L’utopia dell’abbazia di Pontigny
Se le pietre potessero parlare, cosa racconterebbe l'abbazia di Pontigny? "Seconda figlia" di Cîteaux, abbazia madre dell'Ordine Cistercense, quella di Pontigny è una delle quattro abbazie primigenie fondate dai monaci di Cistercium. Di questo imponente complesso oggi rimane solo la cattedrale romanica, che si erge enorme e austera tra i campi della Borgogna, nel dipartimento della Yonne. Se potessero parlare, cosa racconterebbero le pietre calcaree di questa splendida abbazia?
Senza dubbio, ci parlerebbero di quel giorno del 1114 quando Hugo di Mâcon, con un pugno di monaci, arrivò in quella zona paludosa e malsana e, gettato uno sguardo d’attorno, decise di stabilirvisi. Chissà quale fu la visione che lo portò ad immaginare un futuro d’ordine e preghiera per quelle terre, e una nuova vita laboriosa, fatta di studio e di attività manuali, per quei monaci, destinati a lievitare di numero rimanendo, tuttavia, uniti per secoli come dita d’una stessa mano. Forse accennerebbero, le pietre di Pontigny, a quando l'abbazia diede asilo, qualche decennio dopo la fondazione, ad un caparbio prete inglese: tornato in patria, Tommaso – questo il suo nome – trovò la morte nella Cattedrale di Canterbury, per il filo di spada di quattro cavalieri fedeli al Re d’Inghilterra. Ma, si sa, rispetto alla nostra, le pietre hanno una percezione diversa del tempo, e arriverebbero in fretta a raccontare di quando, con l’incendiarsi degli animi nella Rivoluzione Francese, l'abbazia di Pontigny e la sua comunità cenobitica furono soppresse, l’unità architettonica del complesso irrimediabilmente compromessa dalle distruzioni.
In un altro battere di ciglia geologiche, i bianchi mattoni di Pontigny salterebbero quindi al 1906, quando un professore parigino dalla barba curata acquistò il Bâtiment des Convers e la tenuta abbaziale – al prezzo stracciato di 61.700 franchi! – trasformando l’edificio, ormai da tempo abbandonato, nell’abitazione di campagna sua, della moglie e dei loro quattro figli. Possiamo immaginare l’eccitante bellezza di quelle stanze e di quel giardino, un'abbazia intera da esplorare nelle infinite giornate estive. E invece, alle nove di mattina del 3 luglio del 1908, uno dei bambini del professore scivolò nel canale su cui affaccia il mulino dell’abbazia, affogando. Anche le pietre, ne sono certo, piansero la morte di quel bimbo sfortunato, di sette anni appena.
Il padre di quel bambino era Paul Desjardins, filosofo, pedagogo e infaticabile animatore culturale francese. Ed è con la morte del piccolo François – che segna tragicamente la storia familiare dei Desjardins, ma anche la rinascita dell’abbazia di Pontigny come consesso di comunione e pensiero – che inizia simbolicamente il libro di Caterina Zamboni Russia “La più piccola repubblica d’Europa” (edizioni il melangolo). Sì, perché fu questo lutto a fornire il pretesto, o potremmo dire la ragione più intima, per l'avvio delle Décades di Pontigny, una delle esperienze intellettuali più significative nel panorama culturale europeo della prima metà del Novecento. Sublimare lo strazio della perdita facendo fiorire, in quel luogo irrimediabilmente marchiato dal dolore, un libero affratellamento spirituale, rizomi e radici che avrebbero riempito il vuoto della morte di nuove relazioni, e di parole da evocare insieme e insieme condividere.
Ogni anno, infatti, dal 1910 fino alla Grande Guerra e dal 1922 fino allo scoppio della violenza nazifascista, estate dopo estate l’abbazia di Pontigny ha riunito alcuni tra i più importanti intellettuali francesi e non solo – nomi del calibro di André Gide, Paul Valéry, Martin Buber, François Mauriac, Antoine de Saint-Exupéry, André Malraux, Thomas e Heinrich Mann e molti altri ancora – ospiti delle cure e delle sollecitazioni dei coniugi Paul e Marie Amélie Desjardins. Non un ritorno posticcio alle regole e ai rigori cenobitici, ma una convivialità affezionata alla mezza misura, dove il lusso era bandito insieme a qualsiasi inutile sfoggio oratorio. Per dieci giorni, seguendo il ritmo dei coups de cloche, la campana che scandiva la quotidianità dell'abbazia, i decadisti condividevano abitudini quotidiane: frequentavano la biblioteca e pranzavano insieme e, soprattutto, partecipavano alle conversazioni e alle discussioni itineranti nel giardino, sui temi di volta in volta proposti agli ospiti riuniti: questioni educative, filosofiche, politiche, letterarie, che si alimentavano dei diversi interessi dei decadisti e delle urgenze che la realtà sociale e politica poneva loro innanzi.
In felice equilibrio tra approfondimento filosofico e ricerca storica – grazie alla consultazione di materiali d’archivio, per lo più inediti, messi a disposizione da Edith Heurgon, nipote di Desjardins e direttrice del centro culturale di Cerisy-la-Salle, che porta avanti la tradizione di Pontigny – il libro di Zamboni Russia permette di entrare con affondi analitici nello spessore di queste discussioni, attraverso il doppio movimento narrativo che lega insieme il genius loci dell’abbazia, con la sua lunga storia e le sue alterne fortune, e la figura di Paul Desjardins, che a partire da un dolore così personale ha fatto rinascere quel luogo in un progetto, antico e moderno insieme, di comunione intellettuale e pensiero riformista. Quello che emerge è il ritratto di un uomo gentile ma testardo, un aggregatore in grado di creare le condizioni migliori perché le idee potessero concretizzarsi e fiorire, mettendo insieme persone anche molto diverse tra loro – come pure da sé: lontane, ad esempio, dal mondo cattolico al quale Desjardins apparteneva – blandendo e tenendo a bada personalità ingombranti con caratteri, come spesso accade in ambito intellettuale e artistico, per nulla facili da trattare. Si pensi allo stretto rapporto con André Gide e il suo entourage, che si riuniva intorno alla Nouvelle Revue Française fondata nel 1908 e di cui Gide era direttore, che alle discussioni della Décades fornirono un fondamentale apporto.
I capitoli che più colpiscono sono quelli in cui gli ideali umanistici e cosmopoliti di Pontigny si scontrano con la tempesta montante dei nazionalismi, delle ideologie che fanno leva sulla supremazia patriottica e razziale, e che con lo scoppio della guerra nel 1914 aprono nel paesaggio della cultura europea nuovi deserti di pensiero. Ad esempio, separando artificialmente il mondo culturale francese da quello tedesco, che a Pontigny erano sempre stati in feconda comunicazione. E difatti, alla ripresa negli anni Venti dopo la fine del conflitto, molte Décades sono dedicate al tema della riconciliazione internazionale, ai tentativi di stabilire un ordine mondiale intorno alla nascente Società delle Nazioni, come pure alla creazione di ponti di scambio e dialogo con la realtà russa e sovietica.
Ma, i contemporanei non potevano saperlo, la Grande Guerra era solo un preludio, la fenice del nazionalismo e del razzismo stava rinascendo più forte di prima sotto l’ombra di Cesare, con il volto sempre più minaccioso dei totalitarismi nazifascisti, che incendiarono le società europee e i rapporti tra gli stati in una nuova terribile spirale di violenza e di guerra, che tutto spazzò via. A partire dall’abbazia stessa, la sua biblioteca, i suoi archivi e una vita di corrispondenze appartenenti alla famiglia Desjardins; tutto distrutto e trafugato nel 1942 dal commando dell’armata tedesca che aveva occupato il Bâtiment des Convers. Si salveranno solo alcune scatole di scarpe, ritrovate fortuitamente dopo la guerra; contenevano circa duemila fotografie, testimonianza preziosa della presenza nell’abbazia di numerosi filosofi e pensatori tra i più illustri del Novecento. Una traccia nascosta di una storia che poteva finire per essere dimenticata e che invece, forse grazie all’intervento invisibile delle stesse pietre di Pontigny, è giunta per fortuna fino a noi.
A fine lettura rimane una sinistra inquietudine. Mai avremmo pensato di rispecchiarci nello smarrimento che certamente Desjardins e i suoi sodali provarono allora, nel vedere la propria Europa sospinta sempre più verso l’abisso bellicista e nazionalista. E invece oggi assistiamo anche noi allo spettacolo di autocrati orientali e democrazie smarrite che si ritrovano all’unisono a scandire opposti latrati di minaccia, mentre le élites al potere piegano a nuove e malefiche logiche di guerra quell’Unione Europea nata proprio sulle macerie della guerra e sul suo rifiuto. Come abbiamo visto fare nell’ultimo Consiglio d’Europa a Bruxelles: corsa al riarmo, difesa preventiva, propaganda e mobilitazione delle opinioni pubbliche, svilimento della diplomazia e della pace, cecità di fronte al pericolo nucleare. L’umanesimo di Pontigny non fu sufficiente a fermare la slavina dei fascismi e della violenza, ma ci fornisce almeno un modello a cui aggrapparci.