La nuova edizione delle cronache giudiziarie / La Nera di Buzzati
Le storie criminali sono state e rimangono un serbatoio inesauribile di riflessioni. Esse hanno affascinato i ‘creatori’, cioè coloro che hanno utilizzato quel ‘veicolo di creatività’ per dirla con Chabrol per costruire intrecci, mostrare come svelarli, delineare i caratteri dei protagonisti, colorare di varie sfumature di giallo le trame. La lista di questi prodotti, le cd “fiction”, è inesauribile tra i professionisti e gli occasionali, tra i dichiarati e gli insospettabili, tra gli eccellenti e i mediocri.
Esistono poi gli ‘osservatori’, cioè coloro che descrivono la realtà riproducendola con purezza o, secondo un canone diffuso in questi anni reinventandola, trasfigurandola, ibridandola con la finzione. Questa squadra è numerosa e ricca di qualità in quanto compaiono anche molti autori lontani dalla loro produzione abituale. C.Dickens e A.Cechov sono stati cronisti giudiziari, come dimostra per il primo Guardie e ladri (ed. Clichy, 2014) e per il secondo L’affare Rylock (Nottetempo, 2009). A. Gide è stato giurato della Corte di Assise di Rouen rimanendone influenzato profondamente, come attestano i suoi Ricordi della corte di assise (Sellerio, 1994), tra cui il più noto è il caso Redureau. J. Giono non ha perso una udienza del celebre affare Dominici, portato poi sullo schermo da J.Gabin (Sellerio, 2002).
E si potrebbe continuare affinando l’elenco proposto da Franco Cordelli (‘Delitti per un romanzo perfetto’, Corriere della sera, 18.1.2000). Non possono però mancare due nomi, noti per tutt’altro ma affascinati da questa materia, Moravia e Brancati. Il primo, non insensibile all’intrigo delittuoso come dimostrano alcuni racconti (“Delitto al circolo di tennis”, “Delitto perfetto”, “Terrore a Villa Borghese”), ha puntato l’attenzione su due celebri casi degli anni 50, Bellentani ed Egidi. Essi dimostrano che “ci sono delitti in cui tutto è sociale… fiore terminale e fetido di una robusta pianta di ingiustizie” (L’Europeo, n.2 del 1952). Il secondo è di opinione opposta, e commentando il caso Bellentani osserva duramente che “il delitto è un’orrenda scelta individuale che si è fatta liberamente... la società che ha scaricato la rivoltella non aveva alcuna carica” (L’Europeo, n. 12 del 1952).
Tra questi autori ha un posto di diritto Dino Buzzati. Questi ha narrato per il “Corriere della Sera” i processi più clamorosi degli anni 50 e 60 in articoli riuniti inizialmente da O. Del Buono con due pezzi (“Il delitto di Rina Fort” e “I segreti della MM”, Cronache nere, Theoria, 1984). Si è proseguiti con La ‘nera' di Dino Buzzati, a cura di Viganò che presenta una gamma di articoli più ampia (Mondadori, 2002) per giungere all’attuale La nera sempre dello stesso curatore, dotata di un prezioso corredo iconografico e con qualche pezzo ulteriore (“Sono entrato nella casa della strage”, “Il rapimento Peugeot”, “Il delitto dell’ing. Dalla Verde”, “Il giallo del bitter”, Mondadori 2020).
Assunto nel 1928, Buzzati ha trascorso 43 anni al “Corriere della sera” ricoprendo molteplici ruoli. Nel dopoguerra la cronaca nera, dopo essere stata bandita dal fascismo per non sporcare l’immagine edulcorata del paese, torna sui giornali e Buzzati vi si dedica con passione. I processi diventano per gli italiani il diversivo per mettere alle spalle una tragedia collettiva assistendo esclusivamente ai tormenti altrui. Così la pietà per le vittime e l'attesa dei verdetti sono stati d'animo diffusi in chi cerca di essere solo lettore-spettatore e non più protagonista del dramma della guerra, in cui da sempre si è sempre e solo sconfitti.
L'antologia raccoglie episodi, personaggi, luoghi che diventano testi di giornalismo e nel contempo storia di trent'anni dell’Italia della ricostruzione e della sua difficile ripresa, esemplarmente tratteggiata nel racconto “I segreti della MM”.
Buzzati sa raccontare sapendo trasformare la capacità di narrare sia con le parole se si tratta di cronaca nera o romanzi o testi teatrali, sia con la matita ed il pennello se si tratta di fogli o di tele da pittore. Senza nulla togliere alla drammaticità dell'evento, osserva curioso ed è capace di cogliere i particolari insignificanti. Per questo vuole vedere direttamente per poter narrare, e così spesso si reca di notte con i colleghi della nera perché vuole rendersi conto di com’è la notte, la morte, il groviglio di una Milano pulsante di vita e la sua vita nascosta. Negli isolati commissariati di periferia si coglie l’angoscia e solitudine della Fortezza Bastiani nel Deserto dei tartari, nelle ambigue notti di una città divenuta metropoli le atmosfere di Poema a fumetti.
La sua vocazione per la cronaca nera deriva dalla scuola giornalistica dei fatti, del mettere insieme con precisione gli eventi raccontando in poche righe le notizie riuscendo ad ottenere uno stile scarno, essenziale. Come è stato detto, il suo è un intarsio tra giornalismo e narrazione. Non ci sono nelle sue pagine parole sprecate, né luoghi comuni da cui peraltro egli rifugge. La sua scrittura, pulita nella disarmante semplicità, non solo racconta un evento, ma lo trasfigura corredandolo di calore applicando con successo una ‘distanza emotiva’. Tra le sue righe si sente il monito di Hemingway secondo cui il giornale è uno scheletro al quale bisogna far battere il cuore e muovere il polso. È disilluso e trasmette l’impotenza nel capire tutto quello a cui ha assistito, anche perché esistono fatti non decifrabili con la ragione, poiché insondabili e oscure sono le profondità sulla natura umana.
Il lavoro di Buzzati osservatore e comunicatore di eventi si sviluppa in quegli anni con un rapporto ancora sereno con un’opinione pubblica attenta ma non debordante, ben disposta nel ricevere ma non ancora pressante perché desiderosa di interferire. Infatti le sue pagine mancano di un connotato che ha contraddistinto la cronaca contemporanea al quale ormai siamo assuefatti. Si tratta della morbosa curiosità soprattutto di fronte ai fatti di sangue, meglio se efferati, dell’enfasi posta sullo spettacolo del dolore come protagonista assoluto, ieri servendosi solo dello scritto, oggi soprattutto della televisione. Più grande è lo strazio, più atroce è il delitto, più si assottiglia la dimensione privata del dolore, più si accresce la platea degli aspiranti alla commozione. Si tratta di una constatazione difficilmente contestabile con l’osservazione quotidiana e ricordando istruttive ricerche (tra le molte, Forti e Bertolino, La TV e il crimine, Vita e pensiero, 2005).
La cronaca nera in realtà è un buco della serratura che consente di vedere quanto rischia di rimanere nell’ombra. Fotografa mondi, città e province, costruisce frammenti di storia, descrive uomini folli incomprensibili, approfondisce drammi, vite eccentriche, universi giovanili. Le verità sono contingenti, non definitive, anche se lo stato pone alle indagini una data di scadenza. Sono come la vita, fluida, densa di risvolti, cangiante, inaspettata. Il rituale del processo è uno strumento che penetra la maschera che protegge dal mondo e si immerge nella tragedia umana scatenata dal cortocircuito che lacera la quotidianità.
L’antologia non si esaurisce qui. Esiste una seconda parte, “Incubi”, con altri articoli, altri racconti, altra letteratura. Qui, però, le vittime hanno raramente un volto, che sia quello di un campione di Formula 1 morto durante un giro di prova o di una bimba che per il dolore dell’abbandono si è gettata da una finestra. Sfoderando una sensibilità acuta, Buzzati riesce a trovare squarci di umanità anche nella disperazione e nella tristezza delle piccole e grandi tragedie, illuminando una collettività ferita e lacerata nel profondo. La sua è la testimonianza di grandi tragedie che lasciano l’Italia come una vedova incredula, si tratti del disastro del Vajont, dell’incidente aereo del Grande Torino, della morte di molti bambini nella colonia di Albenga. La sua abilità è raccontare la morte quasi dialogando con il suo fantasma. Nelle stragi di massa sembrano contare solo i numeri, le vittime sembrano non esistere più come storie individuali, come persone con un nome, con affetti, con un vissuto, ma solo come un gruppo anonimo di sciagurati contro cui il destino feroce e crudele ha tramato. Il colpevole della loro disgrazia spesso non ha un volto né un nome, spesso lo si chiama caso, che genera il lutto.
C’è compassione, in Buzzati, che incarna e amplifica i sentimenti degli italiani nei decenni del dopoguerra con l’obiettivo di ricordare, perché un giorno questa possa servire ad evitare altri analoghi “fattacci”.