Pedagogia militante
Karl Weick, in un articolo seminale del 1976, ha illustrato i meccanismi di funzionamento dell’organizzazione scolastica attraverso una similitudine calcistica:
Immaginate di essere arbitro, allenatore, giocatore o spettatore di una singolare partita di calcio: il campo ha forma circolare: le porte sono più di due e sono sparse disordinatamente lungo i bordi del campo; i partecipanti possono entrare e uscire dal campo a piacere: possono dire: “ho fatto goal” per quanto vogliono, in ogni momento e per quante volte vogliono; tutta la partita si svolge su un terreno inclinato e viene giocata come se avesse senso. Ora, se sostituiamo nell’esempio l’arbitro con il preside, gli allenatori con gli insegnanti, i giocatori con gli studenti, gli spettatori con i genitori e il calcio con l’attività scolastica, si ottiene una descrizione altrettanto singolare delle organizzazioni scolastiche.
La descrizione insiste su alcuni tratti specifici del contesto scuola, ambiente nel quale le prestazioni non si inquadrano secondo modalità uniformi ma, pur in presenza di norme e contenuti stabiliti, dipendono dall’autonomia e dalla sensibilità dei singoli attori. Per interpretare il funzionamento dei servizi educativi, la teoria dell’organizzazione ha introdotto il concetto di organizzazione a legame debole: termine che rimanda ad un’analogia con la chimica e che precisa come le diverse componenti del servizio (dirigente, docenti, personale amministrativo, personale ausiliario, studenti, etc.) godono di notevoli spazi di auto-determinazione con un coordinamento interno ridotto, certamente problematico. Im modo analogo funzionano, per esempio, anche gli ospedali: è proprio della professionalità del medico usare ampi margini di flessibilità nella proposta terapeutica, se si vuole garantire l’efficacia di cure personalizzate rispetto al paziente.
Il legame debole può essere una risorsa, evitare che un errore nel progetto, o un conflitto circoscritto, si ripercuota su tutto il sistema senza possibilità di correzioni tempestive, ma presenta anche due rischi spiegati a suo tempo Piero Romei in Guarire dal mal di scuola. Da un lato scarica sugli studenti e sulle famiglie la frammentarietà degli stili educativi, fatti di metodi e modalità di valutazione eterogenee, esito di una governance, soprattutto nella secondaria, incapace di contrastare la tendenza all’autoreferenzialità del personale docente. Paradigmatico è il momento della valutazione finale magistralmente ritratta in una scena del film La scuola. Dall’altro lascia i singoli insegnanti soli di fronte alla complessità dei problemi didattici ed educativi in un contesto come quello attuale segnato dallo sfarinamento dei sistemi d’istruzione pubblica.
Organizzazione e pedagogia sono considerati dall’OCSE le due variabili chiave sui cui intervenire per migliorare la qualità dei processi formativi. Sul primo si è innescata una discussione pubblica sugli esiti dell’autonomia scolastica introdotta in Italia a partire dal 1997-99 anche in relazione all’approvazione della legge sull’autonomia differenziata. Si vedano gli interventi di Monica Galfré e di Paolo Landri su «Domani». Dal secondo ambito, rispettivamente dalla filosofia dell’educazione e dalla pedagogia, provengono due testi che aiutano a leggere l’attuale crisi dell’educazione. Il primo è Oltre l’apprendimento di Gert Biesta, pubblicato nel 2006 ma soltanto ora disponibile in italiano; il secondo è il pamphlet di Philippe Meirieu, Chi vuole ancora gli insegnanti? che riprende alcune considerazioni sviluppate in Quale educazione per salvare la democrazia? (2023). Si tratta di due autori che hanno già trovato spazio in Doppiozero (qui e qui) accumunati da una postura fortemente critica nei confronti di quel filoni di studi di economia dell’istruzione centrato sulla promozione del capitale umano, variamente inteso. In entrambi si trovano buoni motivi per ritornare a riflettere sui principi educativi che dovrebbero stare alla base di qualsiasi modalità di organizzazione scolastica e di pratiche didattiche orientate alla tutela e promozione della democrazia. Discutere di scuola, in definitiva, significa chiedersi quale sia lo scopo dell’istruzione.
Tra i molti meriti di Gert Biesta, pedagogista e filosofo dell’educazione, nonché direttore del Centre for public education and pedagogy, vi è l’insistenza nel tematizzare senso e funzione dell’attività educativa contro le pretese riduzioniste e totalizzanti degli attuali discorsi sull’istruzione che hanno identificato, come se fosse un’ovvietà, educazione e apprendimento. E se non fosse (soltanto) così?
In Oltre l’apprendimento l’autore capovolge l’idea che il compito dell’educatore sia «produrre o tirare fuori qualcosa» dal soggetto; piuttosto si tratta di mettere al centro della relazione educativa i modi in cui il «soggetto può venire in presenza». Ma cosa significa venire alla presenza in un mondo popolato da altri? Biesta esamina la dimensione educativa dell’alterità in un serrato confronto con Arendt e Levinas. Il concetto tradizionale di comunità come entità costituita da individui che hanno qualcosa in comune viene qui integrato dalla visione presentata da Alphonso Lingis nel suo saggio The Community of Those Have Nothing in Common (1994), nel quale il filosofo americano ha introdotto l’elemento rigenerativo quale condizione di sopravvivenza della comunità razionale stessa. Biesta riconosce alla scuola e alle istituzioni educative un ruolo centrale nella costituzione e riproduzione della comunità razionale, ritenendo questo compito fondamentale per l’esistenza stessa della scuola. Attraverso il curriculum la scuola «da un lato legittima solo certi modi di esprimersi e dall’altro, e proprio per questo, ne delegittima altri» (p. 62). Proprio per tale motivo diviene imprescindibile per chi si occupa di educazione iniziare a chiedersi come gli studenti possano imparare ad esprimere la propria voce, considerando l’apprendimento non nei meri termini di acquisizione di qualcosa di già esistente, ma come risposta ad una domanda verso qualcosa che non è familiare, sfidante, diverso, il «portare qualcosa di nuovo nel mondo, ovvero la propria, unica risposta» (p. 71).
Qui agisce una tesi centrale che l’autore ha sviluppato in diverse opere, tra cui Riscoprire l’insegnamento, l’idea che il compito educativo non può mai limitarsi a promuovere la crescita del bambino, ma deve chiedersi quale tipo di sviluppo sia desiderabile. Il lavoro dell’educatore, in altri termini «non potrà mai consistere nel lasciare che gli studenti sviluppino i loro talenti e raggiungano il loro pieno potenziale» perché l’obiettivo dovrebbe essere quello di mettere in questione i talenti e i potenziali, per capire quali «saranno di aiuto e quali ostacoleranno il raggiungimento dell’adultità – il che richiede necessariamente un’interruzione, piuttosto che il semplice lasciare che tutto emerga, cresca, fluisca e fiorisca» (Riscoprire, p. 23). La posta in palio è una pedagogia capace di tenere in equilibrio autonomia del soggetto ed eteronomia di ogni atto educativo.
L’istruzione, dunque, non ha esclusivamente scopi di natura adattativa all’esistente. La stessa insistenza con la quale la normativa scolastica attuale parla della centralità dello studente, declinata nella ricerca della personalizzazione degli apprendimenti capaci di valorizzare i talenti attraverso il merito, comporta una depauperazione dell’attività d’insegnamento.
In altri interventi Biesta ha distinto tre funzioni dei sistemi educativi che hanno presupposti diversi e che, se da un lato è possibile una loro sinergia, dall’altro esiste un potenziale conflitto: una prima funzione di qualificazione, legata formazione della forza lavoro e, in tal modo, al contributo che l’istruzione dà allo sviluppo e alla crescita economica; una seconda funzione di socializzazione, che riguarda i molti modi in cui, attraverso l’educazione, studentesse e studenti diventano membri e parte di particolari “ordini” sociali, culturali e politici; infine una funzione di soggettivazione: quel «venire alla presenza» di cui si è detto.
Recuperare la terza dimensione significa far emergere la valenza etica e politica dell’educazione, interrogando i presupposti antropologici ed epistemologici che guidano le pratica educativa e che, troppo spesso, vengono dati per scontati o restano schiacciati sotto il peso delle retoriche neoliberiste che hanno prodotto una learnification – espressione intraducibile – di ogni discorso educativo. Vediamo in che senso.
L’attuale linguaggio dell’apprendimento è il risultato di una combinazione di diverse, in parte contraddittorie, tendenze. Biesta, che in altre opere ha inserito come agente di mutamento anche il pervasivo soft power esercitato dall’OCSE con la notevole produzione documentale di studi e ricerche sul vantaggio competitivo che la conoscenza genera, ne identifica quattro: il costruttivismo sociopedagogico che ha spostato l’attenzione dalle pratiche degli insegnanti e la pratiche di apprendimento degli studenti; la critica postmodernista al progetto educativo fondato sull’emancipazione dei soggetti dell’Illuminismo; l’esplosione, silenziosa, dell’apprendimento degli adulti fuori dai contesti formali delle istituzioni educative; l’erosione dei sistemi di welfare che ha accelerato la trasformazione da economia di mercato a società di mercato.
Quale impatto? Una risignificazione del processo educativo nei termini di una «transazione economica», nella quale innanzitutto «l’individuo che apprende è il potenziale consumatore, portatore di determinati bisogni; l’insegnante o l’educatore o l’istituzione educativa sono concepiti come fornitori; la stessa educazione è concepita come una merce. Chiunque abbia, a vario titolo, occasione di confrontarsi con il lessico scolastico può facilmente constatare la presenza di una neolingua dell’istruzione (crediti e debiti formativi, accountabilty, capitale umano, capolavoro, utenza, ecc), vere e proprie parole-mito che, ha spiegato Mino Conte in un denso articolo, hanno legittimato «un nuovo ordine discorsivo [neoliberista] attraverso la performatività delle procedure amministrative che sostituiscono la normatività delle leggi». Con quali esiti? Politiche e pratiche educative egemonizzate dal tema della misurazione e dal confronto dei risultati educativi. Il pericolo è che si finisca per dare valore a ciò che viene misurato, piuttosto che impegnarsi nella misurazione di ciò cui si dà valore, poiché tale aspetto o viene scarsamente tematizzato o è assunto come senso comune non meritevole di ulteriore approfondimento.
Il testo di Meirieu condivide molte delle osservazioni di Biesta: la polemica contro il «consumismo scolastico», esito nefasto dell’esclusiva insistenza sulla personalizzazione degli apprendimenti volta alla valorizzazione dei talenti; la pretesa oggettivizzante degli approcci educativi evidence based; la riduzione dell’insegnamento ad apprendimento.
Due elementi sono di un certo interesse. Il primo è relativo alla funzione salvifica attribuita alla scuola cui si chiede di tutto: dal colmare le disuguaglianze economiche all’insegnamento del codice della strada, dall’educazione all’affettività alla formazione di una coscienza ecologica, dalla consapevolezza del digitale alla promozione di una cittadinanza attiva in grado di contrastare l’astensionismo. Siamo vittime – scrive l’autore – di un «ridicolo incantesimo» che genera frustrazione per i risultati sempre al di sotto delle aspettative in un contesto, vale la pena aggiungere, di costante sottofinanziamento dell’istruzione pubblica che sopravvive grazie allo strutturale pluslavoro gratuito del personale docente.
Il secondo è relativo alla crisi del patto educativo tra scuola e società per una duplice ragione: tecnica e politica. L’attuale organizzazione scolastica si fonda sul modello dell’insegnamento simultaneo: classi di età omogenee dirette da un insegnante che propone lezioni frontali e collettive. Elaborata nel XVII secolo da Jean Baptiste de la Salle, imposto da Guizot negli anni Trenta dell’Ottocento, era la naturale estensione del modello catechistico della Chiesa. Efficacia e semplicità organizzativa unita a precise scelte politiche culturali e scolastiche, hanno reso tale organizzazione naturale. Tuttavia il successo dell’alfabetizzazione di massa ha come conseguenza classi sempre meno omogenee in cui «le differenze di livello e di personalità degli alunni, che prima erano contenute – o nascoste – da un’adesione relativamente condivisa alle norme della buona scuola, mettono in discussione l’insegnamento frontale collettivo». Possibile, si chiede l’autore, che non si possano estendere le numerose proposte dell’attivismo pedagogico maturate sin dagli inizi del Novecento?
Più complesso è il secondo aspetto perché investe le attuali trasformazioni sociali, culturali, forse anche antropologiche determinate dal web 2.0 che riguardano chi la scuola la frequenta, vale a dire gli studenti. In Quale educazione Meirieu scrive ed è un passo che merita di essere citato interamente: “i nostri ragazzi sono passati da un mondo in cui l’obbedienza era la regola e la ribellione l’eccezione a un mondo in cui la libera scelta è la regola e l’obbedienza l’eccezione. (p. 26)”
Senza alcun rimpianto nei confronti di un passato spesso mitizzato, il discorso investe quella crisi dell’autorità nel contemporaneo sui cui Benasayag e Schmit hanno richiamato l’attenzione già diversi anni fa. In ogni caso l’istituzione scolastica si trova, dunque, di fronte ad un impegno contraddittorio: promuovere percorsi omogenei e al contempo accompagnare percorsi individuali di alunni sempre più diversi fra di loro, resistenti di fronte a consegne collettive per i quali i genitori richiedono un aiuto particolarmente dispendiosi in termini di tempo. Si tratta, secondo Merieu, di cogliere che la «scuola non è un insieme di allievi a cui si assegnano lavori individuali, ma uno spazio simbolico cui si arriva a saperi comuni e si impara a cooperare» ribadendo che la fiducia in se stessi non implica necessariamente la fiducia negli altri.
Molte le suggestioni ricavabili dalla lettura dei testi. Mi limito a sottolineare quella che ritengo maggiormente significativa: la politicità dell’insegnamento. Contro la sistematica operazione di trasformare l’insegnante in un tecnico promossa dalle scienze dell’educazione, facilitatore di apprendimenti sempre più personalizzati, Biesta e Merieu sottolineano come la responsabilità educativa sia quella di offrire opportunità affinché i soggetti entrino nel mondo in una dimensione relazionale e cooperativa, attraverso la quale matura un autentico percorso di soggettivazione. Educazione che, nelle parole di Biesta, rimane comunque «una forma di violenza nella misura in cui interferisce con la sovranità del soggetto, ponendo questioni difficili e creando incontri complessi». Fare scuola che, nelle parole di Merieu, significa «istituire uno spazio-tempo che, almeno un po’, sfugga al rumore e la furore del mondo per imparare a parlare e a vivere senza sentirsi minacciati dal terrore delle certezze».
In questa prospettiva la riappropriazione della politicità dell’insegnamento è strettamente connessa alla consapevolezza della delicatezza del ruolo che ambisce a promuovere emancipazione individuale e collettiva attraverso il sapore dei saperi per utilizzare il titolo dell’importante libro di Jean Pierre Astolfi. Gli autori sottolineano quella che dovrebbe essere un’ovvietà: ogni cornice istituzionale sottende una pedagogia esplicita o implicita, ogni intenzionalità educativa si traduce in scelte didattiche precise, ogni discorso sull’istruzione è parte di uno specifico orizzonte politico.
I due autori esprimono una pedagogia militante il cui sapere è messo a disposizione di una certa idea di scuola e di educazione progressista, laica e critica tanto delle scelte di politica scolastica attuate negli ultimi trent’anni tanto delle resistenze, degli stereotipi e dei luoghi comuni che informano le pratiche didattiche della scuola sovente impermeabili a qualsiasi trasformazione.