi circadiani: quanto di più intimo-naturale, ma anche di comune, vi sia tra gli esseri umani.
Protezione vs esposizione
Dunque, la pandemia ci ha rivelato di essere una società iper-schermata? Forse, ma ciò a patto di intendere lo schermo come concetto sempre (almeno) doppio. Se lo schermo è la superficie su cui appaiono le immagini, lo è in quanto membrana di separazione tra il visibile e l’invisibile, l’inaccessibile, il proibito. Come se ogni immagine necessitasse, per esistere, di una partizione dello spazio e di una certa incomunicabilità costitutiva. Ma lo schermo è anche – allo stesso tempo e nello stesso spazio – la disgiunzione tra un interno addomesticabile e un esterno pericoloso/contagioso. Lungo questo asse lo schermo sembra imporsi, oggi, come elemento logico-sanitario di protezione e controllo sociale, nel senso paradossale di distruzione del sociale stesso: dispositivo, in senso foucaultiano, di distanziamento. Dispositivo che accelera la de-socializzazione delle nostre vite, mantenendole “in vita”, sì, ma in “terapia intensiva”, entro una forma di relazione anestetizzata con l’ambiente esterno: relazione impoverita, illusoria, ma anche alienante. Lo sappiamo sin troppo bene. Così come è del tutto evidente che tale elemento di protezione, di “salvezza/salute”, si associ a forme di esposizione al rischio, di violazione delle nostre “vite private”, di degenerazione del tempo, di estrazione di valore…
Resta vero, però, che tutto questo lo sapevamo anche prima. Schermo è, sin dall’origine (si veda su questo Erkki Huhtamo, Elementi di schermologia. Verso un’archeologia dello schermo, a cura di R. Terrosi, Kaiak Edizioni, Lecce 2015) elemento indecidibile, non situabile, che ha ad esempio una propria archeologia, dove il rapporto con l’apparizione dell’immagine è sia domestico che pubblico, sia “spettacolare” che molto segreto, se non in alcuni casi “fantasmatico”. Carattere complesso che anche i precedenti studi di Carbone hanno ben testimoniato, ribadendo spesso la centralità della scena primaria, quel mito della caverna di Platone tutto giocato sulla luce e la sua schermatura, la quale separa e protegge dalla verità.
La schermatura è connaturata all’essenza umana, individuale ma, più ancora, sociale. Del resto, ricorda Carbone, schermi e scherma hanno la medesima etimologia, dal longobardo skirmjan, cioè proteggere, e forse non è un caso che nel 2020 come sport dell’anno sia stata proposta la scherma: maschera e guanti obbligatori, zone di rispetto, postura vigile a evitare ogni contatto fisico, tranne con l’arma, per parte sua facilmente sterilizzabile.
Ibridazioni
La pandemia ha rivelato quel che appunto sapevamo, o almeno sentivamo, da molto tempo circa i poteri degli schermi, i quali possono chiudere spazi, esporre/proteggere, ma nello stesso tempo «istituire relazioni e aprire esperienze» (Carbone), ed è su questo versante che si innesta un’ulteriore capacità dello schermo: quella di non rapportarsi soltanto alle immagini, ma anche a dimensioni sensibili an-iconiche: una multi-modalità che investe sia il campo verbovisuale sia il campo vocale.
La sovraesposizione tecnomediale ha portato nuovamente innanzi ai nostri occhi (a partire dalla mole smisurata di email, passando per nuove App e interfacce) l’apparire delle parole sullo schermo. Non è poi così banale come potrebbe sembrare. Carbone cita un recente libro di Kevin Kelly, fondatore della rivista Wireless: «Le parole sono migrate da una poltiglia di legno ai pixel dei computer, dei telefoni, dei portatili, delle console per videogiochi, delle televisioni, dei tabelloni, dei tablet; le lettere non sono più fissate sulla carta in inchiostro nero, ma svolazzano su una superficie di vetro in un arcobaleno di colori, veloci quanto un battito di ciglia» (Kelly).
Questo è, certamente, il portato della cosiddetta rivoluzione digitale. Ma è anche qualcosa che riqualifica il senso e il valore degli schermi, anche se probabilmente abbiamo appena incominciato a capire che questa ri-forma delle lettere, del sillabico, del verbale, del visualizzare una parola anziché immediatamente leggerla, ha a che vedere strettamente con la materia e con l’ineffabile corporeità dello schermo: con il nostro rapporto con esso; parimenti, con quella strana autonomia relazionale che rende ogni schermo, ogni volta come per la prima volta, estraneo, magari solo per un istante, ma anche così densamente familiare. Lo schermo cancella se stesso, nell’uso. E le parole appaiono come forme, in questo fluttuare indefinito, pulsante con le frequenze video, mediato da altre ritmiche: altre intensità, direbbe Gilles Deleuze; altre accelerazioni, direbbe forse Paul Virilio. Accanto a questo, notiamo oggi il proliferare di programmi e oggetti digitali fondamentalmente legati alla dimensione sonora: dal social network solo vocale Clubhouse, al “ritorno” di interesse per il Podcast o ai video ASMR, quelli per rilassarsi o facilitare il sonno. Si badi: si tratta di una dimensione sonora non autonoma, ma che si innerva strutturalmente con dispositivi dotati di schermo, fatto di per sé non scontato.
Tutto questo sembra potere autorizzare a pensare un rapporto tra immagine e schermi differente da quello che, negli studi schermologici degli ultimi decenni, si è tendenzialmente assunto. L’autonomia degli schermi andrà in futuro meglio indagata, ma andrà innanzitutto vissuta, esperita, anche nei rischi di forme di soggettivazione variamente intesa. La rivoluzione digitale non è solo questione di immagine, ma deve andare di pari passo una decostruzione di quanto si potrebbe designare con imagocentrismo ingenuo.
Negli schermi, nel loro luogo, si attuano e si articolano altre scene, segrete per noi, la cui ragione morfo-logica è non lineare: all’iconico si sommano il verbale e al contempo il sonoro, in nuove unità funzionali, alle quali andrebbe aggiunta la dimensione aptica del Touch screen. A tali ibridazioni corrispondono, entro un’asimmetrica reversibilità tra percezione e tecnica, progressioni tecnologiche sempre più fini e, di nuovo, accelerate: upgrade di App; interfacce via via più friendly e ingannevoli; ultimi modelli di tecnologie protesiche o anche portabili, come tutte le Head Up Displays, dai Google Glass ai caschi per realtà immersiva, che paradossalmente potrebbero a breve anche sostituire gli schermi, come loro pericoloso supplemento.
Visualizzare uno schermo sarà sempre più simile, seguendo anche Kelly, non a un visualizing ma a uno screening? Dove l’attività/passività dello “screening” (come nel verbo inglese to screen) corrisponde a una nuova realtà percettiva? Non lo sappiamo, ma se questo è, significa che stiamo entrando entro il campo di una nuova potenza – in senso spinoziano – che non esclude la vecchia capacità alfabetica, quella del «leggere le parole» sullo screen, ma che la completa e la estende, facendola esplodere verso il suo fuori imprevisto: precisamente la capacità di «guardare le parole e leggere le immagini» (Kelly), che si dispiega ed esprime se stessa nelle gradazioni delle loro combinazioni e reciprocità. Lo stesso potrà valere per il “canale” sonoro rispetto al colore o al tatto, per la pausa ritmica rispetto alla continuità di una scia grafica, luminescente, che si estingue sullo schermo, come una lucciola che si spegne nella notte, mentre qualcosa di inatteso, magari un errore o un’involontarietà del soggetto, prenderà il centro della scena schermica.
Corpi
Secondo Carbone, probabilmente non abbiamo ancora compreso l’importanza di questa simultaneità, le strade nuove, davvero inedite, produttivamente virtuali che tramite gli schermi, attraverso gli schermi, possono dischiudersi. In fondo non sappiamo cosa può… uno schermo, mutuando dal Deleuze lettore di Spinoza, il celebre noi non sappiamo cosa può un corpo; un po’ come per lo schermo/specchio dell’attraversamento, per l’Alice di Lewis Carroll.
Sottilmente, il corpo non ritorna qui centrale, in questo che appare come rilancio del vecchio concetto di percezione, nel senso olistico ed ecologico di Merleau-Ponty, autore caro a Carbone? Dove la sinestesia non è l’eccezione ma la natura della relazione tra corpi e mondo, tra espressione intransitiva e significazione transitiva, linguistica; e questa ambiguità è tutto quello che, in ultima analisi, prende corpo sullo schermo. Questo prendere corpo non è solo un gioco di parole.
Resta vivo, cioè, il tema dell’attrito del corpo specificamente inteso quale momento interno della relazione col digitale, cioè come resistenza al totale asservimento dei soggetti e, al contempo, chiave per meglio comprendere i nessi tra le funzioni schermiche e la rivoluzione digitale in atto. Di convesso, lo schermo va pensato nella sua specifica materialità “viva” – che non è detto coincida perfettamente con quella della categoria “oggetto” – ossia nel suo essere una funzione storico-materiale i cui poteri sembrano spingerlo a deviare (clinamen) da eccesive pretese deterministiche, da parte di chi lo progetta, di chi lo vende e di chi lo utilizza. Con le enormi conseguenze politiche che ne derivano.
La partita è ancora aperta: non sappiamo come le cose evolveranno. Ma ciò non è necessariamente un male.