Perché il male?
Ricordate le polemiche che suscitò Hannah Arendt quando scrisse che alla base del terribile genocidio perpetrato da Adolf Eichmann non c’era un animo intrinsecamente malvagio – come aveva precedentemente sostenuto nel suo celebre Le origini del totalitarismo – ma una disarmante inconsapevolezza psico-emotiva del significato delle azioni che aveva compiuto, ossia dei crimini terribili che aveva commesso? Dal punto di vista psicoanalitico potremmo dire che Eichmann fu un individuo privo di scrupoli morali, tanto da non mostrare alcuna traccia di sensi di colpa, perché fu, più radicalmente, un “uomo senza inconscio”.
Questa efficace espressione, scelta per tutt’altre ragioni da Massimo Recalcati come titolo di un suo felice libro di analisi clinica e sociale, è al centro dell’ultimo lavoro di Massimo Diana Unde Malum? L’enigma della distruttività umana (Mimesis/Philo-Pratiche filosofiche, Sesto San Giovanni, 2022, pp. 154, euro 15) per il quale uomini senza inconscio sono coloro che “non hanno avuto la possibilità di riconoscere e integrare i propri vissuti interiori, che non sono stati aiutati a entrare in contatto con gli affetti connessi ai propri traumi infantili, che per questo non sanno sintonizzarsi con il proprio mondo emotivo, né, tanto meno, empatizzare con quello degli altri” (p. 51).
Naturalmente questa condizione, che come ogni altra emerge e prende forma dalla rete di relazioni che ci hanno intessuto biograficamente, non conduce automaticamente al sadismo ma può innescare un circolo vizioso nel processo di formazione dell’individuo, il cui portato può ricadere su più generazioni. Al cuore di questi fenomeni sarebbe infatti possibile riscontrare gli esiti nefasti di un ambiente non “sufficientemente buono”, per parafrasare Winnicott, quando non decisamente disfunzionale o molesto e abusante nei confronti dei bambini, una condizione alla quale ha attivamente concorso anche la “pedagogia nera” incentrata su una vera e propria “persecuzione del bambino”, che già Alice Miller denunciava come originaria causa della violenza (alla quale era stato sottoposto anche Eichmann bambino).
Ancora pochi anni fa, scriveva Miller nel 1980, la società solidarizzava con i genitori che facevano “rigare dritto” i loro figli “educandoli” con modalità punitive e umilianti, facendo degli infanti i primi capri espiatori delle angosce e delle forme d’ira irriflesse dei genitori, spesso a loro volta deprivati di adeguate cure durante l’infanzia: “si picchiano i propri figli per non prendere atto di cosa ci hanno fatto i nostri genitori”, concludeva Miller.
Si tratta di un fenomeno assai noto e puntualmente riscontrabile nella stanza d’analisi: chi ha subito violenza la ripropone, ma se l’ha subita proprio da chi avrebbe dovuto proteggerlo, ossia da quei genitori di cui nell’infanzia ha disperatamente bisogno, il bambino è costretto, per sopravvivere psicologicamente, a rimuovere la violenza subita, finendo spesso per idealizzare i propri aggressori, introiettando il loro modo di vedere e di pensare (la lezione di Ferenczi) e assumendosi la responsabilità e la colpa dei maltrattamenti subiti, cosicché “i sentimenti di rabbia, impotenza, disperazione, paura e dolore, ormai scissi dallo sfondo che li ha causati, si esprimeranno proiettivamente in atti distruttivi o autodistruttivi” (p. 54).
È il famoso fenomeno della coazione a ripetere: tutto ciò che non è stato compreso, chiede di essere visto e si ripresenta ripetutamente, sotto forme simili, finché non viene preso in carico, riconosciuto ed elaborato, per quanto possibile. Appoggiandosi proprio ai testi di Miller, Recalcati (Ritorno a J. P. Sartre. Esistenza, infanzia, desiderio, Einaudi, Torino, 2021) e Zoja (Paranoia. La follia che fa la storia, Bollati Boringhieri, Torino, 2011), Massimo Diana evidenzia come l’infanzia infelice, spesso “educata” proprio alla luce della pedagogia nera di cui sono state vittime alcuni dei maggiori criminali della storia del secolo scorso (Hitler e Stalin ad esempio, pp. 71-90) possa aiutare a comprendere le dinamiche paranoiche e distruttive dei due principali totalitarismi del secolo scorso e permetta di comprendere, ancora oggi, quali potrebbero essere i rimedi contro il male futuro.
Ad alcuni la tesi potrebbe sembrare riduttiva, non fosse altro perché le cause dei fenomeni complessi, come lo è il male, non possono che essere a loro volta complesse, ma le ragioni di questa prospettiva sono ben fissate da una considerazione di Primo Levi secondo il quale, “i mostri esistono ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi, sono più pericolosi gli uomini comuni”. All’origine del male non ci sarebbe dunque una “rivalità mimetica”, come l’ha definita René Girard (che porterebbe Caino ad invidiare Abele sino ad ucciderlo) ma una ferita originaria, quella di un figlio non adeguatamente visto da un genitore non sufficientemente buono – Dio – che gli preferisce il fratello e disprezza e rifiuta quello che secondo Zoja sarebbe il primo paranoico della storia (p. 25).
Psicologicamente parlando la paranoia è un fenomeno caratterizzato dalla fissazione alla posizione schizo-paranoide, che consiste nello scaricare sempre fuori di sé le ragioni del male, attribuendole a un nemico. Questo movimento conduce alla ricerca di un capro espiatorio che nella storia dell’umanità è stato facilitato dal fenomeno della pseudospeciazione, ossia dalle dinamiche culturali che permettono ad alcuni membri del genere umano di considerare altri membri della medesima specie (com’è noto esiste una sola razza ed è quella umana) come radicalmente e irriducibilmente diversi e inferiori.
Questo fenomeno, individuato dall’etologo Eibl-Eibesfeldt e riconosciuto come esclusivamente proprio del genere umano, permette di superare le inibizioni morali che solitamente sostengono piuttosto la solidarietà di specie, trasformando l’altro di turno in un individuo che non ha, non può avere, nulla a che fare con noi, perché costituisce la quintessenza del male.
La storia è lunghissima e tristemente attuale: basti pensare a San Bernardo da Chiaravalle che per conciliare le violenze delle crociate con i comandamenti cristiani sostenne che l’omicidio era un peccato mortale ma non l’islamicidio, perché gli infedeli costituivano, per l’appunto, una specie a parte degna di morte. La persecuzione degli ebrei nel corso dei secoli, delle donne, dei “diversi” in generale (il più grande genocidio della storia umana perpetrato contro i nativi americani dagli “esploratori europei”) ne costituiscono efficaci esempi, ma in ogni dichiarazione di guerra, di tutti i tempi, è possibile scorgere la retorica del male assoluto, della “disumanità” del nemico e della sua follia.
In questo aiuta molto il contagio paranoico, già di per sé particolarmente significativo, oggi amplificato dalle modalità sensazionalistiche dei media, e particolarmente presente proprio negli individui con una certa fragilità psichica, quelle persone senza inconscio, prive di familiarità con il proprio mondo interiore, con le ferite e gli irrisolti che si agitano come mostri al loro interno, che agiscono reattivamente, saltando letteralmente la fase critico-riflessiva del pensiero (paranoia significa letteralmente andare al di là – para – del pensiero – nous), nel tentativo di prendere le distanze dal male e dalla paura che fa, addossandolo esclusivamente a un nemico o, comunque, a un responsabile esterno.
Dopo aver riportato numerosi esempi storici, illuminandoli secondo l’ermeneutica psicoanalitica, il libro indica nella psicoanalisi, e nella via della consapevolezza in generale, i principali strumenti per uscire dal terribile circolo vizioso del male, che l’autore considera esclusivamente reattivo, sottolineando i possibili correttivi che la clinica psicoanalitica ha saputo mettere in campo proprio nei confronti delle suddette forme di alimentazione del male – paranoia, pseudospeciazione e capro espiatorio.
L’ultimo capitolo sottolinea invece l’esigenza di una prevenzione che sappia educare alla fiducia, alla libertà, all’empatia e alla responsabilità incentrate, questa volta, sulla testimonianza-insegnamento di Alexander Neill fondatore, assieme alla moglie, di una scuola alternativa che partiva dalla premessa che “non ci sono ragazzi difficili ma adulti difficili”. Si tratta di un’esperienza rivoluzionaria che ebbe vita in Scozia, dal 1924 al 1973, quando il suo ideatore e fondatore morì.
Una vera e propria utopia pedagogica realizzata, nella quale ogni decisione veniva presa collegialmente dai membri della comunità e nella quale il parere e, alla fine, il voto di uno studente valeva esattamente come quello di un insegnante e di qualsiasi altro operatore. Neil sostenne che lo scopo di questa scuola non fosse di preparare gli allievi alla professione ma alla felicità e che il risultato poteva dirsi raggiunto per la stragrande maggioranza dei ragazzi che l’avevano frequentata. I valori che abbiamo indicato sopra sembrano essere stati realmente al centro di questo progetto educativo estremamente suggestivo, ma a mio parere non privo – come ogni fenomeno umano – di ombre.
Da insegnante diffido delle soluzioni che attribuiscono a un’unica agenzia educativa la formazione dei bambini, e degli adolescenti in generale specie, riscontrando sempre più – nella stanza d’analisi e proprio sulla stregua di quanto questo libro sostiene – che la dimensione familiare non può essere messa tra parentesi né commissariata da un’altra autorità.
Penso piuttosto alla necessità di valorizzare maggiormente forme di consulenza pedagogica che sappiano aiutare i genitori a lavorare innanzitutto sui loro impliciti psico-emotivi, sugli impliciti “educativi” e sui temi irrisolti che inevitabilmente si affacciano in quello che è forse il più difficile dei compiti e, al contempo, creare un ambiente “sufficientemente buono” all’interno del quale aiutare i loro figli a manifestare ed esprimere i propri bisogni e le proprie esigenze in un’ottica che coinvolga e valorizzi tutti i membri della famiglia, nella differenza dei ruoli e delle responsabilità, per una cura più consapevole delle generazioni a cui è affidato il futuro. Una relazione d’aiuto che ha evidenti risvolti politici e che ha il vantaggio, rispetto all’analisi, di poter intervenire direttamente in età evolutiva, prevenendo anziché tentando di sanare le ferite.