Grazia Nidasio / La Stefi e il suo nome
Alla sensibilità di Grazia Nidasio, morta qualche giorno fa, si deve una preziosa testimonianza culturale e chi ha un’attenzione autentica per l’espressione italiana e per la sua storia non deve trascurarla.
Era la metà degli anni Settanta del secolo scorso. La disegnatrice e autrice milanese inaugurò una serie di arguti racconti di tenere vicende di vita quotidiana, facendone protagonista una bambina. La battezzò “la Stefi” e creò uno dei suoi personaggi meglio riusciti. Certamente il più popolare. Negli anni che seguirono, la striscia, destinata sul principio a un pubblico infantile e di adolescenti, straripò e ne raggiunse uno adulto. A cadenze regolari, comparve sul Corriere della sera. Così la Stefi divenne familiare anche a chi all’epoca del suo apparire aveva smesso di leggere i “giornalini”, come ancora usava dire, ma che, già a cavaliere tra Cinquanta e Sessanta, era stato educato da Grazia Nidasio e dal suo tratto mobile, giocoso ed elegante, godendone – è il caso di chi scrive – da lettore del Corriere dei Piccoli.
Come nome personale, Stefi era la forma breve o, con termine tecnico, l’ipocoristico di Stefania (Morandini, per completezza anagrafica). E in quegli anni Stefania era il nome di non poche bambine, per via di una moda onomastica in séguito perenta. Niente da stupirsi. Va così a tutte le mode. Se non fossero cangianti e se durassero non sarebbero mode. Tra mezzo secolo, le Sofia, le Aurora, le Emma di questi giorni vedranno la loro età iscritta indelebilmente nei loro nomi di battesimo e i genitori sensibili all’andazzo sarebbe bene ne fossero consapevoli, avviando creature innocenti a siffatte marchiature, peraltro graziose.
Grazia Nidasio colse allora una moda, con il nome di quella bambina di fantasia. Con la forma di quel nome, colse molto di più. L’ipocoristico Stefi portò in effetti alla luce una tendenza linguistica e socioculturale ben più persistente di una moda e di cui oggi va tenuto conto da chi descrive la nazione linguistica italiana.
Riduzione del nome al bisillabo iniziale, ritrazione dell’accento sulla prima sillaba ed eventuale chiusura della vocale così divenuta finale in una “i”. Sono i tratti formali caratterizzanti della creazione dell’ipocoristico. Ecco insomma come, da Stefania, viene fuori Stefi. Grazia Nidasio diede testimonianza del meccanismo, per presentare una bambina un po’ meno che decenne alla metà degli anni Settanta, una bambina nata dunque idealmente intorno al Sessantotto. Con cura, lo fece in modo che fosse verisimile anche dalla prospettiva onomastica. Oggi, quella bambina avrebbe più o meno cinquanta anni.
Precocemente, Stefi illustra allora un processo che, quanto ai nomi personali, determina in modo uniforme l’odierno panorama onomastico della nazione italiana, da Lampedusa al Gottardo. I tratti tradizionali di tale panorama sono radicalmente mutati nel comune uso parlato, che è d’altra parte lo specifico àmbito di ricorrenza degli ipocoristici, e lo hanno fatto nella direzione indicata da Stefi. Al di là delle mutevoli mode onomastiche, gli ipocoristici tradizionali sono ormai percepiti come obsoleti e privi di corso. Qualche esempio.
Nel caso di un’Eleonora, tra il vecchio modello Nora e il nuovo Eli non c’è partita, come oggi s’usa dire. Così come non ce n’è tra Berta e Robi, tra Rita e Marghi. C’è più un Daniele o una Daniela che, nella conversazione d’ogni giorno, non siano Dani? Un Alessandro o un’Alessandra, un Alessio o un’Alessia che non siano Ale? Un Valentino o una Valentina, un Valerio o una Valeria che non sia Vale? Un Federico o una Federica che non sia Fede? E Sabri, Adri, Samu, Ema, Caro, Giuli, Simo, Ceci? Aggiunga chi legge ad libitum gli esempi che trae dalla sua esperienza autentica e diretta.
Bene, dell’onda del cambiamento che si preparava, la sensibilità di Grazia Nidasio colse acutamente il segno, nel momento in cui esso evidentemente ebbe rilevanza sociolinguistica. Nell’ottavo decennio del ventesimo secolo, la disegnatrice e autrice milanese lo intercettò e lo rappresentò nei comportamenti espressivi e comunicativi del ceto medio urbano e colto dell’Italia settentrionale. Era l’ambiente familiare, sociale, culturale in cui era posta e in cui si trovava ad agire e ad interagire con coetanei e adulti Stefi. Anzi, appunto la Stefi, visto il valore che ha l’articolo che correda rigorosamente il nome, come specifico riferimento a quell’ambiente e come marca geolinguistica.
Con il prestigio sociale, quel ceto aveva del resto già preso un ruolo nella caratterizzazione linguistica della nazione e nella sua evoluzione. Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini avevano prospettive intellettuali tra loro distanti, ma ambedue l’avevano ben percepito. Già dagli inizi degli anni Sessanta avevano reagito criticamente al nuovo clima linguistico della nazione.
Tra i tardi anni Settanta e i primi Ottanta, la circostanza affiorò con chiarezza anche nella consapevolezza degli studiosi. Furono condotte in proposito inchieste volte a conoscere le opinioni dei parlanti sul prestigio assegnato ai modi diversi di atteggiarsi della lingua del sì sul territorio nazionale. Tali inchieste diedero occasione e materia a numerose pubblicazioni. Tra esse, a un fortunato libro di Nora Galli de’ Paratesi, dal titolo parlante: Lingua toscana in bocca ambrosiana. Il valore di tale formula era ed è chiarito, per contrasto, dal vecchio detto che aveva individuato per secoli nella lingua toscana in bocca romana l’ideale di un prestigioso comportamento linguistico per la nazione. Tale ideale era evidentemente decaduto. La contrapposizione delle due capitali, la politica e la morale, era tema tipico della conversazione italiana (come del resto è rimasto): ne seguì perciò qualche dibattito nei media. Ma da allora fu chiaro che, per sapere cosa si prepara per l’italiano, bisogna osservare cosa succede a Milano: i piuttosto che dal nuovo valore, i quelli che sono sostitutivi dell’articolo determinativo, i settimana prossima e così via, prima di dilagare, come stanno facendo, hanno avuto lì la loro efficiente fucina.
Ci sono tuttavia altre ragioni che fanno prezioso il documento procurato da Grazia Nidasio a chi si occupa non occasionalmente e con qualche cura metodologica tanto, in generale, dell’espressione umana, quanto, in particolare, dell’italiana.
Il caso illustra infatti un principio procedurale dell’analisi linguistica che la disciplina tiene fermo da due secoli e che è ignoto o, se non ignoto, trascurato da chi si accosta alla lingua con superficialità (e quindi con clamore e successo, senza che di ciò ci sia da stupirsi o da menare scandalo). Nel cambiamento linguistico, non è il vorticoso mutare delle parole (nel caso specifico, dei nomi personali) che conta, ma il procedere di sistemi che, a partire dalle funzioni, si realizzano tanto come forme, quanto come interpretazioni. Nel caso della Stefi, in altre parole, il nuovo che avanzava, il nuovo che ha avanzato e sta ancora avanzando non è rappresentato dal nome Stefania, oggi percepito appunto come datato, ma dal meccanismo che ne deriva un ipocoristico. E lo fa a partire da tale nome, come da ogni altro nome personale formalmente comparabile, in modo diverso da come l’avrebbe fatto in passato il meccanismo da cui affioravano i tradizionali ipocoristici: Lina, Betta, Tilde, Rina, Nilla, Vanna, Lena, Pina, Fina, Tonia, Nella ne sono ormai desueti esempi. La lingua pare fatta di parole, ma è più propriamente fatta dei celati meccanismi sistematici (la langue, si direbbe con Ferdinand de Saussure) che attribuiscono valore alle parole e, in tal senso, le creano nel discorso (nella parole).
Da una prospettiva meno generale, ma forse di maggiore interesse per una platea più larga, il caso dice d’altra parte di un segmento femminile della popolazione italiana che cominciava a essere culturalmente rilevante e lo è poi divenuto sempre più. Con la Stefi, Grazia Nidasio coglieva tale segmento in un’età tra l’infantile e l’adolescenziale, tanto con riferimento all’oggetto della rappresentazione, quanto con riferimento alle destinatarie cui tale rappresentazione era rivolta. Al suo pubblico, la Stefi si presentava infatti come un modello, con la sua grazia determinata, la sua logica dissacrante, certo, ma anche con il suo nome: meglio, con lo schema formale del suo nome. Crescendo, tali destinatarie nel loro insieme sarebbero divenute di lì a poco la solida base di una consapevolezza di genere, nuova e montante. Nell’ipocoristico di nuovo conio e negli ipocoristici che si sono affiancati alla Stefi come schema formale, tale consapevolezza ha una bandiera. Se le sue portatrici non ne sono state né ne sono consapevoli non c’è da stupirsi. Accade sovente con i fenomeni linguistici. In proposito, nell’attenzione pubblica i fantasmi contano di norma più della realtà.
Il modello formale testimoniato dalla Stefi è infatti andato al di là del genere per il quale ebbe quella realizzazione esemplare. È diventato egemonico. Nei comportamenti linguistici socialmente pertinenti, esso tende oggi a presentarsi addirittura come assoluto. È del resto un tratto non troppo celato di una tendenziale neutralizzazione dell’opposizione formale di genere della lingua. Tale neutralizzazione si sta addirittura realizzando nell’area del nome proprio, un area che, fuori di una determinazione di genere, in italiano parrebbe inconcepibile. Ma di qual genere sono allora Ale, Dani, Gabri, Fede, Simo, Franci e così via? È la vita vera della lingua e va ben oltre le banalità superficiali, come è il genere delle designazioni di cariche e professioni, che si tirano pubblicamente in ballo, immaginandone soluzioni normative, probabilmente vane al pari delle gride di manzoniana memoria.
In virtù di quale norma, d’altra parte, di quale prescrizione grammaticale non c’è più un Gabriele o una Gabriella che non siano indifferentemente Gabri? Del futuro di tale modello, non si sa: mutamenti di vettore, nei sistemi linguistici, sono sempre possibili e, come nel caso dei terremoti, solo molto genericamente prevedibili. Si sa quali sono le aree esposte. Ma chi avrebbe detto, cento anni fa, che quella degli ipocoristici presto lo sarebbe stata? Cosa succederà, quando succederà, cosa raggiungerà una nuova stabilità, cosa no, nessuno può dirlo.
Qualcosa è tuttavia già accaduto e sta accadendo al di là di ogni esplicito progetto, com’è appena il caso si ribadisca, e con la rigorosa regolarità tipica di un cieco avanzare. Ne viene d’altra parte corroborato ciò che, dalla prospettiva sociale, la disciplina ha da tempo intuito quanto al mutamento e che, palesandone un’evenienza, Grazia Nidasio ha ribadito con la Stefi e con la sua testimonianza. Quanto ai fatti di lingua e ai loro movimenti, le donne sono all’avanguardia. E ciò, a ben vedere, non meraviglia. Oltre ogni loro consapevolezza in proposito, le donne hanno un ruolo decisivo nella formazione di parlanti di qualsivoglia genere. Nelle donne, la lingua custodisce insomma il suo futuro. E, al di là della lingua, gli esseri umani hanno sul serio altro, di specifico?