Giovanna Marini, vivere la musica
Ci sono canzoni di Giovanna Marini che una volta che le ascolti, una volta che sono entrate nel tuo orizzonte sonoro, puoi essere certo che non ne usciranno più. È difficile dire se sia per il timbro, i colori inconfondibili della sua inconfondibile voce – strumento musicale incredibilmente duttile ed esteso – o se per la capacità di intessere linee melodiche imprendibili su schemi apparentemente semplici. Strutture armoniche che a loro volta si complessificano all’improvviso, come quando, dopo una curva, il paesaggio ci cambia sotto gli occhi, senza preavviso.
Prendiamo la sua canzone più conosciuta, I treni per Reggio Calabria. I fatti storici sono noti: egemonizzata dalla destra neofascista, nell’estate del 1970 ha inizio la cosiddetta «rivolta di Reggio Calabria», nel corso della quale si avranno scontri e violenze, anche con vittime, nonché attentati dinamitardi sui treni. L’inizio del decennio è segnato da molti timori, perché dopo Piazza Fontana l’Italia è scossa da attentati, tentativi di colpo di Stato, scontri di piazza e repressione violenta della polizia, spesso con morti a terra da piangere e seppellire. In questo contesto di bombe e di terrore, i sindacati metalmeccanici decidono di organizzare una grande manifestazione antifascista in solidarietà con i lavoratori calabresi, direttamente a Reggio Calabria: per la prima volta sono gli operai del Nord e del Centro che scendono al Sud, e non viceversa. L’appuntamento viene fissato al 22 ottobre del 1972. Ma i neofascisti tentano di impedire l'arrivo con una serie di attentati ai convogli in viaggio, tuttavia i manifestanti non demordono: arriveranno in 40.000 a Reggio Calabria e ai treni speciali si aggiunge anche una nave, noleggiata dagli operai dell'Ansaldo di Genova.
Come raccontare questo epico viaggio, le sue incertezze, la paura che annichilisce ma anche la forza di essere insieme? Giovanna Marini ci riesce dipingendo immagini vivide, in presa diretta, ma quasi surreali e cariche di liricità.
Ecco il treno che pareva un balcone – perché tutti sono sporti fuori dai finestrini, con le bandiere rosse che sventolano come panni stesi – oppure l’immagine dolcissima dei sindacalisti sdraiati sulle reti dei bagagli per vigilare meglio la massicciata, ma crollano addormentati come bambini. Ma non è solo il racconto a rimanere impresso, è anche la capacità tecnica di dilatare e accelerare le parole cantate, inseguendo il ritmo incerto del treno, tra partenze, fermate e ripartenze. Toglie letteralmente il fiato, rendendo infatti I treni di Reggio Calabria una delle canzoni in assoluto più difficili da cantare. Provare per credere. Giovanna Marini invece la eseguiva sempre con estrema facilità: con la chitarra classica che gira sorniona intorno a quei due, tre accordi, mentre lei intarsia una linea melodica imprendibile, come fosse la cosa più normale del mondo.
Guai, però, a pensare che questa naturalezza sia sinonimo di inconsapevolezza. Tutt’altro. Non solo perché Giovanna Marini ha respirato musica fin da bambina: suo padre, Giovanni Salviucci, era un compositore piuttosto affermato, purtroppo scomparso in giovane età, mentre sua madre, Ida Parpagliolo, è stata una delle prime donne ammesse all’insegnamento al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, cattedra di armonia complementare. E proprio a Santa Cecilia Giovanna si forma e si diploma in chitarra, perfezionandosi con la leggenda vivente delle sei corde Andrés Segovia. Ma è l’incontro folgorante – per il suo modo di intendere la musica e per i frutti che ne sarebbero scaturiti – con la musica popolare, di derivazione rituale e rurale, ma anche con il filone sommerso delle canzoni di protesta e di lotta, a segnare la sua vita.
A Milano Giovanna Marini conosce il gruppo dei Cantacronache: Roberto Leydi, Michele Straniero, Ivan Della Mea, Sergio Liberovici, Fausto Amodei, e naturalmente Giovanna Daffini, che con la sua forza espressiva e tecnica rimarrà come un sigillo sul suo modo di cantare. Ma conosce anche Dario Fo, con il quale metterà in scena Bella ciao, lo spettacolo “scandalo” del 1964 a Spoleto, che diede vita all’esperienza del Nuovo Canzoniere Italiano. E poi scrittori come Italo Calvino, che con i Cantacronache collaborava e che nel suo lavoro sulle fiabe italiane declina in fondo la ricerca di un’intera generazione che, come i pittori del Rinascimento con le pitture segrete della Domus Aurea, portava alla luce la miniera ancora inesplorata della tradizione popolare.
È il revival folk, ovvero la scoperta, la ricerca, la reinvenzione della tradizione orale. Un movimento tellurico, magari all’inizio minoritario, che scuote il mondo musicale italiano degli anni ‘60, ancora bloccato nella contrapposizione tra cultura alta e cultura bassa, e su una musica leggera, anzi leggerissima, fatta di bel canto e tematiche innocue e stereotipate, con i cantautori ancora al di là da venire. Un revival che si alimenta, e alimentava a sua volta, l’impegno politico e sociale di un mondo intellettuale che guarda decisamente a sinistra, e che cerca la vicinanza col popolo, senza troppi intellettualismi ma con rigore, e che è pronto a dare voce, ma anche a imparare, dagli oppressi e dalle classi subalterne.
E in questa temperie Giovanna Marini è una protagonista eccezionale, impegnata, rigorosa, tuttavia sempre attenta al suono, al vivere pienamente la musica. Basterebbe la sua voce, come abbiamo detto, a provarlo, ma non è solo lo strumento del corpo che adopera e affina la Marini, sono anche le sue grandi doti di compositrice ad essere messe a servizio del mondo popolare e della lotta politica. Doti compositive che emergono in maniera limpida in un’altra canzone, lo struggente Lamento per la morte di Pasolini, che Giovanna Marini scrive dopo la barbara uccisione del suo amico PPP, che le aveva insegnato a lavorare sulla sonorità dei dialetti e che rimarrà sempre per lei un punto di riferimento imprescindibile. Il Lamento, che sembra quasi un madrigale, si dipana intorno allo scorrere delle ultime ore di Pasolini. Con andamento classico – rotto dal finale, tempestoso e incredibile, che si scioglie nell’irrimediabilità di quel verso ripetuto più volte: “non può più parlare” – Giovanna Marini riesce a trovare una lingua antica e moderna insieme, per descrivere per contrasto lirico lo sdegno e l’orrore infinito dell’assassinio di un poeta.
Sono tante altre le Giovanna Marini che andrebbero raccontate. Una musicista colta, una sperimentatrice della voce al pari di un’altra artista, quasi sua coetanea, Meredith Monk, una compositrice per il cinema e il teatro, una ricercatrice e una abitatrice della musica popolare, un’attivista infaticabile. Ma anche un’insegnante generosa, che con la Scuola Popolare di Musica del Testaccio ha formato migliaia di adulti e ragazzi. A Roma, in particolare, il suo magistero è stato fecondo, ben oltre l’ambito del folk.
Basti pensare a come Francesco De Gregori abbia più volte ripetuto come la musica e l’esempio di Giovanna Marini siano stati fondamentali per lui. Ed è infatti la voce di Giovanna Marini a segnare significativamente una delle più belle canzoni di De Gregori, L’abbigliamento di un fuochista uscita in Titanic nel lontano 1982. E insieme, De Gregori e Marini, daranno vita venti anni dopo a quello strano ibrido tra canzone popolare e rock che è il disco forse più conosciuto della ricca discografia della cantante romana: Il fischio del vapore.
E anche se la sua musica richiedeva la presenza fisica, la voce che rimbalza per piazze, teatri e chiese (mi ricordo un concerto da brividi a San Lorenzo alle Colonne a Milano), perché il canto è espressione collettiva di vita e di lotta, dobbiamo continuare ad ascoltare le canzoni di Giovanna Marini: c’è ancora molto, molto da scoprire e imparare.