Kiefer by Wenders

21 Maggio 2024

Un grande regista tedesco ‘ritrae’ un grande pittore tedesco. Insomma, Wim Wenders e Anselm Kiefer si incontrano e ne esce un film di grande potenza visivo-narrativa. Che, a dire il vero, avrebbe potuto anche fare a meno della tridimensionalità. Un film in cui a ritrarre non è il pittore, ma il regista. Che si dimostra grande ritrattista, peraltro; e ci restituisce con innegabile tempra immaginifica tutta la “monumentalità” che caratterizza l’opera pittorica (e non solo) di Kiefer. Una monumentalità tragica, che il film riesce a far emergere in tutta la sua reale portata, con rara finezza evocativa. Anselm, comunque – e su questo la pellicola di Wenders insiste quanto mai opportunamente –, fa anzitutto e incessantemente i conti con il ‘proprio’ passato; anzi, con la storia di una Nazione resasi responsabile di una delle più terribili tragedie mai patite dall’umanità. 

Le immagini che Wenders recupera da ‘girati’ di repertorio, relative alle rovine causate dai bombardamenti degli alleati sulle città tedesche, si intrecciano infatti con le ‘rovine’ di cui è in fondo costellata tutta la produzione di Kiefer. Che in ogni caso non si è espresso solo attraverso il mezzo pittorico, ma sempre più insistentemente anche attraverso la scultura e l’installazione. E che ha prodotto, ad esempio, delle colossali torri in cemento armato e piombo. Torri apparentemente instabili, sconnesse, in bilico tra l’essere e il nulla, forse. Precarie, come la vita di ogni esistente. Come la vita delle vittime di uno dei più orrendi genocidi della storia; e quella delle vittime dei bombardamenti, che in tutte le guerre vedono spegnersi ingiustamente il lume di ogni per quanto flebile speranza. 

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Tra quelle torri Kiefer cammina, con lo sguardo fermo, ma insieme smarrito; ché sembra non esser ancora riuscito a trovare il senso dell’esistenza. E purtuttavia l’artista tedesco continua a produrre testimonianze – “monumentali” testimonianze – di questo stesso smarrimento; di questa stessa assurdità. 

Che riconosce e accetta, ma in qualche modo prova anche a sfidare. Come la gioventù nordica tematizzata da Franz Matzke, forse. O come “l’uomo di genio” evocato da Leopardi nello Zibaldone. Mostrandosi capace di farsi pietra, roccia, nuda cosa, e dunque di relazionarsi al non-senso della vita con uno speculare non-senso prodotto dalla propria irrefrenabile vis creativa e immaginativa. Prodotto, soprattutto, con il piglio di chi mostra di essere anche lui capace di dare vita a creature davvero ‘mostruose’, in senso proprio; capaci, cioè, di guadagnare quello status monumentale che è proprio di buona parte delle espressioni della natura. Sempre indifferente rispetto alle nostre esigenze, ai nostri desideri, e dunque sempre prevaricante, imparagonabile, oltre-umana, per definizione; e dunque intollerabile, per quanto ineludibile. Ma Anselm la sfida; e lo fa con una essenziale contro-mossa, che l’intensa pellicola wendersiana riesce a portare meravigliosamente alla luce: quella che solo un essere umano consapevole che l’indifferenza della natura può anche essere “sfidata” – pur nella sua cinica e mostruosa imponenza –, avrebbe potuto permettersi. D’altro canto, l’indifferente natura avrebbe potuto venire sfidata solo da un fare come quello dell’arte; l’unico capace di lasciarsi alle spalle quella che troppo a lungo era stata la vocazione pratico-utilitaristica caratterizzante quasi tutte le produzioni umane (troppo umane), e troppo spesso anche quelle artistiche. Per dedicarsi finalmente ad una semplicissima operazione: quella di incorniciare il caos di una vita che può risultare ‘sacra’ proprio in quanto ‘assoluta’, indifferente e radicalmente insensata.  E quindi artificialmente naturale.

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Lo dice, ad un certo punto del film, anche l’artista tedesco; quando, seduto tra gli spazi di uno dei molti atelier della sua carriera, riflette sul fatto che l’opera sembra potersi costituire solo là dove qualcuno (in questo caso, l’artista) si premuri di tracciare quattro linee intorno all’informe di cui è sempre espressione, a ben vedere, ogni tipo di itinerario esistenziale. L’artista è un corniciaio, sembra dire Kiefer; è una persona che si assume il compito di trasformare in opera il chaos con cui abbiamo sempre e comunque a che fare – e che troppo raramente abbiamo il coraggio di riconoscere per quel che (non) è. 

Ma un corniciaio è in questo caso anche Wenders, che circoscrive con grande maestria il fare apparentemente assurdo di un pittore che “brucia” le proprie tele. Riducendole a semplici rovine; come un campo su cui fosse passato un carro armato. 

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Forse non a caso, dunque, a Kiefer, negli ultimi anni del proprio percorso artistico sarebbe capitato di “incontrare” un filosofo italiano (che nel film non viene mai citato, anche se nelle ultime scene appare l’ultima imponente e monumentale installazione pittorica realizzata da Kiefer per Palazzo Ducale a Venezia e proprio a lui dedicata) che sempre in termini di irrisolvibile doppiezza aveva finito per caratterizzare il cuore del ‘vero’. Un vero che Andrea Emo (questo è il filosofo a cui l’artista tedesco dedica due sue recentissime mostre … una a Parigi e una a Venezia) vede costituirsi appunto in forma costitutivamente “endiadica”, doppia: come ‘supremazia’ e ‘maledizione’, in-uno. E proprio a partire dalla consapevolezza che ogni vero gesto creativo è sempre anche un gesto intrinsecamente distruttivo. Che non si può creare, cioè, che distruggendo. 

Ecco allora le illuminanti riprese realizzate da Wenders mentre l’artista tedesco interviene con la fiamma ossidrica sulle proprie monumentali tele. 

Come a dire che, così come si crea sempre anche distruggendo, allo stesso modo si distrugge sempre anche creando qualcosa di cui l’artista sarà solo il primo fruitore. Cui sarà al massimo concesso di accarezzare i materiali inceneriti dal fuoco creatore-e-distruttore (non a caso già Eraclito identificava il logos con il fuoco); di contemplarli, e soprattutto aiutarli a farsi specchio insieme rivelatore e ingannatore di qualcosa che in ogni caso ci sovrasterà. Che non potremo cioè mai dominare, e di cui non potremo neppure farci provvidenziali strumenti di redenzione. A redimerci, infatti, per Kiefer (come per Emo), può essere solo il nulla; che, però, ci redime anzitutto da ogni supposta volontà di redenzione.

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Dal film, comunque, emerge anche il profondo legame che ha sempre unito Anselm Kiefer alla sublime poesia di Paul Celan. Autore di cui il film ricorda ad esempio lo sconcertante incontro con Heidegger, il filosofo dell’essere su cui gravava l’ombra di un passato convintamente nazista. Celan, il poeta che ha sempre cantato la tragedia di un senso impossibile e il filosofo che, con il suo silenzio (non una parola, infatti, sul suo passato nazionalsocialista, ricorda Celan), ci mostra che monumentale e dunque insostenibile finisce per essere spesso anche la colpa di cui l’essere umano si sia reso responsabile.

E proprio con questa tremenda verità Kiefer torna a fare i conti, ogni volta, nel corso del suo itinerario artistico; con un passato che pesa sulla sua coscienza di tedesco, e che forse già pesava sulla coscienza del suo Maestro: quel Joseph Beuys, che, a differenza del ben più giovane Anselm, aveva invece fatto parte dell’aviazione del Terzo Reich. Anche del rapporto con Beuys il film si occupa, dunque, e giustamente; a testimoniare che forse anche per Wenders questa è una ferita ancora aperta. Come lo è per ogni tedesco e per ogni italiano (quanto meno in rapporto al nazi-fascismo nostrano).

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Forse anche Kiefer, dunque, nell’aggirarsi in bicicletta tra le installazioni nei suoi giganteschi ateliers (anch’essi, guarda caso, monumentali), nel salire e scendere dai monumentali montacarichi che utilizza per poter intervenire sulle sue enormi tele – vuoi per stendere il colore sulla superficie del quadro, vuoi per bruciare i materiali incollati alla tela (forse anche per vedere “ciò che resta del fuoco”, avrebbe detto Derrida) –, si fa carico dell’emiana “impossibile redenzione” che sembra non poter fare a meno di condannarci ad una inespiabile colpa di cui potremo farci, per ben che vada, semplice eco sorda e afona. Anche quando riuscissimo a rifletterla in opere che sappiano incantare milioni di persone, o che vengano esaltate dai maggiori critici operanti sull’orbe terracqueo; magari anche vincendo i più prestigiosi premi al mondo.

Kiefer, agli occhi di Wenders, sembra dunque proprio l’emblema perfetto di questa colpa che ci tormenta, anche da innocenti (Kiefer, infatti, è nato proprio al termine della seconda guerra mondiale, nel 1945). Anzi che tormenta in modo particolare chi non è stato responsabile di alcun eccidio, di alcuna tortura e di alcuna prepotenza. E impone, forse, di guadagnare una inedita monumentalità – come quella guadagnata da Anselm, appunto –; l’unica che sembra poterci condurre all’altezza di un destino sempre e comunque abnorme (sia qualitativamente che quantitativamente). 

Il fatto è che ormai l’artista non può più limitarsi a segnare con il proprio gesto piccole superfici, facilmente abbracciabili con lo sguardo; ormai è necessario, agli occhi di Kiefer, trascendere i propri limiti; e proprio a partire dalla consapevolezza relativa al fatto che quei limiti ‘incorniciano’ sempre e solamente l’illimitato l’apeiron anassimandreo. Un dionisiaco, un chaos che non avranno dunque nulla di esaltante e tanto meno entusiasmante (nel senso che diamo comunemente a queste parole, quando parliamo di esperienza dionisiaca a proposito di una buona e gratificante degustazione); un chaos che travolgerà, dunque, tutto quello che pretendesse di guadagnare una forma più o meno stabile. Imponendoci di continuare a camminare, di continuare a cercare, al fine di prendere coscienza che tutto quel che avremo fatto sarà servito solo a farci capire che sempre altro dovremo ancora realizzare, e che dovremo anzitutto distruggerlo per farlo rinascere al modo di una instancabile fenice. 

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Non a caso Anselm ha sempre avuto come riferimento questo animale mitologico: che risorge incessantemente dalle proprie ceneri (animale caro anche ad Andrea Emo). D’altro canto, tutto il film è impregnato di riferimenti al mito: e al mito continua a riferirsi, instancabile – nei vari momenti in cui, alle immagini delle opere, Wenders sovrappone la voce del suo Anselm –, l’artista tedesco. Per lui, infatti, tutto è mito. Anzi, per lui ogni spiegazione del reale è una spiegazione mitologica. Sì, perché solo il mito, forse, ci consente di tenere insieme gli opposti: anzitutto l’essere e il nulla, la costruzione e la distruzione, Apollo e Dioniso, il male e il bene (gli opposti che da sempre l’umano – fin dal noto episodio biblico del cosiddetto peccato originale – vorrebbe riuscire a separare l’uno dall’altro). Consentendoci altresì di riconoscere questa stessa indivisibilità; questa endiadi paradossale e dura da sopportare con cui si scontra ogni pretesa di senso. La mostruosa contraddizione che il Kiefer di Wenders sembra quasi voler tornare a “dirimere” (quale novello Achab); in primis attraverso sorprendenti monumentalità che sembrano tutte perfettamente consapevoli della propria tragica impotenza. Ossia, di non esser altro che un singulto nell’infinità di un accadere che non potremo far altro che riconoscere nella sua inabbracciabile “mostruosità” come l’assolutamente inconoscibile. 

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