Che cos’è la realtà? / L’analisi sotto sequestro

7 Settembre 2017

Realtà è l'unica parola che senza virgolette non significa niente”.  (Vladimir Nabokov, Intransigenze.)

 

L’episodio al centro di questo libro, avvenuto in una stanza d’analisi di Bruxelles esattamente cinquantanni fa – era il dicembre del 1967 – non smette di interrogarci: “Che cos’è la realtà?” chiede il paziente Jean-Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono, al suo psicoanalista che lo accusa di essere “pericoloso perché misconosce la realtà”. Abrahams è sicuramente un paziente delirante e dunque, in più punti e in ripetute occasioni, sembra davvero mancare l’appuntamento col principio di realtà, ma il dottor Van Nypelseer, da parte sua, pare aver dimenticato l’insegnamento di Nabokov che ho scelto di porre in epigrafe, appare cioè troppo sicuro di sapere che cosa sia la realtà o, se si preferisce, come stiano le cose. Egli, commenterà Jean-Paul Sartre, “decide da solo, sovranamente, di quel che è il reale”, lo fa dall’alto dell’autorevolezza che gli viene dalla mancata reciprocità della relazione terapeutica, dal fatto di essere un dottore sano e non un paziente malato. Eccoci allora al cuore dell’analisi, quale che sia il suo indirizzo – come le molte differenti voci di questo prezioso libro testimoniano.

 

Essa deve certamente sempre fare i conti col principio di realtà ma deve altrettanto bene sapere di muoversi sul piano delle interpretazioni, delle narrazioni, delle fantasie, delle ricostruzioni e delle rielaborazioni di qualcosa che è sempre sfuggente e che trascende ogni possibilità di essere definitivamente afferrato, com-preso, tradotto nel proprio linguaggio, ossia nella propria visione del mondo. Ogni presunzione di conoscere la verità, non solo sul discorso dell’altro ma persino sul proprio, la allontana dalla sua più profonda peculiarità. Ma procediamo per ordine: tre anni dopo aver unilateralmente interrotto la sua terapia analitica, Abrahams torna dall’analista dal quale, sin dalla prima adolescenza, il padre, non sappiamo per quale motivo, lo aveva obbligato ad andare. Porta con se un magnetofono con il quale intende registrare la seduta nella quale chiede al suo analista di rendere conto di quanto accaduto durante i quindici anni di analisi, svoltisi con due, tre sedute a settimana. Il dottor Van Nypelseer si oppone a questa richiesta e pone un aut aut al paziente: o spegne il magnetofono o la seduta non avrà luogo e dovrà abbandonare la stanza d’analisi.

 


Abrahams si oppone a sua volta e di fatto tiene sotto sequestro l’analista: stacca violentemente il telefono con il quale questi voleva chiamare la sicurezza, gli getta a terra gli occhiali, si pone di fronte all’unica porta che permette di uscire tanto che, verso la fine dell’ora, Van Nypelseer cercherà persino di fuggire dalla finestra. L’uomo col magnetofono gli muove diverse accuse: lo psichiatra non l’ha curato perché l’analisi non è in grado di guarire le persone, come millanterebbe di poter fare; anzi: con il suo modo di procedere l’analisi gli ha fatto disimparare  a guardare le persone, a relazionarsi con loro: “non si può guarire là sopra (dice indicando il divano). È impossibile! E lei stesso, lei non è guarito perché ha passato troppi anni là sopra. Lei non osa guardare la gente in faccia. Poco fa lei ha cominciato a dirmi di guardare in faccia i miei fantasmi. Non avrei mai potuto guardare in faccia nulla. Lei mi ha obbligato a voltarle le spalle e non è così che si guarisce la gente” (riferimento alla posizione che il paziente assume nel lettino rispetto all’analista). Senza entrare nel merito delle questioni sollevate – non lo farà mai – lo psichiatra accusa Abrahams di essere violento proprio perché impone, contro la sua volontà, lo strumento di registrazione. Questi ribatte: “e la tortura morale? Come la mette con la tortura morale”, operata, a suo dire dalla psicoterapia che gli è stata imposta? “La sua è una violenza fisica”, risponde Van Nypelseer, sottointendendo che, come tale, è necessariamente più grave e minacciosa di quella psicologica o morale.

 

Lo psichiatra è comprensibilmente, davvero spaventato; prega sua moglie Lulù di chiamare la polizia che effettivamente arriva e arresta Abrahams, che verrà internato in un ospedale psichiatrico dal quale, però, riuscirà a fuggire. Sbobinerà disciplinatamente l’intera discussione e, un anno dopo, la spedirà alla celebre rivista francese Les Temps Modernes di Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir. Nonostante i pareri negativi dello psicoanalista Pontalis e dello scrittore Pinguad, membri della redazione della rivista, l’articolo verrà pubblicato nel 1969: Sartre pubblicherà sia le ragioni della sua scelta sia quelle contrarie di Pinguad e Pontalis. Da qui nascerà una serie di citazioni e rimandi a questo episodio che passeranno per L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, (1973) L’erba voglio (1977) di Fachinelli, Anversa di Roberto Bolaño (2002) e molto altro ancora. Oggi un libro pubblicato da Ombre Corte con la curatela di Giacomo Conserva, Pietro Barbetta e Enrico Valtellina, (Un singolare gatto selvatico. Jean-Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono) ripropone nella prima sezione, come già aveva fatto Fachinelli nel 1977, l’intero dialogo, le considerazioni di Sartre, Pontalis e Pinguad nella rivista e l’articolo dello stesso Fachinelli ma li arricchisce, nella parte seconda, con contributi che ripercorrono la vita di Abrahams e si interrogano sull’attualità della sua contestazione da punti di vista decisamente originali e differenti ai quali, qui, posso solamente accennare in maniera necessariamente parziale e sintetica.

 

Pietro Barbetta, partendo dall’interpretazione che ne diede Elvio Fachinelli, individua convergenze interessanti tra quello che chiama il Milan Approch, nel quale si fa strada un ripensamento radicale delle dinamiche del setting analitico nella scuola sistemica di Milano; Giacomo Conserva evidenzia la portata filosofica della critica di Abrahams paragonando il suo movimento di smascheramento al mito della caverna di Platone; Antonello Sciacchitano analizza le dinamiche della paranoia post analisi e attacca la pretesa, a suo dire errata, della psicoanalisi di considerarsi terapia medica; Lea  Meandri rievoca il clima culturale in cui sorse e si mosse L’erba voglio – libro, rivista, casa editrice – e ricorda il contributo, anche in rapporto alla psicoanalisi, dato dal movimento femminista di quegli anni anche nella rivista, alla quale partecipò con contributi molto importanti. Alfredo Riponi si dedica invece all’inedito scritto di Abrahams “Phallophonie” nel quale scorge nessi con la letteratura moderna, specie di Beckett e di Guyotat. La parte terza del libro, infatti, si compone di altri articoli di Abrahams e di un contributo di Laura Erber su Sophie Podolsky grazie al quale si dà un’idea dell’ambiente culturale nel quale Abrahams visse.

 

L’assunto di Sartre per il quale “il capovolgimento operato da Abrahams  dimostra chiaramente che la relazione analitica è di per sé stessa violenta, qualunque sia la coppia medico-paziente” viene ripreso e più analiticamente commentato da Fachinelli che vi scorge i segni di “una divaricazione storica dell’analisi” in qualche modo già in atto in Freud: dal un lato la tendenza di certi analisti a ricercare “la parola incontaminata” in direzione di “una semiotica psicoanalitica” che alla ricerca della traducibilità di ciò che parola non è, delinea “la somministrazione del codice della normalità”. Abrahams, da una parte, cerca di inchiodare l’analista a quanto dice, uscendo dal gioco delle interpretazioni, dall’altra  “come del resto altri soggetti “difficili”, “impossibili”, “border line”, psicotici… – propone un movimento di cui occorre sottolineare insieme la problematicità e la positività e che passa attraverso la parola contaminata, vale a dire una parola non scissa, o il meno scissa possibile, da ciò che non è parola”. Anche Barbetta parte dallo “svelamento della violenza nascosta sotto il metodo analitico conformista e ortodosso” operata dal magnetofono di Abrahams, e ricorda come dopo questo gesto l’uso del magnetofono – di cui Abrahams voleva servirsi per sovvertire i rapporti di potere all’interno della relazione analitica – entrò nelle pratiche psicoterapeutiche di quattro psicoanalisti fondatori dell’approccio sistemico familiare a Milano: Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin, Giuliana Prata e Mara Selvini Palazzoli, aprendo la strada a diversi emuli, anche di altri indirizzi, al punto che, “per la prima volta, forse, in Europa, sono i terapeuti che chiedono alle persone che frequentano la terapia di registrare le sedute.

 

Contro la progressiva trasformazione della psicoanalisi, originariamente liberale, in una Chiesa Romana che scaccia tutti i suoi figli eretici o quanto meno poco ortodossi – da Wilhelm Reich a Lacan – si registrano dunque, nei primi anni ‘70, due fenomeni opposti: uno apertamente anti-psicoanalitico e l’altro (proprio in particolare di Basaglia, Laing, Cooper, Fanon, Guattari – radicalmente riformatore di questa prassi che cercherà di emancipare dalle pratiche discorsive della medicina e dai suoi paradigmi positivisitici. Da quel momento nasceranno “una destra e una sinistra psiconalitica. La Destra continuerà a sostenere (e tutt’ora sostiene) che le parole chiave del metodo psicoanalitico siano “neutralità”, “interpretazione”, “resistenza”, “difesa”. La sinistra riprenderà, grazie anche al Diario clinico di Ferenczi, la questione del corpo, dell’accoglienza, della tenerezza, del transfert e del co-transfert, prendendo sempre posizione per il soggetto che frequenta la terapia.”

 

In questo senso il contributo di Antonello Sciacchitano, s’inserisce senz’altro nella psicoanalisi di sinistra che vuole “portare a termine la trasizione della psicoanalisi dall’ipnosi alla scienza” riconsiderando, come proprio l’esperienza di Abrahams suggerisce, “l’oggetto della scienza”. Per non divenire a nostra volta magnetofoni, occorre “riformulare tutta la teoria psicoanalitica, che non può essere quella eziologica, a suon di pulsioni, di Freud, ma nemmeno quella logocentrica di Lacan, a suon di significanti, o quella mitologica di Jung e di molti altri” in un processo che dall’analisi duale dovrebbe portare “all’analisi dell’analisi”. Un processo che abbia il coraggio di guardare quel moto senza oggetto che è il desiderio infinito, e che si capaciti di come “per poter lavorare concretamente con la gente – ricorda Lea Melandri riprendendo una nota redazionale del primo numero dell’Erba voglio –, bisogna passare attraverso i suoi sogni”. Sogni non solo individuali ma collettivi, capaci di comprendere come “servitù e liberazione, oggi, riguardano tutti o nessuno”. Temi e prospettive di assoluta attualità, come il rifiuto di chiudersi in un’organizzazione, di sottomettersi ad un linguaggio unico e di prendere asilo “nel ghetto della sinistra infelice, (…) gelato nella propria impotenza” che, ricostruendo le vicende di un gruppo di persone che ha saputo incarnarli, lasciano la speranza che sia possibile ripeterne, ripensata, l’esperienza.

Un libro che svela dunque come in gioco nella pratica psicoanalica ci sia sempre, inevitabilmente, molto di più di quanto le sue cosiddette regole procedurali fissino e che mette in guardia dal rischio di accogliere acriticamente il modus operandi del nostro tempo, le sue modalità di pensiero, i suoi giudizi di valore, la sua “realtà”. 

 

G. Conserva, P. Barbetta e E. Valtellina (a cura di ), Un singolare gatto selvatico. Jean-Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono. Ombre corte, Verona, 2017, pp 151, euro 14.

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