Le donne di Susan Sontag
È decisamente confortante assistere al ritorno in libreria, tra inediti e ristampe, degli scritti e dei diari di Susan Sontag, saggista, romanziera, drammaturga, cineasta, attivista di sinistra e femminista, molto famosa fin dagli anni Sessanta. Una mente multiforme, il cui pensiero, pur muovendosi nelle diverse pieghe della sua contemporaneità, supera in modo folgorante l’esame del tempo che passa, arrivando a noi con la ferma padronanza delle prospettive teoriche e l’ostinazione di un nucleo antagonistico di sorprendente agilità che punta dritto ai problemi, in ragione di un tenace desiderio di conoscenza.
I saggi raccolti in Sulle donne (a cura di David Rieff, Einaudi 2024) coprono gli anni dal 1972 al 1975, e li vorrei scorporare in due momenti per cercare di rendere conto di alcune fra le molte sollecitazioni e riflessioni di un tema sì ben identificato, ma variamente declinato, nel tempo e in paesi diversi. Naturalmente gli scritti sono tutti legati, più o meno sottotraccia, da un contesto che è costituito sempre, nell’orizzonte di lavoro di Sontag, di fatti, viaggi, incontri, libri e lotte. Scenario primo dei suoi bersagli sono, negli anni della guerra del Vietnam, il neoliberismo, l’anticapitalismo e l’anti-imperialismo, la sua postazione quella di un’intellettuale anticonformista e anti-ideologica, anche tra le femministe. Tre saggi e una lunga intervista definiscono il primo campo, con al centro il corpo delle donne, il secondo campo è costituito da un lungo e importante saggio (“Fascino fascista” del 1974, già ristampato in Sotto il segno di Saturno, Nottetempo 2023), da uno scambio polemico, di grande interesse, tra l’autrice e Adrienne Rich (poeta e saggista, suo un classico del femminismo, Nato di donna, 1976), e da un’intervista che riprende e rilancia alcuni momenti della storia intellettuale di Sontag.
Nella prima parte salta agli occhi con grande evidenza come il suo pensiero sia insieme per certi aspetti datato e per molti altri di estrema lungimiranza, il che significa che la lente storica con cui lo leggiamo oggi registra uno sguardo critico, finemente antropologico, in grado di cogliere elementi naturali, culturali, sociali ed economici propri del suo tempo, ma di rivelare anche, spesso, piccole o abbaglianti verità, balenio di intuizioni che ancora ci interrogano. Se prendiamo ad esempio il saggio di apertura, “Invecchiare: due pesi e due misure”, la messa a fuoco più rilevante riguarda la brutalità dell’asse patriarcale che, distribuendo a uomini e donne privilegi e potere in modo violento e dispari, rende l’invecchiamento femminile “osceno”, perché quel corpo è ormai orfano di ogni potenza desiderante (attribuita solo alla giovinezza), e dunque soggetto a un giudizio sociale umiliante, una “demonizzazione della femminilità” che è arrivata persino a cristallizzarsi “in caricature mitiche come la megera, la virago, la vamp e la strega”. Questo da un lato, ma dall’altro è la subalternità interiormente introiettata a rendere le donne complici attive di questa minorità. Distinguendo tra vecchiaia e invecchiamento, Sontag vede in quest’ultimo “un’ordalia dell’immaginazione – un malessere morale, una patologia sociale –” tale che la donna finisce per viversi con “vergogna” e “disgusto”; si innestano qui pagine ancora importanti sul teatro della femminilità, sulle forme di un’autorappresentazione asservita al gusto dominante (e dominato dall’uomo, con “regole” utili a rafforzare “le strutture del potere”), sull’acquiescenza delle donne, nutrita di bugie, riflesso penoso di un insultante paternalismo (ricordo le donne-specchio di Woolf, le donne-alibi di de Beauvoir). I profondi pregiudizi e gli inveterati privilegi maschili, che hanno costruito nei secoli un così radicato “tabù estetico”, indicano chiaramente le forme di una manipolazione culturale tale da lasciare ben salda nelle mani degli uomini la leva del potere, perno e volano di ogni ragionamento sulla sessualità e sul corpo delle donne. Sesso, potere, soldi: non ne siamo uscite del tutto nemmeno oggi, se è vero che le donne vecchie sono diventate una buona fetta del mercato cosmetico mondiale da blandire, e le più giovani, afferma una recente indagine, chiedono come regalo per il loro diciottesimo compleanno, interventi estetici soprattutto sul seno. Affari e profitti colossali.
Altri due scritti intitolati alla bellezza (Fonte di discredito o di potere e Come cambierà?) annodano un filo costante del suo pensiero, il rapporto tra estetica ed etica, e ripropongono la questione del potere, il potere, ben noto a tutte noi, della seduzione, con il suo volto bifronte, che per un verso garantisce il piacere dello scambio erotico e vitale, dall’altro si riduce a potere di “attrarre” e dunque nega se stesso, perché rinuncia a essere trasformativo della relazione. Se “farsi bella” diventa un lavoro, un dovere di sopravvivenza in un mondo diseguale, allora la bellezza stessa diventa in definitiva un’altra fonte di auto-oppressione. Ma ancor peggio, ci racconta il secondo articolo, la bellezza e il consumismo vanno a braccetto, perché non solo la bellezza naturale non esiste, ma in quanto mito è una perversa invenzione maschile che imprigiona le donne e, “democratizzandosi”, fa pensare che si possa e si debba acquisirla per diventare “uniche, eccezionali”.
È il vecchio gioco del divide et impera, pensiero che torna prepotente in “Il terzo mondo delle donne”, assieme ai temi già in parte nominati, dal mai intaccato privilegio maschile, ai pregiudizi, all’oppressione millenaria che radica una delirante idea proprietaria del corpo dell’Altra e che, in Occidente, a fronte dell’avvento della libertà femminile, arriva troppo spesso al femminicidio. Necessità dunque di una rivoluzione economica, culturale, linguistica, necessità che il cambiamento passi da una nuova coscienza femminile, necessità di un’etica sessuale non più incardinata nell’eterosessualità, lotta alla mistica della natura (non a caso La mistica della femminilità, di Betty Friedan è del 1963) e al biologismo, lotta per il potere e non per la parità, lotta agli stereotipi sessuali sul lavoro...
Alcune questioni di questo lungo ragionamento tornano in modo aspro anche nella seconda parte del libro, a partire da “Fascino fascista” in cui, con lucida passione, Sontag mette a fuoco l’intreccio perverso di etica ed estetica sia nel libro dedicato ai Nuba sia nei film documentari di Leni Riefensthal (in particolare Il trionfo della volontà e Olympia), sottolineandone una continuità tale da non permettere alcuna riabilitazione in nome dell’arte (è una tematica questa che ritroviamo nella conversazione finale per la rivista “Salmagundi”, con richami a Kracauer e Benjamin). Premesso che quei due documentari – scrive Sontag – “sono indubbiamente magnifici [...] ma non hanno una reale importanza nella storia del cinema come forma d’arte”, tuttavia un “giro di ruota culturale” non può rendere “irrilevante” il passato nazista di Riefensthal, l’insieme di opere tanto funzionali e fondative dell’estetica fascista da essere finanziate direttamente da Hitler e Goebbels: masse “in inquadrature panoramiche”, “primi piani in cui è isolata una singola passione, una singola, perfetta sottomissione”, estasi della vittoria, culto del capo, e ancora i corpi nudi dei primitivi, i bellissimi Nuba (un’intera comunità destinata all’estinzione), e infine il legame intrinseco e “naturale” fra fascismo e sadomasochismo. Non si salva il passato di una donna solo perché è una donna.
La lettura di questo articolo sul “New York Times” stranisce Adrienne Rich, che obietta a Sontag di non essere ben informata sulle proteste femministe per la presenza di questi film nei diversi festival, ma soprattutto di aver tradito il saggio precedente, Il terzo mondo delle donne, dopo il quale molte si aspettavano opere con “un rigoroso rispecchiamento dei valori femministi”. Ridotto a “puro esercizio intellettuale”, questo scritto secondo Rich mostra Sontag vittima di una vera scissione tra l’acutezza intellettuale e la base emotiva della conoscenza, che è la forma in cui meglio si profila la colonizzazione patriarcale. La replica è esplosiva e tagliente, mostra lo scatto orgoglioso di una mente indipendente, sempre lontana dal cercare approvazione o dall’inchinarsi a qualsiasi dettato ideologico, indica con veemenza una “persistente aberrazione della retorica femminista: l’anti-intellettualismo”, afferma che il “discredito delle virtù normative dell’intelletto [...] è una delle radici del fascismo”. La lotta alla misoginia, che passa dal separare le “eccezionali” da tutte le altre, come ha già scritto Sontag, vive della consapevolezza che una cosa è accettare “con compiacimento” il proprio privilegio partecipando “all’oppressione di altre donne”, dunque tradendole, altra cosa è rivendicare la libertà di pensare, di distinguere, di contestualizzare, per non sacrificare tutto a una generica “storia patriarcale” (“Sono una femminista militante, non una militante femminista”, leggo nel diario). Quel “sospetto nutrito contro il pensiero e le parole rientra a pieno nella grande tradizione dell’anti-intellettualismo americano” ribadirà ancora nel 2002, e le donne non devono peccare dello stesso errore. Errore ancora attuale, sul quale molto avremmo tutti da pensare, così come, per una migliore comprensione, va contestualizzata la sua polemica contro il separatismo, in cui l’affinità con Simone de Beauvoir le impedisce di capire la necessità storica di quel taglio generatore di libertà femminile che dobbiamo a Irigaray e Lonzi. Ora l’ultimo nodo da rilevare, con rispetto e discrezione, riguarda quella crepa interiore, intuita da Rich, e che la lettura dei diari (Rinata e La coscienza imbrigliata nel corpo, Nottetempo) conferma come sua dolorosa ferita, a riprova che se il pensiero vitale e polemico di Susan Sontag è invecchiato benissimo, certo il suo corpo di donna ha pagato un alto prezzo all’eresia della sua mente.