Il comico suo malgrado. Joker: Folie à Deux
“Comico suo malgrado è il colmo del comico. | Spesso patetico fu il comico con intenzione. | Tragico suo malgrado è il solo possibile | esito imprevedibile della commedia. | Non cerco la tragedia ma ne subisco la vocazione.”
Con quella capacità unica di sintetizzare insieme motto paradigmatico e ironia, Giovanni Giudici scriveva così nel lontano millenovecentosessantotto. Quasi sessant’anni dopo, mentre mi accingo a scrivere di Joker: Folie à Deux – il seguito del fortunatissimo primo film Joker del 2019, che aveva fatto incetta di premi, riconoscimenti e incassi – mi ritrovo a pensare a questi versi, quasi contenessero l’enigmatico destino di questo strano Oggetto Cinematografico Non Identificato da poco uscito nelle sale, e che già tanto (troppo) sta facendo parlare di sé.
E sì, perché cosa mette in scena Todd Phillips? Il comico suo malgrado o, al contrario, il tragico suo malgrado? O forse il patetico del comico? E come si presenta dal punto di vista formale questa già così amata/odiata pellicola? Detto altrimenti, quali sono i mezzi – come sempre bisognerebbe chiedersi quando si parla di cinema – a disposizione di questa opera inclassificabile, figlia dell’abbraccio impuro tra autorialità e mercato, che si proietta scintillante, seducente e ripulsiva allo stesso tempo, contro il cielo nero e smisurato delle aspettative del pubblico e degli investitori?
Per prima cosa, diciamo subito che siamo di fronte a un dittico: due film legati tra loro in modi peculiari, ma che certamente non possono esseri considerati la semplice continuazione l’uno dell’altro. Anzi, ad esser più precisi, se fosse una partitura – e la musica ha un ruolo centrale in questo secondo capitolo, come del resto lo aveva avuto, in modi completamente diversi, nel primo – Folie à Deux andrebbe definita come una variazione sul tema di Joker. E qui, forse, ha origine la prima grande delusione, quel senso di abbandono quasi infantile che ha colpito molti spettatori, che si sono sentiti “traditi” da Phillips.
Una variazione sul tema, perché in apertura di Folie à Deux non ritroviamo Joker – che avevamo lasciato alla fine del primo film nelle mani della polizia, mentre una folla di emuli con la maschera da clown invadeva le strade di Gotham City – bensì un detenuto ridotto a uno stato larvale, una scoria umana soggiogata da un’istituzione totale à la Erving Goffman.
Arthur Fleck (interpretato sempre in maniera impeccabile da Joaquin Phoenix) è rinchiuso in attesa di giudizio per l’assassinio di cinque persone – sei, contando anche la madre – e pur essendo il noto criminale che ha ucciso in diretta TV il presentatore Murray Franklin, quella sua trasposizione pubblica sembra definitivamente evaporata. Arthur è ormai solo un corpo inerme ed emaciato alla mercé di violenti aguzzini in divisa, parte di quell’umanità scartata e patologica che vive reclusa nell’Arkham Asylum.
Non c’è più Joker, ma neanche Arthur è più sé stesso: niente spastiche risate, niente barzellette involute. La storia non procede linearmente, ma segue piuttosto un andamento a spirale. Il nastro si è in qualche modo riavvolto e quello a cui assistiamo non è un sequel, ma un nuovo tentativo meta-finzionale di raccontarci le origini oscure, eppure profondamente sociali, di Joker.
Ma è realmente così? Phillips e il suo sceneggiatore Scott Silver ci stanno realmente raccontando le origini del criminale pagliaccio? Ovvero del supervillain di una delle mitografie più persistenti del mondo originario, e a sua volta mitico, del fumetto supereroistico a stelle e strisce, quella dell’uomo-pipistrello creato da Kane e Finger alla fine degli anni ‘30?
Senza Batman non ci può essere Joker, i due personaggi sono uno il calco inverso dell’altro, come ha dimostrato Alan Moore in Batman: The Killing Joke. Eppure, se vi ricordate, nel film del 2019 Batman era presente solo in potenza: un bambino ancora ignaro del lutto che lo avrebbe colpito, che guarda da dietro un cancello un adulto freak, Arthur appunto, che prova a strappargli un sorriso con strani numeri di magia, prima che il fedele Alfred compaia a cacciarlo malamente via. Arthur, il futuro Joker, è un adulto, mentre Bruce Wayne, il futuro Batman, un bambino (e se non soffrissimo di deficit dell’attenzione, questa discrepanza generazionale avrebbe dovuto metterci tutti sull’attenti). Ma in Folie à Deux il cavaliere oscuro con le orecchie a punta non viene neanche più evocato, perché non serve come corrispettivo di Joker, e della palingenesi che verrà. Il nastro si è riavvolto, e prima di riprendere i panni di Joker – se questo è realmente il suo destino – Arthur Fleck deve tornare umano, riconquistare innanzitutto la propria soggettività.
Motore di questa dinamica è Harley Lee Quinn (Lady Gaga). È la musica a farli incontrare, tra le mura del carcere: un laboratorio di coro. La relazione d’amore malata, ma insieme terapeutica, che Harley e Arthur intessono è inanellata su un filo di vecchie canzoni da big band, splendidamente arrangiate e grandiosamente interpretate da Lady Gaga e Phoenix. Folie à Deux non è un musical, come qualcuno frettolosamente ha sentenziato, ma è infarcito di allucinati duetti romantici, che lavorano per contrasto con l’orrore e la follia dell’ambientazione e dei personaggi. Il canto come terapia. E la cura sembra funzionare, anche se non nelle direzioni attese.
Mentre le note scorrono e Arthur e Lee cantano (o sognano di farlo), il film scivola dal dramma carcerario al legal thriller. L’azione si sposta nelle aule di tribunale, dove Arthur sta per essere giudicato per gli omicidi che ha commesso, o forse sarebbe meglio dire, per gli omicidi commessi da Joker. La schizofrenia è anche la linea difensiva seguita dalla premurosa avvocata di Fleck, che però viene licenziata improvvisamente dal suo cliente, che decide di difendersi da solo. Il processo è naturalmente un processo pubblico, ossessivamente seguito dai media e da una folla accampata fuori dal tribunale, tra cui non mancano i sostenitori coperti dalla maschera clownesca. Il pubblico vuole Joker e Joker avrà.
E invece, giunto al climax Arthur Fleck si sottrae, rifiuta di annullarsi nella dissolvenza finale, comprende di non essere lui il regista dello spettacolo, di essere un’altra volta oggetto e non soggetto dell’azione. Questa consapevolezza in qualche modo lo emancipa, lo libera mentalmente dall'alienazione del carcere, come pure dalle aspettative di una folla che non insegue la rivolta o la comprensione, ma solo l'intrattenimento (That's Entertainment!). Arthur alla fine è un sopravvissuto: un sopravvissuto al sistema concentrazionario, un sopravvissuto all’inganno e alla manipolazione operata dalla sua stessa Lee, un sopravvissuto a un sogno malato di amore e, soprattutto, un sopravvissuto a Joker.
E qui si scioglie anche una delle maggiori incomprensioni che aleggiano intorno al film dal 2019. Nonostante l’esaltazione mal riposta di molti commentatori di sinistra, il primo Joker non era un film politico. Lo aveva già sottolineato con acume Slavoj Žižek. La traiettoria pubblica del personaggio non esce mai da una natura pulsionale e pre-politica: i suoi scatti di violenza sono solo impotenti esplosioni di rabbia, esternazioni della sua impotenza di base. E la protesta, di cui Joker è in qualche modo motore, assume solo la forma di una nuova tribù, che non è portatrice di alcun programma politico positivo.
Per essere più precisi, possiamo dire che la pulsione di rivolta di Joker è puramente pantoclastica: l'impulso morboso a rompere tutto ciò che ci circonda, una manifestazione di stati di eccitamento maniacali o schizofrenici, oppure di una reazione isterica, ma certamente non politica. E se è vero che sentimenti sociali diffusi di pantoclastia possono favorire momenti rivoluzionari, gli esiti politici di queste rivolte non possono essere definiti a priori, dipendendo da dinamiche di soggettivazione politica che vanno oltre a quell’originale impulso, violento e informe. Un esempio storico lampante di queste dinamiche è l’Italia di inizio novecento, quando sentimenti anti-borghesi e di distruzione dell’ordine costituito, passando per l’ubriacatura nazionalista e interventista, assunsero presto connotazioni regressive e reazionarie, che saranno alla base del fascismo.
“Si dovrebbe prendere nota del cognome di Arthur, Fleck, che in tedesco significa chiazza/macchia” – e torniamo a Žižek in Una lettura perversa del film d’autore (Mimesis, 2020) – “Arthur è una macchia disarmonica all'interno dell'edificio sociale, qualcosa che manca di un proprio posto. Eppure, ciò che lo rende una macchia non è solo la sua deprimente esistenza marginale, ma principalmente una peculiarità della sua soggettività, la sua propensione a scoppi di risa compulsivi e incontrollabili.”
E infatti quello a cui Arthur Fleck anela per tutta la sua parabola è la risata spontanea e genuina, come propria liberazione e come comunione con gli altri, e invece è sospinto sempre a guardare in faccia la tragedia della vita, la sua insensata violenza e la ferocia di cui si nutre il potere. Non cerco la tragedia ma ne subisco la vocazione, per tornare ai versi di Giudici.
E se alla fine della visione di Joker: Folie à Deux ne usciamo ammirati ma in qualche modo anche svuotati, se in uno sguardo d’insieme percepiamo come questo monumentale nuovo capitolo sia paradossalmente un esito coraggioso ma, in fondo, anche una versione depotenziata del primo, forse la colpa non è da cercare nella scatola nera del film. È Il mondo a essere diventato molto più disumano e intollerabilmente ipocrita di allora, stretto com’è tra ecocidi, genocidi, guerre e annunciati suicidi delle democrazie. Se la pazzia che mette in scena Joker: Folie à Deux ci sembra non abbastanza convincente è perché siamo ormai assuefatti a questa folle e terribile danza sui bordi del vulcano, a cui prendiamo parte tutti, senza neanche il bisogno di indossare una maschera da clown. Ed è questo il vero orrore.