Speciale
L’Africa non è un paese
Quando gli antichi romani scrivevano sulle carte “hic sunt leones”, ammettevano molto onestamente di non sapere molto dell’Africa, se non che c’erano dei leoni. Sono passati due millenni, il mondo è sempre più interconnesso e globalizzato, eppure sembra che nonostante tutto, ancora oggi, sul continente africano aleggi ancora una fitta coltre di pregiudizio, nel migliore dei casi fondato sull’ignoranza, nel peggiore radicato in una delle molte forme di razzismo ancora non sradicate. Nel primo caso, una maggiore conoscenza può portare a un cambiamento nello sguardo, nel secondo è molto difficile sradicare idee fondate sul nulla, perché quel nulla non puoi cancellarlo.
Una bella lezione, per coloro che volessero approfondire le loro conoscenze africane sarebbe quella che ci lancia Dipo Faloyin nel suo provocatorio e intelligente. L’Africa non è un paese (Altrecose, Milano, 2024). Fin dal titolo l’autore, giornalista britannico di origine nigeriana, nato a Chicago ma cresciuto a Lagos (e già la biografia la dice lunga), smonta uno dei tanti modi di pensare sbagliati, cioè che l’Africa sia un tutt’uno. Pensiamo a quante esposizioni di “arte africana” vengono allestite nel mondo occidentale, mettendo insieme opere di provenienza, epoca e significato diversi. Chi oserebbe proporre una mostra di “arte europea”, mescolando Van Dyck con Raffaello, Pollock con Monet? Eppure, con l’arte o con la musica africane ci permettiamo di farlo. Così come ci permettiamo di riempire i nostri musei di oggetti letteralmente rubati o sottratti con la forza e l’inganno alle popolazioni africane in epoca coloniale (e non solo), inventandoci mille scuse o arrampicandoci sui vetri dell’universalità per non restituirle. A tale proposito vengono, infatti, ricordate le “performance” simboliche dell’artista attivista congolese Mwazulu Diyabanza, noto anche come il Robin Hood della restituzione. Cosa fanno Diyabanza e i suoi? Entrano semplicemente in un museo etnografico (Parigi, Londra, Tervuren) scelgono uno degli oggetti africani esposti e, in modo del tutto naturale, lo prendono e lo portano fuori dal museo, passando spesso con nonchalance davanti ai guardiani. Il loro non vuole essere un furto, ma un’azione dimostrativa, per sensibilizzare l’opinione pubblica sul complesso e spinoso tema della restituzione del patrimonio artistico sottratto all’Africa.
Faloyin mescola l’ironia con la narrazione seria e documentata, per farci riflettere sui diversi problemi attuali dei diversi Stati africani, unificati forse da una cosa sola: la tragica, seppur diversa esperienza del colonialismo e la sua deleteria eredità. A partire dai confini e dal concetto di Stato, che ha stravolto antichi equilibri, che non potevano certo dirsi perfetti, ma sicuramente più adeguati di quelli attuali. Senza mai cadere nell’esaltazione di un passato mitico, come talvolta accade ad alcuni intellettuali della diaspora, l’autore mette in luce le efferatezze degli europei e la frattura della storia. Quelli che oggi conosciamo come Stati africani non sono nati da uno sviluppo endogeno, ma tracciati da mano straniera, sulla base di interessi geopolitici ed economici.
Ecco allora che l’autore parte all’attacco di un altro luogo comune: che l’Africa (una sola, s’intende, senza distinzioni) sia totalmente in mano a feroci dittatori sanguinari. Faloyin non nega affatto che ci siano stati (e che ci siano) presidenti che usano la violenza, ma non si deve fare di tutta l’erba un fascio. Ci sono Paesi virtuosi, che stanno seguendo processi di democratizzazione. Non dimentichiamo, che stiamo chiedendo a 54 paesi di fare in sessant’anni ciò che il mondo occidentale ha impiegato secoli per raggiungere. Da questo dato nasce un’interessante riflessione sul fatto che, dato il breve tempo trascorso dalla decolonizzazione, molti “padri della patria”, eroi delle battaglie anticoloniali, sono ancora in vita e non si fanno da parte per lasciare spazio all’innovazione. Inoltre, spesso questi “dinosauri” hanno dato vita a un sistema clientelare, che paralizza ogni tentativo di trasformazione.
Accusare di violenza i colonialisti sarebbe cosa scontata, se si fermasse lì. Sono molti gli europei, che riconoscono le colpe del passato e che proprio per questo tentano in qualche modo di rimediare. Ecco allora che la penna tagliente di Faloyin spinge l’affondo, mettendo a nudo il mito capovolto. Al crudele e spietato colonialista, convinto che solo con la forza si poteva “civilizzare” gli africani o, in caso di fallimento, sterminarli, si è sostituito un altro protagonista: “il salvatore bianco”. La cooperazione, il volontariato ecco le nuove forme di occupazione degli spazi della storia. Che sia il senso di colpa oppure un sincero slancio umanitario, sono ancora i bianchi a occuparsi degli africani, ad aiutarli. In piena buona fede, certo, ma facendo finta di non vedere che permane l’idea vetero colonialista che gli africani non possono farcela da soli, che devono essere aiutati da noi. Solo così può cambiare la storia. Così come si finge (o, peggio, si ignora) di fare parte dello stesso sistema che strangola le già deboli economie africane. Basti pensare ai prodotti messi sul mercato in dumping dall’Unione Europea o dagli Stati Uniti, che finiscono per costare meno di quelli locali, in Paesi dove il reddito annuale arriva a malapena a mille dollari.
Capitolo dopo capitolo Faloyin smantella l’immaginario diffuso che in Africa ci siano solo dittature (sono sette su cinquantaquattro Stati), che ci sia solo povertà, mentre alcuni Paesi africani possiedono risorse di un valore immenso; che la gente sia legata a superstizioni ataviche e arriva a mettere in ridicolo tali nostre credenze, suggerendo, con tagliente ironia, consigli su come parlare di Africa, ipotizzando la sceneggiatura di un film che ricalchi, appunto i luoghi comuni che piacciono agli occidentali.
Sembra proprio impossibile pensare all’Africa non come un tutt’uno, ma come un mosaico di differenze, applicare a quel continente gli stessi criteri usati per il resto del mondo, pensare ai Paesi africani inseriti, nel bene o nel male, nella modernità, nella contemporaneità. Quanto tempo ci vorrà ancora prima che ci accorgiamo che in Africa “leones non sunt”?