Kae Tempest, l’amore che guarisce dal torpore
Qualcuno, non ricordo chi, nei mesi della pandemia scrisse che non avremmo dovuto leggere, dopo la pandemia, i libri che troppi stavano scrivendo durante la pandemia. Per quel che concerne Connessioni, il primo “saggio” di Kae Tempest, possiamo dire che si sbagliava. Lo ha tradotto per e/o Riccardo Duranti, che ha sinora portato in italiano le raccolte Che mangino caos, Resta te stessa, Antichi nuovi di zecca e Un arpeggio sulle corde. La scelta è giusta, perché per la maggior parte di queste pagine Tempest si confessa come in un monologo, con i tempi teatrali che conosce così bene (la sua versione del Filottete, Paradise, è andata in scena al National Theatre di Londra dal 4 agosto all’11 settembre 2021), per poi accelerare nelle pagine finali in un crescendo verso una delle sue poesie-manifesto, poesie-preghiera, come sempre curativa e confortante:
Cercate di non essere troppo duri con voi stessi.
Non si può essere sempre presenti.
Mettete giù i telefoni.
Ascoltate gli uccelli.
Accendete un fuoco in un posto tranquillo.
Fate attenzione ai dettagli quando baciate chi amate.
Quando vi sentite invasi dal torpore, cambiate la messa a fuoco.
Che cos’è che vi definisce? Il momento esatto in cui vi trovate.
Lasciatevi andare.
Connessioni parte sostanzialmente dall’incontro folgorante con Il libro rosso di Jung, testo sacro che ha insegnato al poeta inglese a fermare tutto, a non credere più all’io che si era definito sull’approvazione degli altri io, a chiudersi nella solitudine delle notti per scendere negli antri luminosi del proprio subconscio, per riemergerne con una «autoconoscenza» vera, mai definitiva ma finalmente fondata sul proprio sé autentico, quello che nello zen si definisce «l’essere così come si è». Cita ancora Jung più avanti, da Presente e futuro: «L’uomo misura la sua autoconoscenza sul metro di quanto mediamente sa di sé il suo ambiente sociale, e non sul metro dei reali fatti psichici, che gli rimangono in massima parte nascosti».
La sensibilità al dolore di tutti generato dalla corsa feroce alla competizione, all’avere e non all’essere cui ci inchioda il capitalismo globale senza alternative, è il punto di origine della politicità di Tempest: il suo urlare poesia rappata, il suo “cantare”, il suo scrivere teatro, puntano alla radice tragica, ineluttabile dei nostri dolori personali, per convincerci ad aprire il nostro sguardo all’empatia, alla condivisione, alla connessione appunto del titolo, da cui – scrive Tempest – scaturisce la sua personale creatività. Come ha detto a Giovanni Ansaldo, che l’ha intervistata per “internazionale” la creatività «ovviamente dipende dai punti di vista. Per William Blake, un poeta a me molto caro, la creatività risiede nel sacro e nel sublime. Per me nasce dal quotidiano, dalla fatica. Dagli appunti che scrivo a penna sul taccuino e poi sistemo al computer. È come costruire un cazzo di muro, ci vuole tempo. Ci vuole mestiere. E poi per me la creatività è connessione: connessione tra me e me stesso, tra me e il mondo, tra me e le altre persone».
Tempest forse ribattezza con connessione la vecchia cara ispirazione romantica? Quando scrive della sua depressione, che definisce torpore, dei giorni bui in cui non riesci ad alzarti dal letto, ad uscire di casa, a nutrirti, neanche a piangere, ne scrive – clinicamente – come della fase down della sua disforia, attendendo paziente e fatalista che sgorghi di nuovo la scrittura che si è addensata nel buio del torpore, non sta attendendo forse il picco maniacale della ispirazione? Certamente, ma Tempest muta l’egocentrismo romantico in una aggiornata certezza che anche le neuroscienze ci stanno confermando: non si attiva una Musa, una voce divina ad personam che accende la creatività dell’artista, ma la connessione con gli altri, il rallentare del tempo dello spettacolo dal vivo, cerimonia che mette in sincronia il battito dei cuori di attori e spettatori, un rituale. Up della connessione, down del torpore lo proviamo tutti, lo sa.
Ed è per questo che vuole fare una letteratura dentro il suo corpo: «Quello che ci collega è più potente di quello che ci separa. Si legge per arrivare alla propria esperienza, rievocare il proprio passato, considerare i rapporti vissuti o dare un fondamento più alto alle proprie opinioni. Siamo esseri empatici che provano emozioni l’uno per l’altro. Sotto la superficie siamo tutti collegati. L’immersione nelle storie degli altri favorisce l’empatia». Cortisolo e ossitocina, che il web ci spaccia a microdosi incessanti, centinaia in un giorno, portandoci virtualmente ad essere su un nostro palcoscenico a caccia della approvazione degli altri. Ma il palcoscenico, il buio davanti agli occhi abbagliati dai proiettori è l’«arte profonda. È una cosa solenne, che appartiene allo spirito tanto quanto al corpo».
Ora, finalmente, Tempest ha trovato l’umiltà di fronte a chi la ascolta con «un’incredibile tenerezza». E sa che prima o poi la connessione si interromperà di nuovo, e si ritroverà «in preda allo smarrimento», rallentando le emozioni «fino a un ritmo morto. Nient’altro che aria e silenzio». E ritornerà il torpore, la depressione. Tempest racconta che in quel down pratica l’astinenza, il digiuno, spegne il telefono, perché «la solitudine aiuta». Dobbiamo rallentare, tutti, dobbiamo rinunciare a far fuori gli altri per affermare noi stessi. Ci sono «altri mondi, paralleli al nostro» cui l’artista ha il privilegio di accedere nelle sue sessioni creative. Ma trovarci insieme, dal vivo, vivi, con la musica, è la vera pillola che cura: è un «teatro della resistenza. Il teatro dell’amore» che ci cura per un po’.
Il suo nuovo album musicale, The Lime is a Curve, come sempre se lo porta già in giro in uno dei suoi interminabili tour, ora in mezzo mondo: in Italia lo potremo riascoltare dal vivo (dopo la Biennale Teatro di Venezia l’anno scorso) il 1° dicembre a Milano al Magnolia, il 2 a Roma al Largo Venue e il 3 a Bologna al Locomotiv. Il video di I Saw Light, che ospita la spoken-poetry di Grian Chatten, cantante-poeta dei Fontaines D.C, è diretto da Wolfgang Tillmans, che resta con la camera a mano quasi sempre incollato al volto di Tempest, alla sua sincerità di artista che cerca di restare in consapevole empatia con il proprio inconscio e con l’inconscio degli altri, con i molteplici umani soli che così acutamente percepisce per le strade delle megalopoli, dietro le finestre di condomini grigi e muti, pieni di dolore nei momenti del loro torpore.