IA, un mondo senza pensiero?
Il riaccendersi delle domande circa la natura delle capacità umane è l’effetto più virtuoso della recente esplosione dell’Intelligenza Artificiale. In particolare, per quanto riguarda la creatività. Fino a ieri, gli esseri umani potevano dormire sugli allori convinti che la creatività fosse una prerogativa umana, ma in molti campi (dalla scrittura all’arte visiva) quest’esclusività è messa in discussione dai recenti algoritmi chiamati, appunto, intelligenze artificiali generative di cui i modelli del linguaggio di grandi dimensioni (LLM) o i modelli di diffusione latente sono i rappresentanti di maggior successo. Si tratta di sistemi capaci di estrarre, da un insieme di dati (testi o immagini), le regole strutturali che permettono di generare quel tipo di contenuto. Dato che queste regole non si limitano a fare un copia e incolla del materiale di partenza ma, in pratica, individuano la ricetta per generare qualcosa di simile (stavo per dire “qualcosa del genere” …), queste intelligenze artificiali sono in grado di produrre infinite nuove combinazioni del materiale di partenza. Questa generazione di contenuti è vera creazione? È aggiunta di nuovo valore? E la creatività umana era veramente diversa? Si tratta di interrogativi affascinanti perché permettono di gettare una nuova luce sui processi che hanno luogo negli esseri umani.
In questo nuovo orizzonte – sui rapporti tra IA, arte e creatività – si inserisce il nuovo libro di Francesco D’Isa, La rivoluzione algoritmica delle immagini. Arte e intelligenza artificiale (Luca Sossella, 2024), che riflette sul rapporto tra cultura e intelligenza artificiale. Il libro è piacevolissimo da leggere. Le sue pagine corrono in equilibrio tra la prudenza nel fare previsioni infondate e nel cogliere la profondità della rivoluzione in atto. D’Isa (direttore della rivista online L’Indiscreto) è particolarmente indicato ad affrontare questi temi perché è un tecnologo e contemporaneamente un artista che non ha mai esitato nell’utilizzare queste tecnologie. Si tratta quindi di un protagonista di questa trasformazione in atto dove, parafrasando il celebre articolo di Walter Benjamin, stiamo entrando nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’artista e non solo dell’opera d’arte.
Non è un caso che D’Isa, in quanto artista digitale, abbia realizzato delle personali in Italia e all’estero e che, un po’ come un’intelligenza artificiale generativa, abbia mischiato narrativa, saggistica e arte visiva producendo, anche grazie all’utilizzo esplicito dell’IA generativa, una graphic novel. Nel suo ultimo libro si affrontano i molteplici piani del rapporto tra IA e cultura, dal copyright al valore culturale delle opere, dal significato dell’arte fino al ruolo e alla natura dell’artista quando i contenuti sono il frutto di una collaborazione ibrida tra artisti umani e modelli artificiali.
D’altronde vita ed entropia, informazione e intelligenza artificiale, cultura e linguaggio sono coppie che hanno sorprendenti radici comuni. D’Isa, a questo proposito, coglie la validità di un rapporto ibrido tra creatività umana e intelligenza artificiale che non viene vista come un sostituto, ma come un moltiplicatore dell’immaginazione umana. D’Isa è, in un certo senso, un artista cyborg che, proprio grazie alla progressiva integrazione con la tecnologia, elimina la contrapposizione incarnandola: «Pensavamo che avremmo parlato alle IA con la nostra lingua e invece dobbiamo imparare la loro, o meglio, idearne una assieme – e anche questa è creatività». Tuttavia, non dobbiamo guardare alle macchine con antropomorfismo, come se dovessero diventare i nuovi artisti. Non ci sono geni nella bottiglia, ma elementi di un processo che coinvolge tecnologia, esseri umani e istituzioni. L’intelligenza artificiale è un nuovo ingranaggio di una macchina complessa di cui anche noi eravamo soltanto un componente.
Per D’Isa, ed è un’opinione condivisibile, non esiste un confine naturale tra artista umano e intelligenza artificiale; ogni opera d’arte nasce come combinazione di elementi a disposizione del momento creativo. Non c’è un genio misterioso che aspetta di esprimersi. Siamo tutti parte di un flusso di eventi che, attraverso momenti di trasmissione, ricombinazione e selezione, dà luogo al mondo di oggetti e prodotti artistici che conosciamo. Se la precedente formulazione vi facesse venire in mente la teoria dell’evoluzione non sareste lontani dal senso delle parole. In fondo, la selezione naturale non è il processo non culturale più creativo di cui siamo a conoscenza? La creatività è lotta contro l’entropia, come la vita, l’esistenza è la vittoria dell’improbabile.
Una domanda che rimane necessariamente aperta è se l’arte sia solo ricombinazione e non ci sia spazio per una creazione completamente incommensurabile al passato. Spinoza diceva che la realtà è infinita e non può essere ricondotta ad alcun insieme di simboli e, per chi scrive, l’artista non ha in sé un genio individuale, ma apre la porta all’infinito che è ancora inespresso. È però vero che la dipendenza del passato dell’intelligenza artificiale ha molte analogie con quella degli autori umani: «Picasso, ad esempio, non avrebbe potuto fare i quadri che ha fatto se fosse vissuto nel medioevo, o senza la tecnica della pittura, l’influenza dell’arte africana, la conoscenza di artisti a lui contemporanei e precedenti, le scoperte della fisica moderna e via dicendo».
Uno dei punti centrali del testo è una sorta di definizione eleatica dell’artista, ovvero l’artista rappresenta un punto di discontinuità e autonomia causale, cui ricondurre l’opera d’arte, o è un arbitrario centro di gravità creativa (per parafrasare il recentemente scomparso Daniel Dennett)? Si chiede D’Isa, «Il vento è autore del manto di foglie sul suolo? Possiamo rispondere affermativamente, ma se sposiamo questa teoria il concetto di autorialità si espande fino a divenire inutilizzabile, o meglio fino a coincidere con qualunque rapporto di causa/effetto». L’opera è tutto o quello che conta è il processo dentro la quale viene ad essere? Se la stessa opera fosse creata da un’intelligenza artificiale, sarebbe diversa? È una domanda simile a quella che si poneva il filosofo Arthur Danto. Se uno scrittore, del tutto all’oscuro di letteratura spagnola, componesse oggi un testo identico al Don Chisciotte di Cervantes, avrebbe lo stesso valore del romanzo scritto dall’autore madrileno? L’intenzionalità dell’artista è parte dell’opera? E le intelligenze artificiali hanno intenzionalità? Per ora no, ma se l’avessero? Estetica e filosofia della mente si intrecciano intimamente.
Il libro continua affrontando in modo approfondito quel meccanismo che potremmo definire di inflazione del valore estetico o del significato. Lo si è visto in passato anche come conseguenza di CGI e altre tecnologie in tanti ambiti, dai blockbuster al mercato pornografico: la generazione illimitata di combinazioni finisce con il loro svuotamento di significato. Pensiamo alla forza estetico-erotica della Maja Desnuda di Francisco Goya al tempo della sua realizzazione (la Spagna tra Settecento e Ottocento) e confrontiamola con la relativa insignificanza delle infinite combinazioni sessuali oggi disponibili su internet. Oppure, ricordiamo la forza di una semplice mano armata di coltello dietro la tenda di Psycho e paragoniamola alla noia con cui accogliamo in sala le scene più granguignolesche? Che cos’è successo? Sospetto che le immagini derivino il proprio significato da una fonte limitata di realtà che non può essere moltiplicata con la stessa prodigalità con la quale le IA generative possono produrre contenuti. È un meccanismo simile al rapporto tra denaro nominale e ricchezza reale: se la prima si moltiplica geometricamente, la seconda non cresce o può crescere solo con una progressione lineare senza poter stare al passo con la prima. In questo modo, l’inflazione del significato finirà con l’autocorreggere il paventato pericolo di fake news e immagini compromettenti. L’inflazione toglierà valore di realtà alle immagini di modo che nessuno le prenderà più sul serio. Le IA generative recideranno il collegamento tra contenuti e realtà, poiché le cause esterne e reali diventeranno minoritarie rispetto alle cause interne delle IA. In termini tecnici l’intenzionalità dell’immaginario mediatico sarà progressivamente ridotta fino a scomparire. Le immagini diventeranno pure immagini e non avranno più alcun significato. Come dice D’Isa, l’IA generativa «annichilisce il valore di verità del segno. È però il momento di chiederci se il valore di testimonianza delle immagini esisteva davvero. Se la credibilità della fotografia non era morta, infatti, non godeva certo di buona salute».
Alla fine del volume, D’Isa si concede il lusso di una previsione: l’IA «non ucciderà l’arte come sostengono alcuni tra i più apocalittici detrattori. La morte dell’arte d’altra parte è un allarme che è stato annunciato troppo spesso per mantenere ancora la sua credibilità, e se questa data esiste probabilmente coinciderà con quella della nostra estinzione». Spero che l’autore abbia ragione, anche se personalmente temo che questa data sia già avvenuta e che l’arte sia spesso tenuta in vita solo come reliquia di epoche passate o come filatelia per investimenti bancari; uccisa non dall’intelligenza artificiale, ma dai mercanti di opere d’arte e dagli investitori. Forse, un giorno, sarà proprio l’intelligenza artificiale a farla resuscitare.
In sintesi, in questo libro, D’Isa affronta una rivoluzione in atto che non riguarda solo la tecnologia, ma soprattutto noi stessi. Le immagini digitali generate dalla IA costringono a riconsiderare l’immagine concettuale che avevamo di noi stessi e a mettere in discussione la nostra idea di creatività, perché il creatore non è più un genio invisibile dentro il nostro corpo, ma un processo condiviso tra corpi, intelligenze artificiali e culture. Per D’Isa si può essere ottimisti e sperare che la «nascita delle IA ci traghetti verso un nuovo tipo di creatività […] ricordandoci che non siamo noi a creare, ma il mondo». Come dargli torto?