In ricordo di Lidia De Federicis
All’inizio della scorsa estate è scomparsa Lidia De Federicis. Ottantunenne, torinese, per lungo tempo insegnante di lettere al Liceo Gioberti, ha legato il suo nome al manuale di letteratura per la scuola superiore Il materiale e l’immaginario, progetto condiviso con Remo Ceserani. Un monumentale libro-antologia per il triennio, ormai mitologico, edito da Loescher nel 1981, rivoluzionario nell’impostazione e straordinario per l’offerta, capace di mettere in moto virtuosi circoli testo-critica e di fungere da soglia che dischiude mondi per moltissimi studenti. De Federicis lo considerava un’opera ‘illuminista’, nata nel mondo della scuola, e di fatto è il precipitato della sua attività letteraria e della passione civile e politica, nella sinistra socialista, nella Cgil, nel Comitato per la laicità della scuola.
Era un’intellettuale che ha sempre considerato strategico e prioritario il momento pedagogico ed educativo della scuola rispetto a quello della ricerca che pure ha praticato con gusto e perizia, a una certa distanza dall’Accademia. E dopo la scuola si è dedicata all’Indice, rivista di cui è stata co-fondatrice, un punto di riferimento per l’editoria in Italia. Chi voglia non perdere traccia di tutto questo può recuperare il suo Del raccontare. Saggi affettivi, Manni, 2004.
L’ho conosciuta dieci anni fa, grazie a un progetto editoriale di cui ero redattore, e colpivano energia e intelligenza in quella signora minuta ed elegante; sapendo che avevo appena iniziato a insegnare mi regalò un suo articolo sulla scuola (Il romanzo della scuola, in Belfagor, n. 338, 31 marzo 2002), che colsi come augurio e benedizione e che ha influenzato il mio lavoro e anche le linee guida di questa rubrica. La ricordiamo con un estratto di quel testo, che contiene lucide analisi rispetto a quello che la scuola è stata, e che, a partire dal nuovo millennio, è diventata in modo sempre più chiaro. Allora c’era Moratti, e cose che oggi sono divenute realtà stabile, sembravano inaccettabili.
In affettuosa memoria, sit tibi terra levis.
Dieci appunti
Quanta scuola serve al termine, o nell’oltranzismo, della modernità che l’aveva creata e raccontata? E come diventa la scuola se cade l’impulso di quella mitologia progressista? (Più scuola per tirar su i più in basso. Quello era il convincimento, lì andava l’impulso). E di cosa abbiamo finora discusso? Sto per riassumere lunghe questioni e dilemmi in dieci sbrigativi enunciati. Dieci temi, con un corredo di parole che per mezzo secolo hanno smosso l’immaginazione sociologica e pedagogica, l’immaginazione narrativa. Del riformismo compendiano un periodo concluso e chi c’era può riconoscerne le controversie, le passioni. Oggi però, se è vero che ci abbandonano i modelli di convivenza nei quali si incasellava la scuola, possiamo pensarle, quelle passioni e amate discussioni, soltanto a distanza e con nostalgia, al passato e dal punto d’arrivo, punto di slittamento verso un futuro imprevedibile. Già intravisti però e prevedibili i regressi verso una scuola divisa, una società molto divisa. Già visto l’oltranzismo mediatico e telematico (già previsto e pericoloso, nell’immaginario della fantascienza, l’impasto tecnologico e pre-moderno)
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La scuola è un’istituzione. È l’apparato istituzionalmente predisposto dagli adulti per l’allevamento dei piccoli: allevamento o educazione in società complesse. Educazione? O istruzione? Istituzione o (pessimamente) servizio? Servizio sociale? Assistenziale? Quindi rivolto a poveracci e sprovveduti? (Sarà la scuola dei ragazzi dirottati sul percorso del duplice avviamento, formazione al lavoro e ai consumi). Diverse sfumature linguistiche, ciascuna delle quali identifica un’area di problemi e di politiche e polemiche scolastiche. La parola sovrana sembra che sia oggi educazione. Altre volte avevamo creduto, con un pregiudizio illuministico, che bastasse l’istruzione, che la capacità di pensare e il dubbio avessero in sé una valenza educativa per allievi e insegnanti e fossero un vantaggio per l’intera società.
La scuola è un paradosso. La scuola ha già attraversato il paradosso dell’età moderna, di rendere accessibile a tutti, e intanto contenere, conformare, l’anarchia della scrittura. La scuola del Novecento ha attraversato, nel secolo delle avanguardie, il paradosso del loro insegnamento: comunicarne la dirompente esperienza estetica, ma contenerne il sovversivismo. La nuova scuola, nell’epoca destabilizzata dei flussi di persone e popolazioni, vive il nuovo paradosso di dover rendere compatibile l’autonomia estetica, o diciamo la libertà espressiva, con una somma di prescrizioni e divieti e di svariati conformismi. Già ci si è chiesti (Harold Bloom) se la nuova scuola riuscirà a sopportare l’anarchia dell’arte e della letteratura. Già ci si chiede, in Italia, quanta religione a scuola, quante religioni. E già mi chiedo come se la caveranno i disgraziati libertini, gli insegnanti senza Dio. E come se la caveranno tutti gli insegnanti alle prese con il codice deontologico, di cui si sa che è in via di elaborazione sotto la presidenza o guida di un cardinale. Segnale oscuramente chiaro del ministro Moratti.
La scuola è una formazione di compromesso. Tra le differenza culturali, religiose, etniche, di genere, la scuola ha un compito di mediazione. Anche su frontiere e in contesti ardui può capitare che emani una specie di influsso taumaturgico e accenni a moderare l’ingiustizia delle disuguaglianze fra gruppi sociali e paesi. Tanto ci aspettiamo dalla scuola che vorremmo. Tale è il compito di una scuola pubblica e laica: la coppia di aggettivi è stata finora impareggiabile a causa del carattere fatalmente esclusivo, per credenza o per censo, di altre scuole. Nella scuola che vorremmo, e che per mezzo secolo ha coagulato passioni e ideologia, non ci sono destini prefissati. Anzi mi trovo d’accordo con chi la considera una custodia dell’innocenza, una specie di porto franco dove stanno i piccoli, sottratti per qualche ora o anno ai destini e ai valori stabiliti dalle famiglie.
(Vedi, in Registro di classe, un appunto di Sandro Onofri: “E se dichiarassi adesso, qui, la mia lotta furiosa contro i vostri padri, la scalata che da anni conduco sui vostri pensieri per estirpare l’osceno vessillo posto in cima dai vostri papà e dalle vostre mamme”. Onofri, scrittore e insegnante, è morto prima di finire il suo libro sulla scuola. Insegnava nella periferia di Roma, “fra camionisti, muratori, idraulici”, ex cultura popolare).
La scuola è un contenitore. È un contenitore materiale e simbolico. Contiene e costringe e autorizza l’incontro fra chi insegna e chi è li per imparare. Detta la norma. Ma un bell’insegnamento tende per forza a trasgredire: va oltre il già saputo. La scuola vieta di scrivere sui muri. Ma lo vieta perché ha insegnato a leggere e scrivere. L’invenzione della norma crea la trasgressione. E in bilico tra i due versanti procedeva il disciplinamento, che è il fine sociale della scuola-istituzione. Il compito selettivo, o repressivo, che toccava alla scuola della repubblica.
(Vedi, in Sola come un gambo di sedano, un appunto di Luciana Littizzetto, attrice comica: “Quando facevo la profia e mi capitava di dare una nota mi sentivo una cacca”).
La scuola è un microcosmo. La scuola è una società in miniatura che riproduce, enfatizzandoli, comportamenti e gerarchie della società in grande. Intanto ne sperimenta la correzione o addirittura il rovescio, potendo innalzare a primi della classe anche gli ultimi nella vita. O viceversa il microcosmo riflette la vità com’è e l’ingiustizia stessa, che è un fatto della vita? Tipica casistica da romanzo.
(Ecco il caso di Ti prendo e ti porto via, di Niccolò Ammaniti. “Perché mi hanno bocciato?” domanda il povero Pietro Moroni, di cattiva famiglia, alla professoressa Palmieri, che è incinta e abbandonata. “Sei stupido” risponde la Palmieri. “Ma lei aveva detto che ero bravo. Mi aveva promesso…”. “Vedi che sei stupido? Non lo sai, forse, che le promesse sono fatte per non essere mantenute?”. Pietro dunque l’ammazza. Meglio una scuola che non fa promesse, meglio una scuola che non maschera la struttura della disuguglianza o - alla buona - la rozza dicotomia fra ricchi e poveri? Meglio. Così spesso lasciano intendere i ricchi).
La scuola è un laboratorio. Rispetto alla truce complessità reale è un gioco, è una simulazione e il sangue non vi scorre mai o di rado. Nella scuola l’ambiente è ristretto, le situazioni sono semplificate, i fenomeni hanno esiti previsti secondo procedure accertate e trasferibili. Epuure nel microcosmo, come nel mondo globale, gli eventi e gli individui irrompono a sgangherare piani e programmi. L’impensato si fa strada nel rapporto tra insegnanti e allievi. L’insegnamento, infatti, è un mestiere di relazione.
(Da rileggere l’antipedagogico Gianni Celati. Il quale approfitta dei testi di una scuola media per trovare conferme a una sua teoria o filosofia della narrazione in quanto atto importante, cerimoniale, nei Racconti impensati di ragazzini, sulla facce che fanno. Sulle posture nel banco “quando cominciano a scrivere”).
La scuola è un teatro. Non c’è insegnamento senza spettacolo. Sono mestieri, quello dell’insegnante e dell’attore, e del politico, che pretendono l’impiego simultaneo di energie fisiche e psichiche, intellettuali, morali. Quando poi si insegna letteratura, chi è sensibile alla vocazione dialogica può trovarsi immerso in voci moltiplicate, venendo fra di loro a incontrarsi presenti e assenti, di carne e di carta.
(Un esempio di improvviso sconcerto lo registra Edoardo Albinati in Maggio selvaggio, diario di un anno di scuola nel carcere di Rebibbia, quando racconta di un egiziano carcerato, un ergastolano arabo che dava voce all’antico lamento di una ragazza siciliana il cui moroso partiva per la crociata contro gli arabi. […] Albinati, grazie alla forza del carcere, “fabbrica della pena”, sfugge perciò al pensiero riduttivo, alla scarsità di attenzione critica che sempre penalizza le cose scuola e anche il romanzo della scuola).
La scuola è un posto. Se ci è caro Lévi- Strauss, che di scuola non si è mai occupato, possiamo utilizzarne anche a proposito di scuola l’impianto concettuale. Ogni scuola infatti è una struttura e un evento: è un progetto e un oggetto; è uno spazio mentale, un corpo sociale, che autorizza interpretazioni semiotiche e antropologiche; ma è pure un edificio, uno spazio materiale e circoscritto, un fabbricato deperibile. Se ci piace Foucault, che ha sfiorato la scuola qua e là, possiamo prendere molto dai libri che lui chiamava “cassette d’arnesi”, specie da Sorvegliare e punire. Alle origini del moderno la scuola s’imparenta, quanto a tipologia di spazi, con altri luoghi di controllo. Che cos’è la prigione nella società disciplinare? “Una caserma un po’ stretta, una scuola senza indulgenza, una fabbrica buia, ma, al limite, niente di qualitativamente differente”. Spazi per ammucchiare le vite. Edifici murati e porte chiuse, corridoi e stanze piene di corpi. La stanza piena è una classe. La contiguità fisica ha formato la classe e la scuola, è stato il luogo socialmente ammesso di una separata e un po’ speciale libertà di (o coercizione al) contatto.
Negli anni trenta i ragazzi borghesi avevano rare occasioni per toccarsi fisicamente. Un buon liceo competitivo poteva offrirne qualcuna: ce lo racconta Cesare Cases ricordando che a Milano andò su un ponte a picchiarsi con il suo rivale in voti, il “caro nemico” Arnaldo Ceccherini, in mezzo ai compagni che tifavano. Ironia di Cases sull’ambivalenza del rapporto tra giovani maschi, solidale e antagonistico. Il liceo di allora era molto maschile. Negli stessi anni, a San Martino, classe mista di bambini e bambine nella prima elementare di cui scrive Elena Gianini Belotti. Sono sessanta e a metà mattina la maestra spalanca le finestre perché “il tanfo nell’aula stringe la gola”.
(Da rileggere Gli invisibili, di Nanni Balestrini, romanzo sulle dinamiche violente degli anni settanta e su vite che passavano dalla strettoie della scuola al carcere).
La scuola è un avamposto. Una postazione distaccata, una vedetta avanzata. Un osservatorio combattivo, un’immagine che ci rimandano certe esperienze di confine. La scuola dei maestri di strada, un’unica stanza aperta su un vicolo napoletano e sulle difficoltà dei minori a rischio, dove ha lavorato il maestro Marco Rossi-Doria. O una scuola qualsiasi. Una qualsiasi scuola italiana che fronteggia l’impensato, l’imprevisto di stili e linguaggi contro il quale non valgono esorcismi privati. O anche, più grandiosamente, la scuola nella prospettiva di Edgar Morin che, pensando all’educazione del futuro, ha scritto per l’Unesco: “è necessario che tutti coloro che hanno il compito di insegnare si portino negli avamposti dell’incertezza del nostro tempo”. Avamposti nell’incertezza storica e nella conoscenza, psicologica e dell’azione. Nella vulnerabilità. Nel rumore.
(Il compito di insegnare, così sovraccarico di attese e orientato al futuro in una dimensione a-topica e u-topica, nel presente spicciolo e locale sta invece giù per terra. Da rileggere, almeno per il titolo, Tutti giù per terra, di Giuseppe Culicchia, passeggiatore in quattro strade di Torino e studente disorientato).
La scuola è delle donne. Noi donne abbiamo motivi per non dire male della scuola e uno è questo: “Probabilmente tra qualche decennio, nei paesi occidentali, la subordinazione femminile sarà completamente superata, ma già oggi lo è per quanto riguarda la riuscita scolastica” (Lorenzo Fischer). I numeri dicono che le femminelle vanno bene a scuola e che l’insegnamento è un loro mestiere. L’insegnamento, il lato nobile dell’assistenza e della cura, naturali mansioni femminili. Ma l’idea di natura non ha fatto bene alle donne, alla libertà delle donne. E neppure al’insegnamento: apposta è stata inventata la scuola, qualcosa d’innaturale, di extrafamigliare. A proposito di scuola e donne è eccellente, fra gli economisti, e vantaggioso, il laicismo dell’indiano Amartya Sen, il quale ritiene che il futuro terrestre dipenda dalla condizione femminile, dal potere che avranno, o no, le giovani donne di decidere quanto e se procreare. Quindi dalla loro istruzione. Dall’accesso alla peculiare sfera maschile del diritto allo studio e al lavoro retribuito. Guardando al mondo, vediamo incrociarsi la condizione femminile con la povertà e con la scuola il problema enorme della riproduzione della specie. Qui la difficoltà in cui è precipitato il nostro discorso sulla scuola: nel divario sul generico gigantismo mondiale e la ristrettezza del programma italiano in un momento di generica svolta a destra. Se la scuola perde, se perde valore sociale e qualità la scuola pubblica, anche da noi a perdere saranno specialmente le donne che la reggono da anni.
(Da rileggere, al contrario, per l’uso metaforico del pollaio, La gallina volante di Paola Mastrocola, vera e finta insegnante che alle galline insegnava come togliersi la paura di volare. Intanto lei s’è tolta la femminile paura di esporsi in un romanzo sulla scuola).
[…]
Intanto la scuola è finita. È finita l’idea di cosa pubblica. Nessuno se ne stupisca, perché il programma era dichiarato. Cito un documento, sottoscritto da una ventina di firme potenti, di intellettuali e di imprenditori (e fra loro Letizia Moratti). Incomincia così: “Proponiamo una autentica svolta culturale che consenta di costruie in Italia una scuola libera”. E prosegue: “Quasi ovunque, nel dibattito culturale e politico, si sostiene che lo Stato deve ritirarsi dalla gestione diretta di aziende e servizi. Perché non deve valere anche per la scuola?”. Questi sono i tempi nuovi (o bui). Questo è il giardino, l’industrioso giardino (dov’è nata ed è stata subito ambigua l
a modernità)?