9 maggio 1978 / Il delitto Moro e la crisi della Repubblica
Sono trascorsi quarantun anni dalla morte di Aldo Moro. Il 9 maggio 1978 il suo corpo viene ritrovato nella R4 parcheggiata in via Caetani, nel centro di Roma, avvolto in una coperta, il cappotto indosso e la testa reclinata quasi dormisse. I brigatisti l’hanno ucciso dentro il portabagagli di quella automobile per giovani con una mitraglietta. Lo scorso anno, il 2018, si è celebrato il quarantennale con cerimonie, ricordi, pubblicazioni, eppure la vicenda del sequestro e della uccisione del leader democristiano non sembra finire mai. Perché? Prova a risponde a questa domanda, e non solo a questa, il libro di Miguel Gotor, Io ci sarò ancora. Il delitto Moro e la crisi della Repubblica (Paper First, pp. 235 con prefazione di Gian Carlo Caselli) appena uscito in libreria. Gotor è la persona che ha pubblicato presso Einaudi due preziosi lavori, Aldo Moro. Lettere dalla prigionia (Einaudi 2008) e Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia (Einaudi 2011); si tratta dei testi scritti da Moro durante la prigionia, corredati da due lunghi saggi, due libri nel libro, due letture ravvicinate e fondamentali di questa intricata vicenda. Gotor è uno storico, si occupa di storia moderna, ha pubblicato in passato un libro sugli eretici, e di recente anche un manuale di storia per le scuole. Nella penultima legislatura, poi, è stato eletto senatore nelle file del Pd, collaboratore diretto di Bersani; in questa veste ha fatto parte dell’ultima Commissione d’inchiesta sul delitto Moro istituita dal Parlamento italiano, l’ennesima commissione su questa vicenda che ha segnato la fine della cosiddetta Prima Repubblica. Si è trovato perciò a vivere in due dimensioni differenti. Da un lato, quella dello storico che deve saper leggere con lentezza le vicende passate, attendere che il fondale su cui si trovano si chiarisca e diventi, se non proprio totalmente trasparente, almeno sufficientemente visibile dopo che la melma degli interessi immediati e contingenti si sia depositata sul fondo. Il politico invece, come Gotor stesso scrive nell’introduzione, “vive ogni battaglia quotidiana come se fosse l’ultima, dentro il fluire di un processo che non ha nulla di teorico o astratto, ma è fatto di eventi che accadono contemporaneamente a se stessi, senza selezione o riepilogo”.
Ottiche divergenti, che obbligano a fare varie riflessioni a partire dal libro che ha appena pubblicato. Fare storia del presente è un’attività difficile, e quarant’anni sono forse un tempo ancora troppo breve. Questo può apparire inconcepibile per chi, come noi, vive immerso in una realtà segnata dalla accelerazione progressiva e inarrestabile di ogni fenomeno o realtà, in un succedersi nevrotico e ansioso di vicende di cui non riusciamo più a capire l’importanza o il valore in quel quadro d’insieme che siamo stati abituati a chiamare Storia. Ma qual è il quadro d’insieme delineato da Gotor nel suo libro? Prima di tutto la convergenza che si è attuata durante il sequestro di Moro, e poi successivamente, tra il “Partito delle stragi” e il “Partito armato”. Il primo è quello composto da pidduisti, servizi segreti e membri del Parlamento e dei partiti che osteggiavano la strategia del leader democristiano, futuro Presidente della Repubblica, tesa a stabilire un’alleanza di governo tra DC e Partito comunista, come Moro aveva già aveva fatto nel 1963 con il Partito Socialista. Il secondo “partito” comprende la galassia delle formazioni terroristiche di sinistra (484 sigle praticanti in modo continuativo la lotta armata e 92 che realizzarono sino al 1981 uno o due attentati) e soprattutto della “zona grigia” di fiancheggiatori e sostenitori, ben più ampia di quanto sia poi stato appurato – anche per la difficoltà a definirla in termini numerici e statistici. Nei decenni successivi, scrive Gotor, questi due partiti si sono sostenuti a vicenda, per ragioni diverse ma convergenti, impedendo una vera storicizzazione dell’intera vicenda dell’omicidio di Moro (si pensi al confronto televisivo tra l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga e la brigatista Adriana Faranda nel 2005). Moro, al pari di Pier Paolo Pasolini, è il vero corpo insepolto della nostra storia recente. Siamo rimasti, ribadisce Gotor nel suo libro, a livello di cronaca giudiziaria e memorialistica, senza passare all’analisi storica. Inoltre, aggiunge, la dietrologia italiana sull’affaire Moro si è sempre proposta di “alzare una coltre interpretativa utile a mascherare la verità storica, con l’argomento di cercare sempre e ancora altrove” attribuendo il suo epilogo a forze straniere e non ai conflitti interni delle classi dirigenti italiane, anche dello stesso “Partito armato”.
Il conflitto non è dunque solo tra coloro che volevano la trattativa con le Brigate rosse per salvare Moro (PSI) e quelli che si opponevano decisamente (DC, partiti minori e PCI), ma tra settori della società e della politica italiana che perseguivano progetti alternativi e divergenti rispetto a quello delineato da Moro e che ha preso il nome di “compromesso storico”, formula escogitata da Enrico Berlinguer, segretario del PCI. Una domanda sorge spontanea leggendo questo libro: ma si può davvero fare storia di avvenimenti che accadono sotto i nostri occhi, o almeno di fatti che si sono svolti in un lasso di tempo così breve? Stando a Marc Bloch, storico di riferimento di almeno tre generazioni di studiosi, sarebbe possibile. Se leggiamo, ad esempio, il suo saggio sulle voci che circolano nelle trincee della Prima guerra mondiale (La guerra e le false notizie, Donzelli), ci pare realizzabile una prospettiva storica in presa diretta, anche se, a ben vedere, Bloch, che si trova al fronte, cerca di guardare da una certa distanza quello che accade: è dentro e contemporaneamente fuori. Morto durante la resistenza ai nazisti, Bloch ha scritto un libro su altre “voci” del passato, I re taumaturghi (Einaudi), riguardanti i reali di Francia che guarivano dalle scrofole i loro sudditi con la semplice imposizione delle mani. Bloch sembra quindi comportarsi come un antropologo che si reca presso una tribù dell’Amazzonia e cerca di descriverla – se il paragone regge, visto che studia la sua stessa società, o meglio la società che l’ha preceduto nella medesima serie storica. L’atteggiamento degli etnografi e degli antropologi, quello della generazione di Lévi-Strauss e successori, per intenderci, oggi appare in parte superato dall’antropologia che è definita della “svolta ontologica” (autori come Tim Ingold e Edoardo Viveiros de Castro). Per questi studiosi non esiste una sola “cultura” umana, bensì tanti mondi plurali e ontologie multiple, per quanto la natura resti unica e identica per le differenti culture. Pur raccontando delle storie, tante storie quasi quanti sono i capitoli che compongono il volume, Gotor non ha dismesso completamente l’abito del politico, restando comunque uno storico, uno studioso dedito all’indagine storica.
Diciamo che egli è come un esploratore che s’inoltra nei cunicoli scavati sotto i piedi della politica e della società italiana nei 55 giorni del sequestro di Moro, cunicoli poi via via ampliatisi, o al contrario ristrettisi, nei seguenti quarantun anni. Fa luce là sotto armato di una pila tascabile, non perché la sua ricerca non possieda una potenza luminosa sufficiente: ce l’ha, per quanto il libro sia composto di articoli apparsi su giornali (il quotidiano “il Fatto” e il settimanale “Diario”); il problema è che dentro i sotterranei dell’affaire Moro, in quanto esploratori attenti e magari fortunati, non si può portare con sé più di quella lampadina. Per restare alla metafora spaziale, si tratta di una serie di gallerie che si intersecano tra loro sino a formare un labirinto quasi inestricabile che, appena si sale alla superficie, abbandonando le profondità, scompare come coltre nebbiosa al primo alito il vento. Dentro non si vede più in là di qualche metro, fuori tutto scompare di colpo e ci si chiede: ma davvero tutto questo è accaduto? Gotor sceglie qui di far luce per quanto gli è possibile. Per questo focalizza fatti minuti, come mostra ad esempio il capitolo intitolato “Si occupava di allevamenti di trote”, dedicato a una figura complessa e sconcertante come Giorgio Conforto, agente segreto decorato dal Kgb, padre di Giuliana, la persona che ha protetto Faranda e Morucci nella loro latitanza, e poi consegnati alla polizia, capitolo dove si prende in esame all’assai ramificato côté degli ex aderenti a Potere Operaio che ruotava intorno alle Brigate rosse. Il narratore-detective Gotor è teso a trovare la via d’uscita dal cunicolo stretto e buio in cui si trova. Si ha la netta sensazione che lo storico lasci sovente il passo al politico, e anche al detective, anello di congiunzione tra i due. Del resto, in questa veste ha contribuito quale membro della Commissione d’inchiesta a far luce su altri importanti dettagli del sequestro di Moro, come l’esistenza, oltre alle due Polaroid fatte ritrovare dalla Brigate rosse, di altri due scatti che ritraggono il leader.
Il volume è composto di articoli di giornale, quindi non è un libro di storia. Tuttavia Gotor in quanto storico non rinuncia a fornire un quadro d’insieme della vicenda del leader democristiano e nel contempo dà ampio spazio al racconto di piccole storie. I piccoli fatti nel loro insieme fanno la Storia? Nell’Introduzione l’autore nella veste di storico prova a definire il quadro d’insieme, la cornice entro cui è possibile e necessario far piena luce sull’evento del sequestro e della morte di Moro. Qui siamo all’aperto, fuori dal cunicolo della vicenda più buia della nostra storia recente – la più buia insieme alla bomba di Piazza Fontana. Non per nulla Aldo Moro è al momento del sequestro il baricentro della politica italiana, il principale stratega del partito di maggioranza relativa. A ben rifletterci la divaricazione che lo stesso Gotor intravede tra lo storico e il politico riguarda la figura del leader democristiano e la sua intera vicenda: figura fondamentale nella storia italiana degli anni Sessanta e Settanta, è anche un uomo, l’uomo solo nelle mani dei suoi sequestratori, come ha sottolineato Leonardo Sciascia in L’affaire Moro (Adelphi). Sciascia in un passaggio del suo libro si domanda cosa è un avvenimento. Si risponde: un accumulo di fatti minimi, tanto minuti “da essere a volte impercettibili, che in un moto di attrazione e di aggregazione corrono verso il centro oscuro, verso un campo magnetico in cui prendono forma: e sono insieme il grande avvenimento. In questa forma, nella forma che insieme assumono, nessun minuto avvenimento è accidentale, incidentale, fortuito: le parti, sia pure molecolari, trovano necessità – e quindi spiegazione – nel tutto; e il tutto nelle parti”. Grande vicenda e piccola vicenda convivono dunque insieme.
Leggendo questo libro così ricco di dettagli ci si domanda: qual è il “centro oscuro”, il “campo vuoto magnetico” in cui, come scrive Sciascia, le cose prendono la loro forma e diventano un grande avvenimento? Come inquadrare la questione delle Polaroid scattate a Moro e consegnate a Paolo VI quale prova della esistenza in vita del leader politico? Gotor cita il probabile autore di questi scatti, Chichiarelli, uno dei personaggi più inquietanti e misteriosi del retroscena di questa storia. Ma in che rapporto sta questo episodio con l’insieme del sequestro, la mancata liberazione del politico? In un’altra pagina egli cita Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Moro, il quale in un colloquio con l’autore del libro sintetizza la vicenda: Moro non era un uomo di potere, bensì il potere nella sua indivisibilità e unicità. Un uomo politico della sua levatura è dunque passato nel giro di poche ore dall’essere uno degli artefici, se non il principale, della nuova formula di governo, a prigioniero in una cella di pochi metri di superficie, in potere di una banda di sequestratori. Questo non a caso è l’uomo ritratto da Sciascia nel suo pamphlet, colui che lotta con ogni mezzo a sua disposizione, cioè con la scrittura, per la propria sopravvivenza personale. Un paradosso che ancora oggi ci colpisce, così come ha colpito Sciascia nel suo libro. Il volume di Miguel Gotor è senza dubbio molto interessante, soprattutto là dove l’acribia dello storico si unisce alla penna brillante del giornalista, e tuttavia lascia irrisolto il problema di fondo evidenziato da questi due medesimi aspetti. Probabilmente non era questa l’intenzione di Gotor, almeno dello storico, mentre il politico, che compare nelle pagine del volume, formula giudizi e lancia strali, contro la zona grigia dei fiancheggiatori, dove utilizza pure l’arma del sarcasmo. C’è in questa opera un romanzo in nuce, che però non trova un suo sviluppo.
Nella Introduzione, l’autore evoca la celebre frase di Aby Warburg, tratta da Flaubert: il buon Dio è sempre nei dettagli. Gotor ha fatto tesoro del monito di Warburg, perché ci sono capitoli, in particolare quelli dal dodicesimo al ventunesimo, dove i dettagli sono tantissimi e affascinanti, senza tuttavia che la Storia, quella con la maiuscola, prenda il sopravvento e divenga la chiave di lettura dell’intera vicenda. A lettura terminata, si finisce per augurarsi che Gotor scriva un libro che ci permetta di far luce nel labirinto oscuro che egli ha percorso per tanti anni. Come ci ricorda lui stesso nelle prime pagine, l’operazione Moro continua a costituire un grande rimosso nazionale, un fastidioso inciampo. Di più, è una ferita lasciata andare in putrefazione, scrive nell’introduzione, puntando “sull’inevitabile processo di dimenticanza e di sfinimento dei cittadini, scommettendo sulla sua putrefazione in una grande nevrosi collettiva, che di per sé meriterebbe di essere raccontata come un aspetto originale e imprevedibile di una storia più importante e profonda. La storia di un trauma e della sua mancata rielaborazione sul piano storico”. Dopo quattro decenni e almeno due stagioni politiche succedutesi nella storia dell’Italia, è venuto il momento per farlo. Il punto oscuro evocato da Sciascia può essere finalmente rischiarato.