Speciale
Il brand Russkij mir
Uno dei termini politici che hanno conosciuto maggior diffusione nel terribile 2022 appena conclusosi è russkij mir, entrato nel lessico delle cronache della guerra e delle vicende di politica internazionale senza nemmeno avvertire la necessità di una traduzione. L’espressione, letteralmente “mondo russo”, ha avuto una certa risonanza a causa dell’invasione dell’Ucraina, ma accompagna la presidenza di Vladimir Putin sin dai suoi primi inizi, quando ancora non ne era certa l’ascesa come successore di Boris Eltsin al Cremlino. A coniare il russkij mir sono due “polit-technologi” – i “tecnici della politica” – Efim Ostrovskij e Pëtr Ščedrovickij, in un articolo del 1999 dove si provava a delineare una “nuova immagine” della Russia uscita dalle macerie dell’Unione Sovietica per “realizzare una revanche di velluto dopo la sconfitta del nostro paese nella terza guerra (fredda) mondiale”. Il termine piace a Putin, lo utilizza per la prima volta durante il primo incontro dei russi all’estero nel 2001, ma ancor di più diventa una delle parole d’ordine della Chiesa ortodossa russa, che se ne appropria: diventa così il russkij mir una possibilità di unire i fedeli del Patriarcato di Mosca al di fuori dei confini della Federazione, in una soluzione dove identità etnica e confessionale vanno a sovrapporsi. Un’ambizione che sviluppa quanto detto da Putin ormai più di vent’anni fa nell’incontro già citato, quando il presidente affermò come «da secoli il concetto di mondo russo è andato oltre i confini geografici della Russia e anche oltre i limiti dell’etnia russa». Una frase che all’epoca non suscitò scalpore, l’allora nuovo leader era visto come un affidabile partner nella lotta al terrorismo internazionale, ma a rileggerla oggi fa uno strano effetto.
E il destino del russkij mir, pensato inizialmente come un brand ispirato alla strategia pubblicitaria della Camel, diventa quello di profezia da autorealizzarsi, di giustificazione per la politica estera del Cremlino a partire dall’inizio del terzo mandato presidenziale di Putin, quando, finiti i bei tempi della crescita economica, si decide di puntare sulla svolta conservatrice e nazional-imperiale. La rivendicazione del ruolo di Mosca come protettrice delle comunità russe al di fuori dei confini diventa una minaccia alla stabilità dell’area post-sovietica, affermare la propria posizione egemonica sembra essere una necessità storica, unita a una spietata escalation repressiva all’interno del paese, volta a estirpare ogni possibile opposizione e voce di dissenso.
La stabilità putiniana, vero e propri mantra del primo decennio al potere, assume le forme dei furgoni cellulari utilizzati per caricare gli arrestati alle manifestazioni non autorizzate, e colpisce come un manganello degli OMON, la Celere russa, nel mucchio. In questo quadro, ancor prima dell’annessione della Crimea, lo scrittore russo Mikhail Shishkin, autore di numerosi romanzi e racconti, nel 2013 si rifiuta con una lettera aperta di prender parte alla delegazione russa alla Fiera del Libro di New York. Le parole sono durissime: “Un paese in cui un regime criminale e corrotto ha preso il potere, in cui lo Stato è una gerarchia criminale, in cui le elezioni si sono trasformate in una farsa, in cui i tribunali servono i governanti e non la legge, in cui ci sono prigionieri politici, in cui la televisione di Stato è stata trasformata in una puttana, in cui gli usurpatori approvano plichi di leggi folli, che riportano la società al Medioevo, un paese del genere non può essere la mia Russia. Non posso e non voglio partecipare a una delegazione ufficiale russa che rappresenta questa Russia”.
Da poco vi erano state le proteste contro i brogli elettorali di fine 2011, durate per mesi e conclusesi con la repressione che aveva colpito i partecipanti alle manifestazioni, riportando il tema dei prigionieri di coscienza nella cronaca quotidiana russa. Shishkin è autore di un libro, Frieden oder Krieg – Russland und der Westen – Eine Annäherung, pubblicato nel 2019 in Germania (lo scrittore da qualche anno scrive sia in russo che in tedesco), tradotto in italiano nel 2022 e apparso come Russki Mir: Guerra o pace?, per la casa editrice 21lettere. La passione civile dello scrittore è evidente e riempie le pagine del libro con una forza che traspare anche dalla traduzione (anche se con qualche svista – il presidente della Duma, Volodin, diventa Dumas), portando avanti la tesi della continuità storica della Russia come organizzazione statale volta alla repressione nei secoli dei secoli. Shishkin vede già nella fondazione delle città antiche russe e nella conversione al cristianesimo questa propensione alla violenza, accentuata poi dall’invasione mongola del XIII secolo e dalla dominazione dell’Orda d’Oro: l’autore utilizza il termine ulus, che definiva la comunità politico-statuale dei mongoli, per descrivere lo Stato russo senza soluzione di continuità, dai principati asserviti ai khan a oggi.
Il destino russo, in questa ottica, non è semplicemente stato influenzato, ma forgiato dal “giogo tataro-mongolo” fino alle estreme conseguenze di oggi. Una interpretazione che presenta alcune peculiarità, perché accompagna a un certo approccio orientalistico, dove sono i mongoli (il cui paese ormai sin dagli anni Novanta ha adottato un sistema democratico, con tanto d’alternanza al potere) a esser responsabili degli avvenimenti seguiti alla dominazione ormai risalente a circa sei secoli addietro, una lettura al rovescio delle teorie di Lev Gumilev, etnologo oggi molto citato da Putin, sull’armonia esistente tra principati russi e Orda d’Oro.
Nelle pagine seguenti, dove si descrivono i successivi passaggi che avrebbero portato prima all’impero e poi all’Urss, non vi è nessuna speranza per la storia russa, e vengono ignorati o declassati quei momenti che si discostano dalla linea narrativa e interpretativa adottata da Shishkin: “l’intera storia russa è una palude sanguinosa dalla quale il paese deve essere tirato fuori e condotto verso un ordine sociale europeo liberale”, scrive l’autore a proposito della battaglia d’idee dell’Ottocento, liquidata sbrigativamente in poche righe dedicate a una ricostruzione sommaria del dibattito tra occidentalisti e slavofili.
Anche per i populisti russi la condanna di Shishkin è impietosa, presentati come fanatici animati da “una lotta ancor più santa e messianica, quella per la liberazione del proprio popolo e dell’intera umanità”. La rivoluzione russa è vista come la “resurrezione dell’ulus di Mosca”, e non vi sono sconti nemmeno per quanto viene dopo la caduta dell’Unione Sovietica, con la critica alle privatizzazioni selvagge, presentate però come la perpetuazione della vecchia nomenklatura comunista. Lo scrittore e critico letterario Lev Danilkin, nel commentare il romanzo Pis’movnik, pubblicato nel 2010, aveva notato come “la realtà di Shishkin è molto specifica, qui vi dominano alcune idee ossessive: la Russia è il paese della violenza, la morte di un bambino, la concorrenza tra lingua e realtà, e questi sono i leitmotiv dell’opera di Shiskin”, un’osservazione che si può estendere anche a Russki Mir.
Molto toccante è un passaggio del libro, dove l’autore scrive di come la Russia e l’Ucraina siano parte della propria identità familiare: “Mia madre era ucraina, mio padre russo. Ci sono milioni di matrimoni misti di questo tipo in Russia e Ucraina. A volte penso: è un bene che entrambi siano già morti e non vivano per vedere questa guerra tra Russia e Ucraina. Siamo nazioni sorelle. Come separare la nostra comune vergogna e il nostro dolore, il nostro mostruoso passato? La distruzione dei contadini in Russia e l’Holodomor in Ucraina? Tra le vittime c’erano sia russi che ucraini, proprio come tra gli assassinii di massa. Avevamo nemici comuni: noi stessi.
Il nostro terribile passato tiene entrambe le nazioni in una morsa mortale e non ci libera nel futuro”. A questi momenti si alternano però parole di disillusione e condanna verso la Russia, dove “una piccola parte (…) è pronta per la vita in un ordine sociale democratico, ma la maggioranza s’inginocchia ancora davanti al potere e a questo stile di vita patriarcale”. Sembra, nell’ottica di Shishkin, non esserci possibilità alcuna di cambiamento, come si legge nell’epilogo all’edizione italiana, dove si profetizza come “la deputinizzazione sarà effettuata da un nuovo Putin con un nome diverso (…) Putin scomparirà, ma i desideri che ha proiettato non svaniranno nel nulla.
L’attore che ha interpretato tutti questi Putin sul palcoscenico storico ha fallito irreparabilmente. Il ruolo ora toccherà a un nuovo attore”. In questa tetra profezia scompaiono centinaia di migliaia, milioni, di compatrioti dello scrittore che si sono opposti e si oppongono, tra enormi difficoltà e perseguitati dalla repressione, alla guerra e al sistema putiniano, e l’amara impressione è che si tratti non di un caso, ma di un’idea della Russia dove non vi è spazio per la speranza, e paradossalmente sembra far da specchio a quanto vuol far credere il Cremlino.
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