L'ultimo libro di Vanni Codeluppi / La moda e le altre forme espressive

28 Marzo 2016

La relazione tra moda e altre forme espressive è controversa, fatta di repentini inseguimenti e di ribaltamenti di prospettiva. La moda come sistema nasce da un senso di sudditanza nei confronti del sistema dell’arte. Siamo nella seconda metà dell’ottocento, quando in un sol colpo C. F. Worth inventa la Haute Couture francese, trasformando lo stilista in una sorta di genio creativo, svincolato dalle convenzioni sociali, sulla falsariga dell'artista romantico. Il ribaltamento di committenza tra sarto e cliente (Gilles Lipovetsky, L’impero dell’effimero, Milano, Garzanti, 1989) rende possibile la nascita dello stilista che a sua volta può legittimare il suo potere grazie ai dispositivi di comunicazione della sfilata (ib.) e delle riviste. L'ultimo libro di Vanni Codeluppi ci propone un excursus sull'evoluzione del rapporto tra moda e pubblicità, che si sviluppa in questa stessa fase storica, da quando la moda “…ha cercato di ampliare il suo mercato pubblicando i modelli degli abiti che creava su importanti riviste dell'epoca” come “L'Art ed la Mode” e “Harper's Bazar” (Vanni Codeluppi, Moda e pubblicità. Una storia illustrata, Roma, Carocci, 2016, p. 14).

Se il manifesto come strumento di promozione di nuovi consumi e stili di vita, nasce in Francia nella seconda metà dell'Ottocento, solo più avanti esso diventa centrale nella comunicazione dei prodotti della moda. Come sottolinea ancora Codeluppi "nei primi decenni del novecento il manifesto è stato massicciamente impiegato anche dalle aziende d'abbigliamento di altri paesi. Ciò che fa la differenza è lo stile espressivo utilizzato, che in Francia era decisamente influenzato dall'Art Nouveau, come si può vedere nel manifesto utilizzato nel 1925 da René Vincent per i grandi magazzini di Parigi Au Bon Marché, mentre negli stati uniti prevaleva un tipo di rappresentazione più realistica" (ivi pp. 17-18). 

 

Agli albori della società di massa, la relazione tra arte e moda si fa ben più complessa e articolata. Da un lato la moda ha bisogno dell’arte, soprattutto nella forma della pubblicità, dall’altro l’arte, specialmente quella d’avanguardia, ambisce a estendersi sulle pratiche del quotidiano e a diventare essa stessa moda. Da Balla con il suo vestito anti-neutrale a Di Bosso e Scurto con la loro anticravatta in metallo leggerissimo, lucente, duratura, senza nodo, numerosi futuristi hanno lavorato su questo fronte, ma nessuno come Ernesto Michahelles in arte Thayaht. L’autore di uno dei busti più celebri del duce, ebbe numerosi contatti con il mondo della moda francese, che si apprestava ad abbandonare fasti e forme della Belle Époque per intraprendere un itinerario di ripensamento dell’abito alla luce delle conquiste dell’avanguardia. 

Non solo per via della tuta, che lo stesso artista lanciò nel 1920 a Firenze per rivisitare l'ideale di omogeneizzazione dell’abbigliamento, che ha poi ispirato la medesima invenzione di Rodchencko. La forma tipografica della lettera T torna ossessivamente nel palindromo «Thayaht», come anche nella parola «tight», il celebre indumento borghese per le grandi occasioni, e infine nello slogan con cui si accompagnò il lancio del cartamodello: “tuttintuta”. Ancor più significativa fu la collaborazione con Madeleine Vionnet che intuì immediatamente il talento dell’artista, a cui chiese di realizzare il logo della Maison, “sintesi tra classicità e modernità… grafica distintiva della casa e dei prodotti che in essa si commerciavano" (Daniela Fonti (a cura di), Thayaht futurista irregolare, Milano, Skira, 2005, p. 27).  

 

In Europa la grande distruzione delle due guerre mondiali, ha intralciato lo sviluppo del nesso tra capitalismo e bellezza, ovvero tra marketing e pubblicità (Stuart Ewen, Sotto l’immagine niente, Franco Angeli, Milano 1993), mentre invece negli Stati uniti “anche grazie al forte impulso ricevuto dall’adozione nelle fabbriche di un modello produttivo particolarmente efficiente come quello tayloristico” (Codeluppi 2016, p. 23), si è verificato un forte sviluppo della comunicazione pubblicitaria, privilegiando un “modello comunicativo fortemente strutturato e basato su un linguaggio di tipo realistico”, come nell’esempio del “manifesto realizzato nel 1946 per l’azienda d’abbigliamento Hart, Schaffner&Marx” (ib.). A partire da questo periodo, passando per l’innovazione stilistica di Richard Avedon e Irving Penn, fino alle più avanzate creazioni di Helmut Newton, Jurgen Teller, David Lachapelle e Nick Night, la fotografia diventa forma d’arte a se stante, capace di dialogare con la moda da cui trae linfa, contenuto e ispirazione. 

Anche la letteratura non può restare indifferente alla progressiva contaminazione dei linguaggi. Come indica esemplarmente il volume curato da Critstina Giorcelli L’abito nella cultura statunitense (Roma, Bulzoni, 2015), in cui è presente un contributo di Paola Colaiacomo secondo cui: 

 

…osservato sotto la luce retroattiva, il lavoro di Capote s’illuminava…ponendo il film come suo esito necessario, si vedeva la scrittura tentare strade diverse, percorrerle, urtare contro limiti espressivi oltre i quali si profilava l’uscita verso linguaggi non verbali…Fotografia, moda, cinema” (Da Capote a Hepburn: un’unica scrittura”, p. 9-10). 

 

 

La nuova arte, emancipata dai vincoli dell’autorialità che l’avevano caratterizzata fino a Duchamp (Luisa Valeriani, Elio Fiorucci: quarant’anni di arte, design, e spettacolo, Roma, Meltemi, 2007), si rivolge verso la dimensione dei consumi nel quotidiano. La moda, conseguentemente, abbandona la sua impostazione elitaria e si espande su fasce di società sino ad allora esenti dall’interesse per questo mondo. La Swinging London, raccontata da Michelangelo Antonioni nel film Blow up (1966), è esattamente un crogiolo di tendenze pop nell'arte, nel design, nella musica e nella moda (Paola Colaiacomo e Vittoria Caratozzolo, La Londra dei Beatles, Roma, Editori Riuniti, 1996). 

Negli anni settanta la sperimentazione si traduce in brand nazionale e dunque in made in Italy grazie a personaggi come Walter Albini, Fiorucci e Nanni Strada. Meno conosciuta in Italia ma protagonista assoluta all'estero, Nanni Strada rivoluziona l'approccio al design della moda tramite una concezione spaziale, quasi architettonica, che espande la relazione tra abito e ambiente (tra habitus e abitare si direbbe), ovvero tra moda e architettura. Strada continua a essere oggetto d’interesse da parte di studiosi e curatori di tutto il mondo, ad esempio da Brook Hodge e Lisa Mark (2007), curatori della mostra e del catalogo Skin + Bones, Parallel practices in fashion and architecture, realizzati prima per il MOCA di Los Angeles e poi per il National Art Center di Tokyo (London, thames and Hudson, 2007). 

 

Negli anni ottanta lo stilista si emancipa ulteriormente dalla soggezione nei confronti del sistema dell’arte. Certo, ha ancora bisogno di una cornice di legittimazione da pare di quell’arte riformata che ha rinunciato al suo ruolo di guida della società per rifugiarsi in una sorta di dispositivo intellettuale e autoreferenziale. Nei ritratti fatti da Warhol a Krizia, Armani ecc. oppure nei murales di Haring, chiamato nel 1983 a rivisitare il negozio di Fiorucci (Valeriani 2007), si esprime il riconoscimento dell'arte nei confronti dei nuovi protagonisti del decennio. Cosicché la moda, da sorella minore, diventa regina incontrastata del periodo. 

Nel film Wall Street (1987) di Oliver Stone, Gekko interpreta il sodalizio tra moda, arte e finanza, oltre all’elogio dell’eleganza impeccabilmente italiana degli abiti disegnati da Nino Cerruti, la sua donna (la splendida Daryl Hannah) rappresenta il punto di connessione con il mondo dell'arte. Anche in American Psycho, di Ellis, la degenerazione narcisistica di un mito tipicamente americano verso la violenza seriale, passa per una rassegna di abiti, accessori, brand, pubblicità e persino opere d'arte come un "David Onica originale" appeso sul caminetto di marmo chiaro e di granito è appeso in soggiorno (Bret Easton Ellis, American Psycho, Torino, Einaudi, 1991, p. 33). L’icona che chiude l’intero decennio, fondendo insieme arte, moda e consumi è quella del Joker raccontata da Alberto Abruzzese in Sfigurare il moderno (in L’occhio di Joker. Cinema e modernità, Roma, Carocci, 2006), ovvero quella di «[...] un dandy post-moderno in cui la filosofia dell’arte per l’arte si è trasformata in quella del consumo per il consumo».

 

Tra gli anni novanta e il nuovo millennio la sinergia tra moda e linguaggi artistici si fa più marcata anche perché gli artisti rappresentano sempre più i brand capaci di estendere le proprie attività su vari livelli merceologici, mentre la moda si nutre d’arte come forma di legittimazione sociale del proprio business (le Fondazioni). Il caso di Diesel invece racconta come il brand incarni un nuovo progetto comunicativo quasi situazioni sta, che flirta continuamente con una certa ironia dell’arte d’avanguardia – si pensi alle campagne Brand 0 o Africa (Nello Barile, Brand New World. Il consumo delle marche come forma di rappresentazione del mondo, Milano, Lupetti, 2009; Codeluppi 2016) – oppure agli eventi dedicati all’arte underground americana come Two Steps Back.  

 

Tra le tendenze comunicative della moda nel nuovo millennio, oltre all’onnipresenza del marketing esperienziale, è sempre più centrale lo storytelling basato sui fashion movies d’autore: “quei sofisticati minifilm che le industrie della moda diffondono da qualche anno nel web e che sono spesso dotati di un’elevata qualità espressiva ed efficacia dal punto di vista del marketing” (Codeluppi 2016, p. 88). Lo storyelling della moda fa sempre più riferimento al mondo dell’arte per disegnare ambienti narrativi in cui immergere i propri pubblici, come nel caso della campagna Kenzo ideata da Maurizio Cattelan, in cui un “modello e una modella sembrano essere stati trasformati in insetti” (ib.). In altri termini la moda ambisce sempre più a essere il medium attraverso cui i linguaggi espressivi più avanzati possono essere ridefiniti, convogliati e reinterpretati dai nuovi pubblici. 

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