Inside Out 2: Allarme pubertà!
Si può definire un film che parla della mente, anzi che mette letteralmente in scena quello che accade nella nostra mente, un film cervellotico? E nel definirlo tale, stiamo facendo un complimento alla pellicola o le stiamo rendendo un cattivo servizio? Se l’opera in questione è il seguito di Inside Out – uno dei film d’animazione più celebrati del ricco catalogo Pixar e che alla sua uscita, ormai quasi dieci anni fa, sollevò un acceso dibattito tra psicologi, filosofi e cognitivisti (si veda lo speciale di allora su Doppiozero) – è chiaro che ci muoviamo in un piano terribilmente minato e scivoloso.
Innanzitutto, i sequel sono sempre una brutta gatta da pelare. Perché se del film originario ripropongono pedissequamente personaggi e atmosfere, se insomma vogliono prenderci con facilità all’amo della nostalgia, saranno inevitabilmente accusati di scarsa originalità. Se invece, al contrario, osano alzare la bandiera dell’innovazione, per dare nuova vita a una vena narrativa ormai esausta, finiranno per allontanarsi dalla madrepatria. Saranno quindi portati in giudizio dal tribunale della critica come traditori dello spirito originario e, soprattutto, peccato massimo e mortale, saranno giustiziati in pubblica piazza dagli spettatori: per aver estromesso i loro dolci ricordi – quelle biglie colorate che stanno ordinate da qualche parte nella nostra memoria a lungo termine – che si erano cristallizzati dopo la visione del film capostipite.
Ma questo discorso vale per tutti i sequel. Nel caso di Inside Out, e dell’incredibile prisma di soluzioni grafiche che Pete Docter e compagni erano stati in grado di accendere nel 2015, le sfide si moltiplicano in maniera esponenziale. Inside Out, non serve ricordarlo, era basato su una semplice idea. Farci vedere cosa si nasconde nella testa di una bimbetta di nome Riley, mostrarci l’allegra baraonda di emozioni che cercano di guidarne le azioni e, soprattutto, di connotare emotivamente le tracce psichiche che queste esperienze dell’ambiente esterno imprimono nella mente (in sviluppo) della bambina. È evidente che tutto questo si porta dietro una caterva di implicazioni filosofiche da lasciare annichilito un intero dipartimento di scienze cognitive, ma dal punto di vista cinematografico il risultato è, rivedere per credere, sorprendentemente scorrevole.
Pensiamo alla costruzione del mondo mentale: aree dove ci si destruttura in elementi astratti e studios dove improvvisati attori girano i film dei nostri sogni (e incubi); isole della personalità, che collassano drammaticamente davanti ai nostri occhi, e discariche desolanti dove ricordi inutili e amici immaginari si smaterializzano, scomparendo per sempre (il sacrificio di Bing Bong è una delle scene più strazianti dell’intera storia del cinema d’animazione).
Ma pensiamo anche all’equilibrio narrativo che Inside Out 1 riusciva a stabilire tra l’inside e l’out, appunto, grazie al felice parallelismo tra la scoperta del mondo da parte di Riley e l’esplorazione del territorio sconosciuto della nostra mente. Un lungo e avvincente periplo, nel quale seguiamo la strana coppia ossimorica formata da Gioia e Tristezza avventurarsi tra abissi profondissimi e sinuosi scaffali cerebrali, per riuscire a tornare nella comfort zone della torre di comando. Alla fine, come sempre, è il viaggio che conta: Gioia torna a casa con una nuova consapevolezza – anche le emozioni apparentemente negative, come Tristezza, sono importanti, anzi sono fondamentali – mentre Riley torna tra le braccia dei suoi genitori dopo un tentativo di fuga che, simbolicamente, rappresenta l’uscita definitiva dall’infanzia. E, infatti, il primo film si concludeva con l’installazione di un nuovo allarme nella plancia di comando, sotto cui campeggiava una minacciosa scritta rossa: PUBERTÀ!
Ed è ovviamente da qui che prende l’avvio Inside Out 2. Riley è cresciuta, anche se non troppo, e all’inizio del film la ritroviamo in partenza per un campus di hockey sul ghiaccio (il suo sport preferito, fin da piccolina), nell’estate prima dell’inizio della scuola superiore. Cosa succede nella mente della nostra protagonista umana una volta che si attiva l’allarme rosso della pubertà? Succede che il più piccolo tocco sui controlli della nuova plancia innesca una risposta sproporzionata nell'un-tempo-equilibrata Riley, cosa che getta nel panico le nostre cinque emozioni primarie.
Ma le brutte sorprese non finiscono qui: irrompono nella torre di comando nuove emozioni, tra cui una scattante e fagocitante Ansia, un enorme e inibito Imbarazzo e una sprezzante e blasé noia, chiamata per l’occasione, con un tocco francese, Ennui. Queste nuove emozioni combattono la vecchia guardia per il controllo dell’anima di Riley, e questo conflitto finisce per spezzare la configurazione psichica della ragazza. E così le nostre vecchie emozioni, estromesse dal comando, dovranno intraprendere, questa volta tutte e cinque insieme, un nuovo viaggio mentale, tra stravolgimenti e cataclismi improvvisi, imparando a collaborare tra loro e a riconoscere il valore formativo delle crisi.
Nuove cognizioni di sé e degli altri, montagne russe emotive, ansie e imbarazzi prima mai sperimentati, emergere di nuovi desideri sociali con complicate faglie di rotture tra vecchie e nuove amicizie. Il sequel, affidato alla regia di Kelsey Mann, vede la transizione adolescenziale come un deflagrante rito di passaggio, che passa attraverso l’abbandono e poi il recupero dell'innocenza infantile. E lo fa con la capacità di immaginare soluzioni grafiche notevoli, tra nuove ambientazioni – la sala, molto miazakyana, delle credenze, o il caveau dei segreti inconfessabili (una delle parti più divertenti del film) – e scene che riescono a rendere con efficacia concetti sfaccettati e profondi (ad esempio: come fa l’ansia a immobilizzarci in un attacco di panico se la sua caratteristica è quella di renderci perennemente in movimento e in allerta?).
Eppure, alla fine, il risultato è un po’ contorto e ripetitivo e, nonostante molte gag divertenti, non riesce ad emanciparsi dal confronto impari con il primo capitolo. Ma non è solo questo il punto. Si può affrontare la pubertà senza mai menzionare l’emozione più importante e conturbante che si porta dietro? Non chiediamo di accennare a quella parola impronunciabile nell’universo disinfettato della Disney, che comincia con esse e finisce con la o, ma aver scientemente deciso di espungere qualsiasi riferimento, anche indiretto e ironico, all’attrazione sembra francamente troppo. Paradossalmente, nel primo capitolo qualche richiamo all’amore si trovava (il generatore di fidanzati immaginari, l’isola delle boyband…), mentre a questo giro il desiderio è il vero elefante nella stanza. Una decisione miope, considerato anche il coraggio dimostrato dalla Pixar in altri frangenti. Ad esempio, sdoganando il tabù della morte nei film per bambini (Alla ricerca di Nemo e Up), ma anche, più recentemente e rimanendo in ambito adolescenziale, trovando il modo di rappresentare con grazia e senza infingimenti lo sviluppo e l’arrivo delle mestruazioni (Red). Al contrario, l’adolescenza di Riley – che alla fine va benissimo a scuola, nello sport e anche nelle relazioni sociali – appare liscia e piatta. Insomma, l’allarme rosso puberale è scattato, ma il sistema antincendio è stato fin troppo efficiente.
In fondo, i problemi di questo seguito sono figli del successo stesso di Inside Out, che con eleganza creativa era riuscito ad ottenere la massima semplificazione partendo da premesse che tendevano alla massima complessità. Con questo sequel le cose si fanno invece più cervellotiche e meccaniche, come accade spesso alla Pixar quando pretende di tirare fuori dei lungometraggi da idee che potrebbero benissimo esaurirsi in un cortometraggio. Del resto, se riapri un sistema narrativo che aveva già raggiunto il suo equilibrio, inevitabilmente ti ritroverai a fare i conti con un mare di contraddizioni.
Nel primo film Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia riuscivano ad avere una propria rotondità psicologica rimanendo ancorati all’emozione base che rappresentavano, perché ogni stato d’animo non è mai puro ma, piuttosto, un fascio di diverse nuances e derivazioni emotive. E infatti Tristezza colorava di nostalgia i ricordi del Minnesota, mentre Disgusto e Paura esprimevano forme diverse d’ansia e imbarazzo, quando Riley faceva il suo ingresso nella nuova scuola di San Francisco. Ma se moltiplichi le emozioni che armeggiano, litigando, al comando della plancia del cervello, il gioco non funziona più: le nuove emozioni saranno monodimensionali, mentre le vecchie perderanno la loro riconoscibilità (ok, già nel primo film Gioia piangeva e Tristezza sorrideva, ma erano eventi eccezionali, che segnavano l’evoluzione della storia). Tanto che Gioia, alla fine di questo film, è più simile alla Temperanza che alla Joie de vivre. E poi, perché le nuove emozioni di Riley non le vediamo anche nelle menti degli adulti? Fino al problema più grosso di tutto: se hai costruito un sistema in cui gli umani (e anche gli animali, in verità) sono governati da omuncoli che stanno nelle loro teste, come è possibile che nella scena risolutiva del sequel le emozioni attendono che la ragazza agisca da sola, diventando così spettatrici di un film di cui loro stesse sono le registe?
Un’ultima nota, per concludere. È indubbio che il personaggio centrale di Inside Out 2 sia Ansia. È lei che si sostituisce a Gioia al comando, è lei che porta alla massima pressione e tensione, a un passo dalla rottura, l’anima di Riley. Mettere al centro l’ansia per parlare di adolescenza, denunciarne la rilevanza, è certamente una scelta significativa, che infatti viene sottolineata con approvazione in moltissime recensioni. Ma pensare che questa centralità sia un prodotto naturale dello sviluppo cognitivo e psicologico, come sembra suggerirci il film, e non il frutto amaro di una società sempre più competitiva e socialmente spietata, esprime bene, purtroppo, lo spirito dei tempi in cui viviamo.