La critica d'arte tra creatività e gioco

5 Giugno 2022

La critica d'arte è ovunque in crisi. Eppure non è mai stata tanto in salute. Lo scriveva quasi vent'anni fa James Elkins all'inizio del suo saggio sullo stato della critica d'arte (What Happened to Art criticism?, 2003), ma sembra una constatazione scritta oggi. Se per critica intendiamo genericamente il discorso sull'arte, è infatti difficile sfuggire all'impressione che l'arte attuale sia sommersa e quasi soffocata da un'ipertrofia del discorso, un chiacchiericcio costante in cui è spesso difficile distinguere la critica dalla promozione, l'interpretazione dalla pubblicità.

 

Sophie KO, Metaxy, 2021.
Sophie KO, Metaxy, 2021.

Per questo il titolo scelto da Federico Ferrari per il suo libro, Il silenzio dell'arte (Luca Sossella Editore, 2021) indica una netta scelta controcorrente. In realtà quel silenzio fa riferimento a due contesti temporali diversi. Il primo risale al momento in cui l'autore, oggi docente di filosofia dell'arte all’Accademia di Brera, scrisse il primo, denso saggio contenuto nel libro, intitolato Lo spazio critico. Era il 2003, lo stesso anno del testo di Elkins, e il silenzio, a suo dire, era la quasi totale mancanza di un punto di vista davvero critico, cioè alternativo all'apologia della nuova arte spettacolarizzata allora in grande ascesa. Negli anni successivi – a cui risalgono i testi che compongono la seconda parte del libro, originariamente pubblicati sotto l'emblematico titolo Il re è nudo – Ferrari ha insistito su quei temi e sulla polemica contro il mondo dell'arte.

Il secondo contesto è invece quello attuale, di cui parla l'introduzione che dà il titolo al libro. Ed è proprio guardando al ventennio trascorso dal suo primo saggio, che Ferrari nota come le voci critiche si sono andate diffondendo e hanno finito per diventare un «pacifico e innocuo luogo comune». È «il silenzio più insidioso»: «quando le parole non corrispondono più alle cose».

Anche l'arte, dominata da un eccesso di comunicazione e da una «volontà ipersignificante», è diventata «uno spettacolo che non dice più nulla»: ridotta a un parco giochi o, quando vuol essere impegnata, a un «tentativo di lavaggio di coscienza collettivo di fronte ai problemi dell’attualità socio-politica».

Il silenzio del titolo allude anche a questo ipnotico rumore bianco: «Il silenzio dell’arte è, oggi piú che mai, indice di una mancanza di senso, di una mancanza di visione, di una assenza di parole e immagini profetiche, capaci cioè di mostrare il mondo che viene».

Alice Cattaneo, Untitled, 2011.
Alice Cattaneo, Untitled, 2011.

Ma il silenzio, come si legge alla fine dell'introduzione, può essere anche una via d'uscita verso cui artisti e critici possono guardare: uno spazio enigmatico che non allude tanto a una trascendenza, quanto a una «alterità»; uno squarcio che lasci aperta «la possibilità di una parola ulteriore» e riporti «all'enigma stesso della creazione, della possibilità infinita che sta prima del creato. Permettere all’arte di riappropriarsi di questo silenzio significa, forse, dare all’umanità la possibilità di un nuovo inizio».

Creazione, nuovo inizio per l'umanità: parole d'ordine impegnative, nelle quali si sente una carica etico-politica e un certo orgoglioso anacronismo, perché sono parole che riecheggiano il primo romanticismo e quel modernismo avanguardistico che non aveva ancora perso, come avrebbe poi fatto il postmoderno, la fede nell'utopia e nel futuro dell'arte. In un testo contenuto nella seconda parte del libro, Ferrari arriva addirittura a sostenere la necessità di «una nuova critica del giudizio» riprendendo «l’abissalità del gesto kantiano» e, con esso, «il gesto inaugurale della modernità». Questo neo-modernismo può essere un'alternativa radicale al silenzio assordante della critica odierna?

Lo spazio critico

Nel primo saggio, Lo spazio critico, Ferrari affronta la questione della pratica critica e curatoriale da un punto di vista teorico-filosofico. Lo «spazio critico» è innanzitutto uno spazio aperto all'impensato e all'imprevisto; e deve fondarsi su una memoria intesa non come continuum temporale, ma come «costellazione di ricordi, opere e passioni». In questo modo può diventare luogo di «nuove genesi, di nuove e continue aperture di senso». Anche se il visitatore (o il lettore) è chiamato a creare una propria «inedita configurazione di frammenti», il critico ha il compito di indicare una via, di rintracciare «a partire da un punto di vista definito, una possibile costellazione di frammenti del passato». Infatti, a differenza del critico postmoderno dal pensiero debole, il critico auspicato da Ferrari crede in «un punto di vita “sistematico” e “universale”», che però non è un'assiologia dogmatica, ma si manifesta soltanto come «l’incontro e la concatenazione mobile dei frammenti».

In questo modo, il critico spezza la subdola catena del mercato e del “gusto” à la page dell'industria spettacolar-culturale, senza rifugiarsi nei bei tempi passati, bensì arrischiandosi su un percorso «instabile, lacerante e pericoloso», che può «inaugurare la memoria dell'avvenire». Il suo compito è consentire che «il non ancora visto, il non ancora catalogato possa emergere, possa trovare un proprio spazio» mettendo in prospettiva anche l'arte prodotta oggi. È proprio ciò che non fanno i «mediatori dell'immediato», cioè i curatori odierni che hanno rinunciato alla loro funzione critica, limitandosi a «registrare le tracce mnestiche della memoria del mercato».

Danh Vo
Danh Vo, Biennale Venezia, 2019.

Il critico creatore contro il curatore ludico

Ferrari attacca con durezza la figura del curatore contemporaneo, che «nella quasi totalità dei casi […] incarna, purtroppo, la miseria dell’arte e della critica contemporanea», perché, invece di costruire «una reale fruizione democratica della memoria collettiva», si limita a fare «demagogia spettacolare».

Merita ricordare che il testo di cui stiamo parlando, come racconta lo stesso autore in un altro punto del libro, nasce in reazione a una visita alla Biennale di Venezia del 2003 curata da Francesco Bonami e «tesa a teorizzare in modo apologetico una “dittatura dello spettatore”, cioè una forma di ormai avvenuta e pacificata spettacolarizzazione dell’arte, in cui la critica veniva sostituita dallo zapping». Quella stessa Biennale, un paio d'anni dopo il testo di Ferrari, provocò la reazione di un altro saggio che attaccava con altrettanta forza il mondo dell'arte da un punto di vista sociologico: Mercanti d'aura, di Alessandro Dal Lago e Serena Giordano (Laterza, 2006).

Nei due libri la diagnosi è per molti versi simile; la prognosi, assai diversa. Dal Lago e Giordano non credono più all'idea elevata di arte che abbiamo ereditato dal romanticismo e invitano a demistificarne i meccanismi “auratici”: l'arte oggi esprime «il senso profondo di una società mercantile, arida e gerarchizzata» e va guardata con disincanto e non sopravvalutata: «non ci sottomette né ci emancipa, esattamente come lo sport o la gastronomia».

Ferrari crede invece nella possibilità di recuperare una carica utopica dell'arte. E insiste sulla necessità che il critico compia «scelte anche impopolari e rivolte solo a “qualcuno” (a colui che vuol apprendere la fatica e la gioia dell'autonomia di giudizio)». Per farlo dev'essere anch'egli un creatore, perché «attraverso il medium dell’opera crea una via d’accesso a un tempo comune, istituendo una memoria collettiva e universale». Non si affida a un passato «predefinito» come fa la critica reazionaria; né si crogiola nell’assenza di modelli come fa la critica «debole-parodistica-ludica», che lascia il campo ai mercanti d'aura e alla mummificazione spettacolare e reazionaria del passato.

Gianni Caravaggio, Seed Image, 2011.
Gianni Caravaggio, Seed Image, 2011.

Lo sguardo e la visione

Con quali strumenti o capacità il critico può fare tutto ciò? Per Ferrari serve uno sguardo particolare, quello che si apre alla visione. «Il solo potere di cui la critica può disporre è quello del proprio sguardo [...] lo sguardo è l’unica fonte di resistenza all’appiattimento planetario: lo sguardo è tutto». Questo sguardo critico si definisce innanzitutto a partire da ciò a cui si oppone: lo sguardo dello spettatore dell'arte attuale, irretito dallo spettacolo. Lo spettatore vede tutto come «un enorme e continuo spettacolo, posto a distanza», e «si sente sempre immune da ciò che vede: guarda con curiosità o timore, ma la cosa non lo riguarda veramente». Per contro, lo sguardo capace di aprirsi alla visione è quello che contagia e inquieta nel profondo, e nel quale l'immagine è «come una cosa animata» che ricambia lo sguardo del visionario e lo «ri-guarda», nel duplice senso della parola. (Qui Ferrari evoca implicitamente una delle famose metafore benjaminiane dell'aura).

La visione è un «punto di contatto epidermico», che rende possibili «sfioramenti, tangenze, legami». Ma non dobbiamo pensare a una forma di intuizione esoterica, dalla quale anzi Ferrari mette in guardia: la visione non può fare a meno di «una mediazione storico-critica» e di «una formazione permanente alla visione». Infatti è solo «attraverso l’intelletto e i saperi» che il critico può distogliere lo spettatore dallo spettacolo, spingerlo fuori dalla comfort zone della contemplazione a distanza di sicurezza e farlo «accedere alla visione». La quale ha un'altra caratteristica notevole: «ha sempre qualcosa di effimero, di legato a un particolare momento, a un istante irripetibile». Per questo Ferrari, in sintonia con Szeemann, privilegia l'esposizione temporanea, dove il pubblico è consapevole di essere di fronte a «un’occasione unica e irripetibile», a una «trasmissione di esperienze singolari e di testimonianze» dove la visione è anche esperienza del «fluire inarrestabile del tempo».

 

Istante effimero e irripetibile, esperienze singolari e testimonianze: anche in queste parole risuona, benché cambiata di segno, l'aura benjaminiana, col suo hic et nunc e la sua originalità e unicità. Ma senza alcuna nostalgia di un ritorno al passato, verso un'origine sacrale dell'opera d'arte. Anzi, il vero compito del critico è quello di «interrompere il continuum della storia dell’arte, lasciando che qualcosa di invisto appaia». Il critico è «un sovversivo», «un insurrezionalista anarchico» che «cerca senza tregua di far insorgere il tempo dell’arte contro sé stesso, partendo da un’assenza totale di principi regolatori predefiniti». In ciò rispecchia la stessa natura dell'arte, che nell'ultimo testo del libro Ferrari definisce come un nesso inscindibile di «aristocrazia» e «anarchia». Anche la critica dev'essere perciò «un impulso sovversivo», non una «ideologia assiologica», e avere la «capacità di mostrare, tramite la cesura della kritiké téchne, l’invisto – l’inconscio della visione, la latenza dell’arte».

Jean-Baptiste-Siméon Chardin.
Jean-Baptiste-Siméon Chardin, Natura morta.

Mostrare l'invisto

Per mostrare l'invisto il critico deve puntare a fare emergere «nello spazio comune e tangibile di un’esposizione, il punto cieco da cui ognuno, ogni volta in modo diverso, guarda al fatto dell’arte». Il punto cieco non è un invisibile altrove nascosto sotto il visibile, ma un'immagine latente o inconscia che il critico visionario riesce a intravvedere e indicare. Ed è proprio in quel punto cieco che si trova «il centro e l’abisso della contemporaneità, il senso dell’essere contemporanei: uomini e donne, opere e artisti, pensieri e ideologie nell’atto di accadere, simultaneamente ma singolarmente».

L'invisto è dunque «un’esperienza del (proprio) tempo», inteso non in senso cronologico e progressivo, ma come quello «in cui tutte le epoche siano immediatamente co-presenti, in cui ogni opera rinvii a un’anacronia fondamentale, pur rimanendo all’interno della storia». In un testo contenuto nella seconda parte del libro, a proposito del concetto di contemporaneo nell'arte, si legge: «in questo spazio in cui [...] tutto il presente sembra concentrarsi nell’attimo, può apparire, come in un balenare di lampo, la luce diafana di una temporalità altra e immobile. Non più un altrove, un passato perduto o un futuro utopico, ma un hic et nunc cosí puntuale da sfondare, in un cortocircuito folgorante, tutte le dimensioni temporali. […] Allora, forse, con un salto mortale dell’istante su se stesso, l’arte apparirà sub specie aeternitatis».

Il connubio paradossale di eternità e caducità è un ingrediente decisivo del nostro rapporto con l'arte: «Esperienza impossibile della nostra morte e dell'eternità del tutto, di ogni cosa, anche della più misera e insignificante, come quelle rappresentate da Chardin e Rembrandt nei loro quadri – ecco che cos'è l'arte», scrive Ferrari in Sub species aeternitatis, (Diabasis, 2008).

Sono, queste di Ferrari, indicazioni utili per una critica che voglia uscire dal rumore bianco del postmoderno? Bisognerebbe vederle all'opera, applicate a casi paradigmatici. In ogni caso, il sospetto è che stiamo ancora gravitando attorno al buco nero dell'estetica kantiana nel quale si è buttata a capofitto l'estetica romantica: l'enigma simmetrico del gusto e del genio.

Alla fine, l'immagine che meglio rispecchia lo spirito del libro di Ferrari e la sua idea di critica potrebbe essere quella che l'autore propone nell'introduzione a Il re è nudo: il «coraggio adolescenziale di seguire il Vento» di cui parlano alcuni versi di Benjamin: «Non sprecare / questa flebile / forza messianica. / Il vento d’aprile / sulla guancia del fiore, / il tuo viso / nella distesa del prato – / Non sprecarla».

«Inquieta e adolescenziale onestà dello sguardo», «sincerità dei pensieri», radicalità e coraggio teorico: forse basterebbe ricominciare da qui.

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Karla Black