Intervista a Ingo Schulze
È uscito per Feltrinelli il nuovo libro di Ingo Schulze, Arance e angeli. Bozzetti italiani, con fotografie di Matthias Hoch. Sono racconti ambientati nel nostro paese, scritti da Schulze dopo un soggiorno presso l’Accademia tedesca di Villa Massimo a Roma. Pubblichiamo un’intervista di Stefano Zangrando, traduttore di Schulze, sul rapporto di quest’ultimo con l’Italia.
Non dev’essere stato facile confrontarsi da scrittore tedesco con una materia italiana, considerata l’imponente tradizione che hai alle spalle – Goethe, Seume...
Sì, naturalmente vi è in questo una certa temerarietà. Ma quando nel 2007 mi trovavo a Villa Massimo invidiavo i miei colleghi che giravano per la città con il blocco da disegno o la macchina fotografica. Volevo fare anch’io qualcosa di simile. E quando si prova a scrivere su un certo argomento, si è più precisi e si ha la sensazione di essere più vicini alle cose. Per questo ho voluto cimentarmi anch’io con degli schizzi, con dei bozzetti italiani.
Com’è nata l’idea di combinare i racconti con le foto di Matthias Hoch?
Le fotografie e i racconti sono nati separatamente le une dagli altri. Io le considero esplorazioni con pari diritti nello stesso territorio. Matthias Hoch, che fu a Roma tra il 2003 e il 2004, è noto per le sue grandi foto di archittettura, che richiedono molto lavoro preparatorio. Ammiro queste immagini, ma non volevo da lui queste opere forbite, bensì dei lavori dal suo blocco da disegno, per così dire. Per me questi lavori sono una scuola dello sguardo. È stato bello ricevere le sue continue proposte sui gruppi di immagini da inserire nel libro. Mi sarebbe piaciuto avere molte più foto. E quelle che appaiono ruvide e inappariscenti sono quelle in cui c’è più da scoprire.
I personaggi e i temi dei tuoi racconti hanno qualcosa di politico nel fatto di mostrare un’“altra” Italia, popolata di figure marginali, anziani, immigrati ed eccentrici: un paese del quale persino molti italiani non prendono atto volentieri. È il frutto intenzionale di un progetto pensato anche o soprattutto per i lettori tedeschi?
No, non avevo nessun progetto del genere. Io stesso alla fine, quando ho messo insieme i nove racconti, mi sono meravigliato di come proprio nei tre racconti più lunghi fosse evidente il confronto con gli “altri”, migranti, illegali, con i cosiddetti margini della società. Col senno di poi mi appare quasi conseguente: tutto incomincia là dove era finito l’ultimo racconto di Bolero berlinese. E anche ciò cui vorrei lavorare adesso va in questa direzione. Per capire noi stessi dobbiamo percepire l’altro. Possiamo comprendere realmente le conseguenze della nostra vita quotidiana in Europa soltanto se guardiamo al mondo intero.
La maggior parte dei racconti ha qualcosa di novellistico, che fa pensare al modello boccaccesco. È stata importante per te la tradizione novellistica italiana?
Sì, è stato uno stimolo importante. Ma ho fatto un ulteriore passo indietro, fino ai Gesta romanorum, queste storie tardo-antiche e medioevali. Proprio in questo periodo sto leggendo La certosa di Parma di Stendhal. In certi archivi romani Stendhal trovò effettivamente delle vecchie novelle, che lo occuperanno per diversi anni e fungeranno da stimolo per il suo romanzo, che poi però è ambientato nell’epoca post-napoleonica.
L’Italia ti sembra cambiata dall’epoca del viaggio italiano dei coniugi Meurer (tra i personaggi tedeschi orientali di Semplici storie, NdR) poco dopo la svolta del 1989?
Naturalmente, ma è cambiata anche la “famiglia Meurer”. Come in Germania, anche in Italia c’è stata una polarizzazione della società, che procede tutt’oggi. In Italia questo fenomeno è potenziato dal fattore Berlusconi. Del resto già all’inizio degli anni Settanta Pasolini aveva parlato di una mutazione antropologica attraverso la televisione. Oggi questo processo si è accelerato ulteriormente. Lo spazio pubblico necessario per difendere il diritto e la democrazia viene bruciato nel gioco mediatico. Voglio dire che questo spazio è invaso e sommerso dal cosiddetto intrattenimento apolitico – e questo ovviamente è un processo molto politico. In Germania la situazione non è poi così diversa, solo che da noi ci s’impone ancora una certa moderazione.
I tuoi racconti sono ambientati a Roma e in Sud-Italia. Vi è in questa scelta la scoperta una qualche “unità” paesaggistica o culturale che contribuisse al carattere unitario del libro?
Non ho pensato a un carattere unitario; ad affascinarmi sono state le differenze. Da Roma in due ore di treno si è a Napoli e a Firenze. Mi è sempre sembrato come se Roma si trovasse all’equatore, e che Firenze fosse un mondo del tutto diverso da Napoli. E Roma è diversa a sua volta. Considero questa varietà anche una grande fortuna, una ricchezza rara. Non so se potrei davvero vivere a Napoli, ma è una città che mi ha affascinato come nessun’altra. Non a caso vi è ambientato il racconto che dà il titolo al volume.
In Italia quest’anno si festeggia, o almeno ci si prova, un’altra unità, quella “ufficiale” nata nel 1861: ne giunge notizia in Germania?
Sì, qualcosa si viene a sapere, ma si tratta più che altro di informazioni superficiali.
Come ti rapporti, da intellettuale straniero che ha familiarità con l’Italia, con la nostra situazione politica? Ti capita che in Germania ti chiedano di parlarne o di fornire possibili spiegazioni?
È una domanda che mi fanno ogni tanto, ma, come ho detto, la Germania non ha nessun motivo di vantarsi. Solo è paradossale: non conosco nessuno che ha votato Berlusconi, o almeno nessuno lo ammette. Nel 2008, quando ritirai il premio Grinzane Cavour, mi parve di essere riportato alla Germania dell’Est. Era presente il Ministro per i Beni e le Attività Culturali e si cercava di far confluire il tutto in un’allegra ninna nanna. Quando dissi qualcosa sull’intrico crescente tra potere mediatico e potere politico – era un tema trattato in Vite nuove – si fece un silenzio totale, e poi qualcuno disse che ero stato coraggioso. Ho trovato deprimente che tutt’a un tratto si considerassero certe cose “coraggiose”, mentre non sono altro che ovvietà.
In alcuni racconti l’Italia antica e il suo paesaggio emergono, secondo tradizione, come una sorta di valore eterno e inestimabile del paese. Che cosa ti è più caro in questa Italia e cosa ti appare meno sopportabile?
Non definirei l’antichità come un valore eterno. Piuttosto in Sicilia, o in Italia in generale, si comprende quanto siamo legati a quella storia. Oggi mi accorgo di quanto l’epoca della Guerra fredda abbia contribuito a forgiarmi, in quanto sono cresciuto con la certezza che i conflitti bellici non mi riguardano direttamente o, se non è così, allora è la fine del mondo. E poi di punto in bianco mi accorgo che la Guerra del Peloponneso con la sua spedizione in Sicilia appartiene alla mia storia. Un rifugiato del Darfur come custode di una villa che si trova nel luogo dove un tempo c’era il campo degli ateniesi genera improvvisamente un nesso. Il duomo di Siracusa, alle cui colonne molto probabilmente si era già appoggiato Platone, rappresenta una continuità analoga, solo appunto molto umana, meravigliosa, perché quello spazio è sopravvissuto per 2500 anni. E in questi nessi, in questa continuità, vi sono entrambe le cose: orrore e felicità.