Il clima cambia (anche la lingua) / “Negazionismo” e “negazionista”
Chi ha curiosità per i vivi mutamenti linguistici sarà felice di osservare quanto sotto i suoi occhi sta accadendo in questi anni, in questi mesi, addirittura in questi giorni a negazionismo e negazionista.
Ambedue comparvero nella lingua della storiografia circa settanta anni fa. Valevano ciò che i dizionari ancora registrano in proposito con uniformità. Allora e nel séguito, con negazionismo si designò criticamente e con deplorazione connotativa una “forma estrema del revisionismo storico che reinterpreta[va] circoscritti fenomeni della storia moderna, spec. con riferimento ad avvenimenti connessi al nazismo e al fascismo, arrivando a negarne l’esistenza o la veridicità”. Così, per es., la voce del Grande dizionario italiano dell’uso, promosso da Tullio De Mauro e pubblicato venti anni fa, quando ancora, evidentemente, della frana non si vedeva segno né annuncio.
Negazionista era quindi un “fautore, [un] sostenitore del negazionismo”, come lo si è appena definito. In particolare e rigorosamente, era negazionista chi metteva in dubbio la fondatezza della ricostruzione storica del sistematico sterminio di Ebrei, altre minoranze e oppositori politici messo in atto dai nazisti, con l’attiva complicità dei fascisti. Termini ambedue di un lessico “tecnico-specialistico”, precisa il dizionario menzionato, molto attento alla stratificazione lessicale. Tali sono rimasti per molti decenni, negazionismo e negazionista. Al massimo, la portata della loro designazione si è estesa, restando critica e, per connotazione, censoria, ad altri discutibili tentativi di mettere in dubbio gli accertamenti di crimini contro l’umanità commessi in scenari bellici differenti e più recenti.
Da qualche tempo, a negazionista e a negazionismo sta invece arridendo un successo inatteso e travolgente, che li ha portati ben al di là del discorso storiografico e delle sue anche vibranti polemiche. Non senza un costo, per il trasporto. Erano termini, quindi tendenzialmente univoci; sono diventati parole, si potrebbe dire, servendosi della distinzione messa già a punto sul principio dell’Ottocento da Giacomo Leopardi nelle sue acute annotazioni linguistiche. E come parole ricorrono con abbondanza non solo nella prosa giornalistica, ma anche nella chiacchiera pubblica e persino in quella privata, senza più restrizioni quanto ai temi in discussione. Un marito convinto del tradimento della moglie da prove per lui inconfutabili, a un conoscente che in proposito gli suggerisse cautela o che mettesse in dubbio la saldezza dei suoi convincimenti, potrebbe bene indirizzarsi così: “Ammettilo, stai dalla sua parte, anche davanti all’evidenza. Sei un negazionista!”.
Fuori di questo scherzoso esempio da pochade (tuttavia, non troppo lontano dal vero) e venendo a un tema oggi socialmente scottante e molto presente nel discorso pubblico, negazionismo è, d’elezione, dubitare degli argomenti di chi ha già ben individuato cause e responsabilità del cambiamento climatico in atto. Per antonomasia, sono ormai presentati come negazionisti coloro che hanno appunto un atteggiamento meno assertivo, in proposito, a qualsiasi titolo ed eventualmente non per bieco interesse. A provarlo, basta una veloce e facile ricerca negli archivi dei quotidiani.
Per dirlo con una breve formula generale che potrebbe tornare utile a un lessicografo, negazionismo è non accodarsi a un’opinione cui si fa retoricamente credito, da parte di chi al contrario la sostiene, di un fondamento oggettivo e indiscutibile.
Nella sfera morale e nelle scelte morali che discendono da affermazioni teoretiche, opinioni siffatte fungono, come si sa, da strumento a coloro che sanno conseguentemente a chi affibbiare una colpa. E una volta che si vuole che esse prevalgano e si diffondano, una volta che, sul loro fondamento, il senso comune viene chiamato a emettere il suo verdetto inappellabile (un verdetto che sempre separa nettamente bene e male, buoni e cattivi), può a quel punto passare per negazionista chiunque chieda (ulteriori) verifiche o sollevi dubbi. E lo faccia anche solo per semplice buonsenso, se non proprio per la mera, sprezzante misericordia che (si tende a scordarlo) merita ogni atto umano, tanto quello ipoteticamente colpevole, quanto quello ipoteticamente riparatorio.
Negazionista è così divenuto una taccia, un insulto. Lo lancia al suo avversario un campo eventualmente diverso per ideologia da quello che allo scopo impugna, per es., buonista o, secondo convenienza ma sempre derisoriamente, garantista. L’intento è tuttavia comparabile: gettare immediato discredito e, nel caso di negazionista, un sospetto di abiezione morale sopra chi dubita o la pensa differentemente. Tutto ciò, sotto gli occhi di tutti, ma (a differenza del cambiamento climatico, per es.) in una generale inconsapevolezza.
Del resto, la brama di prevalere ha le sue regole inderogabili e non c’è buona intenzione che possa farsene esente, di modo che (come insegna la storia) la bontà finisce quasi sempre per ingigantire la ferocia (nei casi migliori, solo morale) delle prassi tese ad affermarla. E il numero delle vittime (nei casi migliori, solo morali) delle buone battaglie capita sia talvolta più alto di quello di coloro che le buone battaglie pretendono di soccorrere.
Al di là di tali delicati temi etici e della correlata e rinnovata osservazione di una somiglianza, perlomeno nei modi, tra litiganti d’ogni risma, a chi ha curiosità per i processi linguistici la corrente vicenda di negazionismo e di negazionista mette sotto gli occhi, come si diceva in esordio, un caso interessante. Il processo che li ha fatti diventare parole ha infatti annichilito l’univocità della loro designazione, com’è ovvio appunto accadesse, e ha amplificato la connotazione censoria, spregiativa e di deplorazione, fino a farla diventare il loro contenuto caratterizzante.
Più facile e corriva, perché pronta a farsi sentimento, la connotazione ha in altre parole ingoiato, digerito ed espulso la denotazione e il suo valore teoretico, faticoso da mantenere e da tenere presente. Negazionismo e negazionista erano elementi di un discorso ragionevole, pur se marezzato di passione. Sono divenuti ingredienti a buon mercato di un discorso patetico, gonfio e, quanto ai contenuti, indeterminato, se non generico. Tale discorso evoca un dato di realtà, ma in modo retorico o pretestuoso. Sotto altre forme, l’evocazione somiglia al lugubre e comico “oggettivamente” che, per chi ne tiene memoria, ha secondato il corso di tante tragedie e farse politiche e morali del secolo scorso.
Ai lessicografi, se non vogliono rimanere indietro, non resta che prendere atto di tali mutamenti, con rapidità. Allo stato, chi consulta i loro dizionari per sapere cosa quasi sempre valgono negazionismo e negazionista nel discorso pubblico odierno (e, come s’è detto, già anche nel privato), non ne ricava in effetti un’informazione corretta.